«Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la
propria solitudine, come comunicare con altri», scriveva angosciato
Cesare Pavese il 4 maggio 1939.
E sono innumerevoli gli uomini che
potrebbero assentire.
A questo livello, però, la solitudine non è
più soltanto quell’esperienza trascendentale che pone l’uomo in una
vertiginosa distanza dalla creazione (là dove egli si sente attratto
dall’Assoluto), ma è un’esperienza legata alla propria colpa originale
(e/o attuale) e a tutte le lacerazioni storiche in cui siamo immersi.
Non
è più soltanto la “solitudine buona” che viene prima della comunione e
resiste in essa come un diamante inscalfibile, ma è anche la “solitudine
amara” che viene dopo i mille tradimenti inferti alla comunione con Dio
e con gli uomini.
È perciò una solitudine vissuta, a tratti, come angoscia e condanna.
L’esperienza
dell’amicizia nelle sue innumerevoli sfumature e, soprattutto, quella
dell’amicizia sponsale offrono continuamente agli uomini il metodo
paziente per riconciliare tutta la complessità di cui abbiamo parlato:
il gusto commovente della comunione realizzata; il persistere esigente
di una propria irriducibile e buona solitudine; la coscienza delle colpe
con cui avveleniamo la comunione e corrompiamo la solitudine; la
speranza di essere sempre nuovamente accolti e nuovamente confermati
nella nostra dignità.
In ogni vera amicizia e in ogni vero matrimonio
(non solo in quello cristiano-sacramentale), è concesso alle creature
umane un certo ritorno “al principio”, quando solitudine, comunione,
peccato e un inizio di paziente salvezza furono per la prima volta
esperimentate.
"Un buon matrimonio è quello in cui ognuno dei due
nomina l'altro guardiano della propria solitudine, e gli mostra fiducia,
la più grande possibile... Una volta che si accetta che anche fra gli
esseri umani più vicini continua ad esistere una distanza infinita, può
crescere una forma meravigliosa di vivere uno a fianco all'altro se si
riesce ad amare quella distanza che permette ad ognuno di vedere nella
totalità il profilo dell'altro stagliato contro un ampio cielo" (Rainer
Maria Rilke).
Certo l’esperienza dell’amicizia cristiana e della
famiglia cristiana dovrebbero inondare i credenti di “grazia”: esaltando
e spingendo la solitudine di ciascuno verso la “santa verginità”
propria di ogni creatura; impregnando la coniugalità di esperienze
trinitarie (costruendo “persone in comunione” ricche di ogni fecondità; e
riscattando la fatica del vivere e le inevitabili debolezze con
un’amministrazione continuata di perdono e di eucaristia.
Le comunità
ecclesiali dovrebbero congiuntamente risplendere per verginità (lo
splendore dignitoso di tutte le “originali solitudini”), per
comunionalità (la capacità di trasmettere amore personale attraversando
tutta la densità della materia) e per sacramentalità (far divenire tutto
segno e strumento di grazia salvifica).
Forse però il compito più
urgente non è quello di sottolineare le divergenze sempre più marcate
tra la visione cristiana della persona e della famiglia e la visione
cosiddetta laica, che non comprende nemmeno più i dati (= doni)
fondamentali che i cristiani ancora riconoscono (persona, comunione,
verginità) e ancor meno comprende le rispettive connotazioni
(maschilità/femminilità, sponsalità, irriducibile dignità).
Su questo confronto i cristiani si fanno sempre più timidi o arroccati e i laicisti si fanno sempre più ottusi e scanzonati.
Tra i credenti, solo i mistici si trovano a loro agio.
E
tra i non credenti forse solo i poeti e gli artisti (quando si sentono
un po’ sorpresi dalla gioia o trascinati da una qualche forma di
innamoramento) riescono ancora, a tratti, a intuire e descrivere la
bellezza del disegno originario di Dio.
Quando ciò accade – lo
sappiano o non lo sappiano – essi si trovano collocati di schianto sullo
scenario del primo Paradiso, dove il Creatore è intento (non lo è
sempre?) a disegnare la sua Creazione (e sappiamo che il Padre ha sempre
in mente l’immagine adorabile di suo Figlio Gesù e ha sempre in cuore
l’Amore che li lega entrambi e che continuamente respira sulla
creazione).
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