CHI È
È considerato l’intellettuale cristiano francese d’avanguardia.
Conteso da diversi editori (sia in patria che all’estero), Fabrice
Hadjadj, nonostante la giovane età (è nato nel 1971: sposato, in
attesa del sesto figlio), ha scelto il “basso profilo” di Toulon,
e non la notorietà di Parigi, per la sua carriera di filosofo: qui
insegna filosofia in un liceo e nel seminario diocesano. La sua vera
aspirazione era diventare romanziere (all’attivo ha alcuni lavori
con lo scrittore nichilista Michel Houellebecq); in seguito si è
scoperto filosofo, autore teatrale (a Milano è in corso di
rappresentazione il suo Giobbe) ed esperto d’arte. Convertito al
cristianesimo in età adulta (provene da una famiglia atea di
sinistra, di origine ebraica), Hadjadj ha pubblicato diversi saggi
decisamente controcorrente in cui coniuga la sua profonda conoscenza
filosofica con l’esperienza e la riflessione cristiana. Vanno
ricordati Farcela con la morte (Cittadella), La fede dei demoni
(Marietti), La mistica della carne (Medusa), La terra strada del
cielo (Lindau). Nel 2010 ha conseguito il prestigioso “Grand Prix
de la littérature religiouse” di Francia per il suo testo
sull’ateismo, mentre nel 2006 era stata la volta del “Grand Prix
catholique de littérature” per quello dedicato alla morte.
La morale della Chiesa non è
contro il sesso, è la liberazione sessuale che è contro il sesso,
perché lo riduce a un atto di consumo. La Chiesa è per la
pienezza della sessualità.
La Chiesa insiste sull’unità di
carne e spirito, di anima e corpo. Nessuna posizione al mondo è
più unitaria di quella della Chiesa. Essa dice: siete liberi di
fare quel che volete, ma vi ricordiamo soltanto che se andate in
quella direzione, vi sarà una rottura della vostra unità
personale, questa rottura noi la chiamiamo peccato”.
Fabrice
Hadjadj
“Alcuni rimpiangono la prima
volta che hanno abbracciato una ragazza, senza conoscere l’emozione
di abbracciare per l’ennesima volta la propria moglie”.
Hadjadj: ho scoperto Dio. E al fratello ateo
ora dico…
Prima della mia conversione, devo confessarlo, odiavo questa
parola. Quando qualcuno diceva «Dio», mi sembrava che mettesse fine
a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con l’imbroglio un altro
jolly nel mazzo di carte.
Era un abracadabra, una formula magica e
mi verrebbe da dire addirittura una «soluzione finale», con tutto
ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione del
genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione che,
d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e massiccia.
La mia conversione consistette dapprima in una conversione di
vocabolario.
All’epoca del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero
dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola «Dio» non avesse
nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura un modo
per evitarlo.
Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza nel lessico,
sforzandomi di svicolare così: negazione della morte, volontà di
potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione nevrotica del «papà/
mamma, aiuto!»…
Cos’è accaduto oggi? Sono stato corretto riguardo a tale
controsenso. Questa parola non suona più ai miei orecchi come un
“tappabuchi”, ma come un “apri-abisso”. È probabile che
alcuni la usino come “tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde).
Non la capiscono affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la
musica. Perché il significante «Dio» non discende da un desiderio
di soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza
irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come chiamata.
Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge, all’esigenza di
ciò che mi supera.
Lo ricordo spesso ai seminaristi: «Quando siete in missione di
evangelizzazione e una persona vi dichiara: “Io non credo in Dio”,
state attenti, non saltategli addosso dicendo: “Ma sì, bisogna
credere in Dio!”, perché magari non ci credete neppure voi al
“Dio” di cui sta parlando lui! Chiedetegli prima cosa intende con
quella parola. E chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine
che porta con sé». (…)
Non si tratta di parlare di Dio amando il proprio prossimo, come
se potessimo in verità separare l’uno dall’altro (separare la
parola dall’amore e Dio dal prossimo). Parlare di Dio vuol dire
anche amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo,
perché vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà
l’esistenza e che quindi desidera infinitamente che lui esista.
Capite la difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo
davanti a qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola
di Dio, ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi
tocca ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla
strada Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo
tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio antipatico,
anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come persona è
eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da insegnarmi.
Basta adottare questa giusta prospettiva e ogni fanfarone si
rivela essere parola di Dio. Certo, non tanto per via delle
intenzioni ostili, quanto per la sua presenza. È la Parola di Dio a
conferirgli l’essere. È l’amore di Dio che lo trae fuori dal
nulla. Magari l’ignora, ma se sono un apostolo del Creatore, io non
posso ignorarlo. Devo andare oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima
di tutto del fatto che esiste. E non è una strategia di
comunicazione, in questo caso: non mi sforzo di essere gentile, di
rendermi affabile, di far finta di stare attento per rivendere la mia
mercanzia.
In gioco qui c’è la verità della mia identità cristiana. Se
non sono capace di meravigliarmi sinceramente, di fronte
all’esistenza, per esempio di Michel Onfray (prendo un ateo in
Francia, ma avrei potuto scegliere allo stesso modo un
fondamentalista in Iran), non sono cristiano, perché Michel Onfray,
anche se con la bocca pronuncia idiozie sulla Bibbia, con il suo
essere rimane ugualmente una parola di Dio, certo imbavagliata, ma
comunque divina nella sua apparizione: «Ben Zoma diceva: “Chi è
il sapiente?”. Colui che trova qualcosa da imparare da ogni uomo».
Dio perciò è già presente nel più anticristiano degli uomini,
forse non con la presenza di grazia, ma per lo meno con la presenza
di creazione, con la presenza d’immensità, tanto che, nel momento
in cui parlo di Dio con il mio nemico, devo aver coscienza che Dio è
impegnato interamente a creare il mio nemico con amore. Una posizione
decisamente destabilizzante, devo dire: mi tocca parlargli di Dio
lasciandomi prima interpellare da lui, rifiutarne l’ignoranza
accogliendone la presenza, contestarne l’inimicizia attestandone la
bontà originaria. Ed è proprio lo stupore davanti alla sua bontà
originaria, al di là della nostra antipatia iniziale, che può
permettermi di dominare fino al cuore del nemico.
Fabrice
Hadjadj
[Fonte:
Avvenire, 3.05.13]
Hadjadj: «L’embrione è un essere umano. Gli
scienziati che lo negano sono apprendisti stregoni»
Il filosofo francese attacca la legge
che autorizza la distruzione degli embrioni a fini scientifici:
«Siamo già ben aldilà del “Mondo nuovo” di Huxley»
«Nessuno
scienziato può negare l’evidenza che l’embrione [umano] sia un
essere umano o che sopprimerlo sia un omicidio. Fare dell’essere
umano un materiale disponibile è il colmo dello sfruttamento». Così
il filosofo francese
Fabrice
Hadjadj, in un’intervista al
Le Figaro, ha
commentato alla vigilia della sua approvazione
la
legge che in Francia ha aperto alla sperimentazione sugli
embrioni, che implica la loro distruzione.
OLTRE IL “MIGLIORE DEI MONDI”. L’«evidenza»
a cui si richiama Hadjadj non è stata riconosciuta dal Parlamento
francese, che ha negato all’embrione lo statuto di «persona».
Secondo il filosofo questo è l’unico modo per stare davanti a «una
situazione insostenibile, davanti alla quale la nostra coscienza è
disorientata: [ci sono] 50 mila esseri umani congelati, che verranno
usati come reagenti nei laboratori farmaceutici. È qualcosa di
inimmaginabile. Bisognerebbe ammettere che siamo già ben aldilà de
Il mondo nuovo di Aldous Huxley».
«SCIENZIATI APPRENDISTI STREGONI».
Hadjadj si scaglia anche contro le sottigliezze di quegli scienziati
che considerano gli embrioni delle «persone in divenire» e che
diventeranno tali solo se i genitori lo vorranno: «Gli scienziati
che affermano queste cose sono in realtà adepti della magia nera.
Abracadabra! Se io voglio che l’embrione sia una persona, lo è. Se
non rientra nel mio progetto, pouf!, la persona sparisce! Siamo
davvero nel regno degli apprendisti stregoni. Ma questo modo di
vedere, per quanto faccia pensare alla magia, è tipico della
tecnocrazia. Il suo principio è che la volontà ha il primato
sull’essere, e che tutti i dati naturali, il mio corpo compreso,
non sono altro che materiale da manipolare a seconda dei miei
capricci. (…) Siamo entrati in un’era di manipolazione radicale
(fino alla radice) della vita umana. Con questa legge (…) abbiamo
deciso che la riduzione dell’umano a puro materiale» da manipolare
«è positiva».
«IO RETROGRADO?». E quando l’intervistatore
gli fa notare che queste opinioni potrebbero essere definite
retrograde, si arrabbia: «Ma da dove viene questa retorica da
“Grande balzo in avanti”? È così che Mao ha causato 30 milioni
di morti. È bene fare marcia indietro quando si è sull’orlo del
precipizio. Inoltre, ciò che è davvero retrogrado, è non
proseguire sulla strada aperta dal premio Nobel della medicina, il
professor
Yamanaka»,
che ha scoperto come far “ringiovanire” le cellule staminali
adulte fino allo stato embrionale di pluripotenza.
OSCURANTISMO SCIENTISTA. Il filosofo francese dà
anche una stoccata a René Frydman, che con il biologo Jacques
Testart è considerato il “padre” del primo bebè nato in
provetta in Francia nel 1982. Proprio al
Le Figaro aveva
dichiarato che chiunque si oppone alla manipolazione dell’embrione
è influenzato dalla Chiesa cattolica. Hadjadj gli risponde così:
«[Frydman] si lascia presentare come il “padre del primo bebè in
provetta”. Ma dov’è finito Jacques Testart? Perché non si parla
più di lui come pioniere della fecondazione in vitro? Precisamente
perché, senza essere cattolico, Testart ha denunciato quelli che
“applaudono religiosamente a tutte le produzioni dei laboratori”.
Lui avrebbe molto da dire sull’oscurantismo scientista e i suoi
fanatici odierni».
[Fonte:
Tempi.it, 18.07.13]
“La famiglia è il luogo della trasmissione
della vita”
di Fabrice
Hadjadj *
.
“La famiglia è
il luogo della trasmissione della vita e dell’essere”, ha
detto lo studioso che dirige l’Istituto europeo di studi
antropologici di Friburgo. Per questo, secondo Hadjadj, “la
Chiesa, tempio dello spirito, difende la carne, diventa testimone
di Dio ma anche testimone dei sessi” e se ieri “si pensava che
il sesso fosse il nemico della Chiesa, oggi solo la Chiesa può
salvare la sessualità, spirituale e carnale”.
Secondo Hadjadj, la crisi della famiglia che si è aperta in
Francia dopo il riconoscimento del matrimoni fra persone dello
stesso sesso – definito dal filosofo un “cercle carré”
ovvero un “cerchio quadrato” per sottolinearne il non senso –
“è stata una grazia perché si è resa necessaria una
discussione sulla sua evidenza” e, citando S.Agostino, ha
ricordato il valore delle eresie “che permettono di esplicitare
i dogmi”.
Puntare sulla “perfezione” familiare può rivelarsi appunto
fallace: “Quando Gesù parla della famiglia è per dire che ci
avrebbe portato la spada”, ha ricordato Hadjadi, “e ciò è
stupefacente, se si guarda ai settimanali cristiani, dove le
famiglie sono un modello”. D’altra parte, ha ricordato
Hadjadj, una delle prime immagini della famiglia di Nazareth vede
Maria e Giuseppe cercare disperatamente il piccolo Gesù smarrito
nel grande tempio di Gerusalemme. “E la parole usate dalla
Madonna”, ha sottolineato lo studioso, “furono: ‘Figlio,
perché ci hai fatto questo? Ti abbiamo cercato nell’angoscia'”.
Cercare nell’angoscia, insomma, appartiene all’essenza
dell’essere genitori, “perché ci sarà sempre una dimensione
drammatica: la famiglia è il luogo dove le cose non funzionano”.
La famiglia infatti “non funziona”, ha ricordato Hadjadj
“perché invece è un luogo di vita, di incontro, e come tale di
prova”. Non solo, “la famiglia è il luogo della prima
miseria, perché i genitori, che non hanno mai imparato a esserlo,
si scoprono autorità senza competenza, e quindi è il luogo della
prima misericordia verso se stessi”.
Quanto al matrimonio gay, il filosofo ha spiegato che è figlio
del passaggio dal concetto di città, proprio della polis
aristotelica, a quello di società, mutuato dall’economia. “E
in una società si stipulano contratti, non importa il sesso dei
contraenti”, ha spiegato. Il movimento che ha portato all’unione
fra persone dello stesso sesso mostra però, secondo lo studioso,
numerose contraddizioni: “Quelli che negli anni ’70 erano
contro la famiglia”, ha osservato, “sono diventati a favore
della famiglia ‘per tutti’, come si dice in Francia”. Segno
che non si trattava di una costruzione religiosa e innaturale come
si sosteneva. “La postmodernità aveva pensato di sbarazzarsi
della famiglia”, ha detto Hadjadj, e non riuscendovi la
assimila. E non è l’unica contraddizione: nella famiglia
pensata in modo “contrattuale” si contemplano due uomini e due
due donne “ma allora”, si è chiesto, “perché fermarsi?
Perché non immaginarla a quattro o cinque? Fermarsi a due,
significa che siamo sotto la fascinazione del dato naturale”.
“La posizione dell’uomo che prega è la
posizione dell’uomo per eccellenza”. Hadjadj racconta la sua
“conversione”
“Tutti gli uomini sono attirati da Cristo. Io mi fido e
sapete perché? Perché ero aspramente anticlericale, ma dobbiamo
avere fiducia che il cuore del non cristiano è attirato da
Cristo”
Voi sapete che Tempi
ha un debole per Fabrice
Hadjadj. Recentemente abbiamo pubblicato una sua
intervista (Elogio
della famiglia selvaggia, anarchica e preistorica)
e qui di seguito ve ne proponiamo un’altra tratta da Zenit,
convinti che valga sempre la pena leggere il punto di vista
originale di questo interessante filosofo.
“Il nostro mondo è sempre più caratterizzato dalla
disincarnazione. Siamo nell’era di in vitro veritas, sia che si
tratti degli schermi che del vetro delle provette. Il padre è
sostituito dall’esperto (e questo accade anche ai vescovi che
rinunciano troppo sovente alla paternità in ragione di una sola
posizione di superiorità gerarchica); la madre è
progressivamente rimpiazzata dalla matrice elettronica. Vi diranno
che ormai una coppia dello stesso sesso può avere figli allo
stesso modo in cui li hanno un uomo e una donna. Anzi, vi diranno
che possono averli molto meglio che un uomo con una donna, perché
questi si consegnano alla procreazione attraverso l’oscurità
rischiosa di un abbraccio e di una gravidanza, mentre una coppia
dello stesso sesso è più responsabile, più etica, perché
ricorre agli ingegneri per fabbricare un bimbo senza difetti, con
un codice genetico verificato, molto più adatto al mondo che lo
circonda. Ciò che bolle nei nostri laboratori è una vera
contro-annunciazione: non si tratta più di accogliere il mistero
della vita nell’oscurità di un grembo ma di ricostituirla nella
trasparenza di una provetta”.
È la descrizione fatta dal
filosofo Fabrice Hadjadj, nato da famiglia di religione ebraica,
un passato da nichilista e anticlericale, attualmente sposato,
padre di sei figli, insegnante di lettere e filosofia e anche
drammaturgo. Dalla sua conversione ha preso il via la sua opera
filosofica e letteraria. Hadjadj sostiene che all’interno della
Chiesa sia avvenuta la massima comprensione e valorizzazione del
corpo e della sessualità e pensa che la morte abbia la sua
dignità. Tra i suoi numerosi libri vi sono
Mistica della
carne. La profondità dei sessi (Milano, Medusa, 2009), e
Farcela
con la morte. Anti-metodo per vivere, edito da
Cittadella, che ha vinto il Gran Premio della letteratura
cattolica nel 2006.
In occasione del terzo Congresso Mondiale
dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, organizzato a
Roma dal Pontificio Consiglio per i Laici, di cui il filosofo
francese è membro, in risposta alla chiamata alla conversione
missionaria che papa Francesco ha rivolto nell’
Evangelium
Gaudium, Hadjadj ha risposto per Zenit ad alcune domande.
Qual è la storia della sua conversione dall’ebraismo
al cristianesimo?Potrei raccontarvi una lunga storia…
Dio ci converte con la sua intera creazione. La conversione è
semplicemente una presa di coscienza, perché la realtà è sempre
la realtà. Quando si è convertiti, inoltre, non si è arrivati,
il battesimo è un punto di partenza, potrei sempre diventare
peggiore di quello che sono stato prima: continuo ad avere i miei
peccati, quindi occorre sempre fare attenzione al discorso della
conversione. In realtà non è vero che mi sono convertito
dall’ebraismo al cristianesimo, perché non ero religioso per
nulla: venivo da una famiglia ebrea sì, ma piuttosto di sinistra,
marxista, a casa non avevamo nessuna Bibbia, ma solo opere di
Marx, Hegel, Gramsci; io personalmente mi avvicinai molto presto a
Nietzsche e ad autori atei ma, curiosamente, è attraverso degli
autori anticristiani che ho scoperto il cristianesimo e,
curiosamente, è proprio da cristiano che ho scoperto in maniera
vera il mio essere ebreo. Avevo la sensazione che la grandezza
dell’uomo fosse legata alla sua vulnerabilità e che non si
sviluppa con una sorta di potere orizzontale ma attraverso un
grido verticale, un grido verso il cielo, come nella tragedia
greca. Lì è evidente che la dignità tragica dell’uomo sta nel
fatto che si rivolge ad un Dio e interpella il cielo. Inoltre ero
attirato intellettualmente al mistero della croce. Un giorno mio
padre si ammalò gravemente. Stava per morire e mia madre mi
chiamò. Ero impotente davanti a quella situazione ed io entrai in
una chiesa, dove pregai la Madonna: era una Madonna circondata da
tanti ex-voto, e proprio due settimane prima, entrando nella
stessa chiesa con un mio amico, avevo preso in giro questi ex
voto: ‘grazie di qua, grazie di là… ridicolo!’. Mi ero
fatto beffe davanti a quell’immagine. Ma la sera in cui mio
padre stava male andai da questa Madonnina, e in quel momento non
accadde nulla di straordinario, le cose straordinarie sono sempre
le più semplici: ebbi la sensazione di essere al mio posto e
scoprii che la posizione dell’uomo che prega è la posizione
dell’uomo per eccellenza; a partire da quel momento ebbi la
certezza della verità della preghiera.
Perché l’adesione al cristianesimo è qualcosa di
diverso dall’adesione ad un partito o a un’idea
politica?
Siamo passati da un’epoca di estremismi
ideologici a un periodo in cui tutte le ideologie sono morte, un
periodo di uniformazione tecnologica: è il momento in cui si
prende la diversità del reale, la molteplicità delle cose, anche
la biodiversità e la si manipola, la si frantuma. La missione
della Chiesa non ha nulla a che vedere con un processo di
uniformazione, perché è la stessa missione del Creatore: è il
Creatore e il Redentore di tutte le cose, quindi non vuole
schiacciare la singolarità delle cose con l’uniformità,
ricondurle a un idea, ma permettere di essere pienamente quelle
che sono, per come sono create e salvate, nella loro differenza.
Il fondamento della fede cristiana è che l’unità è un’unità
di comunione, ma la comunione non è una fusione. La comunione è
comunione dell’uno con l’altro, e l’altro rimane un altro,
non viene assorbito né diminuito. Questo si manifesta allo stesso
modo nel mistero della Trinità: c’è un solo Dio, una sola
natura divina, ma allo stesso tempo ci sono tre persone, e queste
persone, proprio perché sono tre, sono persone eternamente
differenti. Noi pensiamo all’unità di Dio come un’unità che
porta in sé la diversità eterna. Questo ci invita a considerare
la missione della Chiesa non più come propaganda ideologica che
riduce all’uniformità, ma come ospitalità che permette a
ciascun essere di essere riconosciuto pienamente se stesso.
Sia Benedetto XVI che papa Francesco hanno detto che
l’evangelizzazione non cresce per proselitismo ma per
attrazione: cosa significa questa espressione e quali sono,
secondo lei, i pericoli del proselitismo? Possono sembrare solo
due modi di dire lo stesso concetto: il proselitismo e
l’attrazione, in opposizione a uscire da sé stessi. Attirare a
se stessi o uscire da sé stessi?
Vanno fatti
funzionare entrambi, perché il rapporto tra l’esterno e
l’interno nella missione non è quella di dire ‘siamo una
setta, noi abbiamo la verità e usciamo per portare dentro gente
che è completamente fuori’: il mistero consiste proprio nel
fatto che colui che è fuori dalla Chiesa, è allo stesso tempo
creato per colui che è dentro la Chiesa, non vi è nulla di
assolutamente fuori dalla Chiesa; le cose esistono, e non sono
fuori dalla Chiesa, ma è la Chiesa che è creata dal Creatore. La
missione per noi non è quella del proselitismo per cui bisogna
incontrare qualcuno e ridurlo alle nostre stesse idee, ma è allo
stesso tempo un uscire e un attrarre. Un’uscita perché andiamo
verso l’altro, ma un’attrazione perché sentiamo, con il suo
cuore una certa risonanza: questo è importante per i cristiani,
credere alle parole di Gesù: ‘attirerò a me tutti gli uomini
della terra’. È vero, tutti gli uomini sono attirati da Cristo,
occorre fidarsi di questa parola qui! Io mi fido e sapete perché?
Perché ero l’uomo più lontano da Cristo, ero quello la cui
conversione era la più improbabile, ero aspramente anticlericale.
Dobbiamo avere fiducia che il cuore del non cristiano, il cuore
del nemico, il cuore del persecutore, è attirato da Cristo.
Elogio della famiglia selvaggia, anarchica e
preistorica (se basta l’amore, per allevare i bambini vanno bene
gli orfanotrofi)
novembre 10, 2014 Rodolfo Casadei
Grande intervista a Fabrice Hadjadj. Che qui espone le sue tesi
“ultrasessiste” sull’unione fra l’uomo e la donna, il senso
divino della nascita, l’essere padri, madri e figli
Il secondo tempo del Sinodo straordinario sulla famiglia si
giocherà fra il 4 e il 25 ottobre dell’anno prossimo, quando
l’argomento sarà ripreso dal Sinodo ordinario sotto il titolo “La
vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo
contemporaneo”. E visto
come
è andata la prima metà della partita, sarà meglio
allenarsi di più e prepararsi a dare ciascuno il proprio contributo
al gioco di squadra. Molto utile a questo proposito può rivelarsi la
lettura approfondita di
Qu’est-ce qu’une famille?,
l’ultimo libro scritto da Fabrice Hadjadj (foto a destra, Meeting
Rimini), il pensatore cattolico francese direttore della Fondazione
Anthropos a Losanna.
Autore sempre geniale, sorprendente e provocatorio, come anche
stavolta si evince sin dal sottotitolo, che suona così:
suivi de
La Transcendance en culottes et autres propos ultra-sexistes.
Cioè “risultato de La Trascendenza nelle mutande e altre
proposizioni ultrasessiste”. La famiglia per Hadjadj è a livello
umano quello che a livello cosmico è l’acqua per Talete o l’aria
per Anassimandro: il principio anteriore a tutto il resto, il
fondamento che non può essere spiegato proprio perché è un
fondamento. Solo se ne può prendere atto, constatando che a dargli
forma è la differenza sessuale che si manifesta come attrazione fra
l’uomo e la donna. La famiglia è anzitutto natura, ma sempre
ordinata e presa in mano dalla cultura. Perché il nascere, proprio
di ogni forma naturale, presso gli umani è sempre circondato da un
“far nascere”. E dal far nascere della levatrice alla maieutica
di Socrate (non a caso figlio di una levatrice), che aiuta a far
nascere la verità che è dentro ad ogni uomo, il passo è breve e
necessario.
Nel libro, di cui si attende presto una traduzione in lingua
italiana, Hadjadj individua principalmente tre nemici della famiglia
nelle società occidentali: le ultime tecnologie elettroniche, la
trasformazione della procreazione in produzione ingegneristica di
esseri umani, e le derive fallocentriche (proprio così) della
maggior parte dei femminismi odierni. Su questi argomenti
Tempi
lo ha intervistato.
Il suo libro è apparso alla vigilia del Sinodo dei
vescovi sulla famiglia. Le pare che i lavori e il documento finale
del Sinodo riflettano alcune delle sue preoccupazioni?
Il
problema di un Sinodo è che deve parlare per la Chiesa universale,
mentre le situazioni che la famiglia vive possono essere molto
differenti da un paese all’altro, addirittura radicalmente opposte.
Per quello che mi riguarda, si tratta di pensare quello che succede
alla famiglia nelle società post-industriali, contrassegnate
dall’economia liberale. La
Relatio Synodi, nella sua
diagnosi si accontenta di evocare una volta di più
l’«individualismo» e l’«edonismo», mentre i dibattiti si sono
cristallizzati attorno alla questione dei «divorziati risposati» o
alla benedizione delle persone omosessuali. In questo modo mi sembra
si manchi completamente ciò che è assolutamente proprio della
nostra epoca, intendo dire la rivoluzione antropologica che si sta
operando: il passaggio dalla famiglia all’azienda, e dalla nascita
alla fabbricazione – o se preferite dal concepimento oscuro nel
ventre di una madre, al concepimento trasparente nello spirito
dell’ingegnere… La famiglia è attaccata sul piano ideologico fin
dagli inizi del cristianesimo. Per esempio dagli gnostici. Ma oggi
l’attacco è più radicale: esso non proviene tanto dall’ideologia,
quanto dal dispositivo tecnologico. Non è più questione di teoria,
ma di pratica, di mezzi efficaci per produrre al di fuori dei
rapporti sessuali degli individui più adatti, più performanti.
Lei oppone la tavola in legno, attorno alla quale si
riunisce la famiglia, al tablet elettronico, che ne separa e isola i
membri, e la sua conclusione è che la tecnologia ha fatto collassare
la famiglia e che assistiamo alla sua «distruzione tecnologica».
Siamo davanti al più grande nemico della famiglia?
Qual
è il luogo dove si tesse il tessuto familiare? Qual è il luogo dove
le generazioni si incontrano, conversano, talvolta litigano e
tuttavia, attraverso l’atto molto primitivo di mangiare insieme,
continuano a condividere e ad essere in comunione? Questo luogo è
tradizionalmente la tavola. Oggi invece sempre di più ciascuno
mangia davanti alla porta del frigorifero per tornare più
rapidamente al proprio schermo individuale. Non si tratta nemmeno più
di individualismo, ma di «dividualismo», perché su quello schermo
ciascuno apre più finestre e si divide, si frammenta, si disperde,
perde il suo volto per diventare una moltitudine di «profili»,
perde la sua filiazione per avere un «prefisso». La tavola implica
il raggrupparsi, entro una trasmissione genealogica e carnale. Il
tablet implica la disgregazione, entro un divertimento tecnologico e
disincarnato. D’altra parte l’innovazione tecnologica fa sì che
ciò che è più recente sia migliore di ciò che è antico, e dunque
distrugge il carattere venerabile di ciò che è antico e
dell’esperienza. Se la tavola scompare, è anche perché
l’adolescente diventa capofamiglia: è lui che sa maneggiare meglio
gli ultimi gadget elettronici, e né il nonno né il papà hanno
niente da insegnargli.
Lei scrive, molto provocatoriamente, che se davvero
pensiamo che tutto ciò di cui hanno bisogno i figli siano l’amore
e l’educazione, allora non soltanto una coppia di persone dello
stesso sesso può assolvere alla bisogna, ma pure un orfanotrofio di
qualità. Se l’essenziale sono l’amore e l’educazione, non è
detto che una famiglia sia necessariamente il posto migliore per un
bambino. Allora perché la famiglia padre-madre merita di essere
privilegiata?
È la questione posta nel
Mondo nuovo
di Aldous Huxley: se avete un figlio per la via sessuale, è
semplicemente perché siete andati a letto con una donna. Ciò non
offre garanzie sulle vostre qualità riproduttive né sulle vostre
competenze di educatore. Ecco perché sarebbe meglio, per il
benessere del nuovo essere creato, che sia messo a punto dentro a
un’incubatrice ed educato da degli specialisti. Questa
argomentazione è molto forte. Fino a quando i cristiani
continueranno a definire la famiglia come il luogo dell’educazione
e dell’amore, essi non la contraddiranno, daranno anzi delle armi
ai loro avversari, che potranno concludere che due uomini capaci di
affetto e specializzati in pedagogia sono molto più adatti di un
padre e di una madre. Ma il problema è che è ancora il primato del
tecnologico sul genealogico che presiede a questa idea e ci spinge a
sostituire la madre con la matrice e il padre con l’esperto.
Dietro
a tutto questo c’è l’errore di cercare il bene del bambino e di
non considerare più il suo essere. Ora, l’essere del bambino è di
essere il figlio o la figlia di un uomo e di una donna, attraverso
l’unione sessuale. Attraverso questa unione, il bambino arriva come
un sovrappiù dell’amore: non è il prodotto di un fantasma né il
risultato di un progetto, ma un’altra persona che sorge, singolare,
incalcolabile, che supera i nostri piani. Quanto al padre, dal
semplice fatto che ha trasmesso la vita riceve un’autorità senza
competenza, e ciò è molto meglio di qualunque competenza
professionale. Perché il padre è anzitutto là per manifestare al
bambino il fatto che esistere è cosa buona, mentre gli esperti sono
là per mostrare che è cosa buona riuscire. E poi la sua autorità
senza competenza lo spinge a riconoscere davanti al bambino che lui
non è il Padre assoluto, e dunque a rivolgersi insieme al suo
bambino verso questo Padre dal quale ogni paternità trae il suo
nome.
L’altra causa di distruzione della famiglia che lei cita
è il rifiuto della nascita come nascita, cioè come qualcosa di
naturale e imprevisto. Chi è favorevole alla tecnologizzazione della
nascita dice che bisogna vigilare per un’utilizzazione delle
biotecnologie vantaggiosa per il bambino che deve nascere, ma che
comunque queste tecniche sono buone. Che cosa risponderebbe loro?
Se
le biotecnologie vengono utilizzate per accompagnare o restaurare una
fertilità naturale, sono favorevole ad esse: è il senso stesso
della medicina. Ma se consistono nel farci entrare in una produzione
artificiale, non si tratta più di medicina, ma di ingegneria. Quel
che allora succede, è che il bambino diventa un diritto che viene
rivendicato, e non più un dono di cui ci si sente indegni. A partire
da ciò, voi potete immaginare le influenze che subirà. Ma la cosa
più grave sta in un altro fatto, in quella che chiamerei la
confusione fra novità e innovazione. Se il nuovo nato rinnova il
mondo, è perché egli in qualche modo viene fuori preistorico: non
ci sono differenze fondamentali fra il bebè dell’italiano di oggi
e quello dell’uomo delle caverne. È sempre un piccolo primitivo,
un piccolo selvaggio che sbarca nella famiglia, e che porta con sé
un inizio assoluto, la promessa rinnovata dell’aurora. Se in futuro
la nascita sarà misurata sul metro dell’innovazione, se si
fabbricheranno principalmente dei bebè transumani, essi saranno
vecchi già prima di nascere, perché riproporranno la logica del
progresso e quindi anche della fatale obsolescenza degli oggetti
tecnici. Corrisponderanno agli obiettivi di chi li commissiona, alle
attese della loro società. Ci ritroviamo di fronte a un’inversione
delle formule del Credo: si vuole un essere che sia «nato dal secolo
prima di tutti i padri, creato e non generato».
Lei scrive: «Grazie alla tecnologia, la dominazione
fallica è assicurata principalmente da donne isteriche prodotto di
uomini castrati». Cosa intendete dire?
Il proprio del
femminile, nella maternità, è di accogliere dentro di sé un
processo oscuro, quello della vita che si dona da sé. Creare degli
uteri artificiali può apparire come un’emancipazione della donna,
ma in realtà è una confisca dei poteri che le sono più propri. Da
una parte per far sì che la donna, non essendo più madre, diventi
un’impiegata o una padrona (come se fosse una liberazione);
dall’altra perché il processo vitale oscuro diventi una procedura
tecnica trasparente, quella di un lavoro esterno e controllato, che è
ciò a cui si limita l’operazione dell’uomo, che non ha un utero
e fabbrica con le proprie mani. Ed eccoci di fronte al paradosso
della maggior parte dei femminismi: essi non sono che un machismo
della donna, un rivendicare l’eguaglianza ma sulla scala dei valori
maschili, un volere una promozione in pieno accordo con la visione
fallica del mondo. Perché la fecondazione e la gestazione in vitro
sono quanto di più prossimo ci sia a un dominio fallico sulla
fecondità: non avere più bisogno del femminile, fare entrare la
procreazione nel gioco della fabbricazione, della trasparenza e della
concorrenza. Come ho già parlato di un’inversione del Credo,
potrei parlare in questo caso di una Contro-Annunciazione.
Nell’Annunciazione evangelica, Maria accetta una gravidanza che la
supera due volte, dal punto di vista naturale e da quello
sovrannaturale. Nella Contro-Annunciazione tecnologica, la donna
rifiuta ogni gravidanza, ed esige che la procreazione sia una
pianificazione integrale, che non la supera più, ma s’inserisce
nel suo progetto di carriera.
Lei è d’accordo con Chesterton che la famiglia è
«l’istituzione anarchica per eccellenza». Che cosa significa? La
famiglia ancora oggi è accusata di autoritarismo, o di essere un
residuo dell’epoca del potere patriarcale.
La famiglia
è un’istituzione anarchica nel senso che è anteriore allo Stato,
al diritto e al mercato. Dipende dalla natura prima di essere
ordinata dalla cultura, poichè naturalmente l’uomo nasce
dall’unione di un uomo e di una donna. In poche parole, ha il suo
fondamento nelle nostre mutande. È qualcosa di animale – il
maschio e la femmina – e nello stesso tempo noi crediamo che questa
animalità sia molto spirituale, di una spiritualità divina,
iscritta nella carne: «Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e
femmina li creò». C’è qualcosa che è donato, e non costruito.
Tanto che anche il patriarca, come si vede nella Bibbia, è sempre
sorpreso e pure esasperato dai suoi figli. Pensate alla storia di
Giacobbe. Pensate a Giuseppe, il padre di Gesù. Non si può certo
dire che tengono sotto controllo la situazione. L’autorità del
padre si trasforma in autoritarismo quando finge di avere tutto sotto
controllo e di essere perfettamente competente. Ma come ho detto
prima, la sua vera e più profonda autorità sta nel riconoscere che
non è all’altezza, e che è obbligato a volgersi verso il Padre
eterno.
Come parlare di Dio oggi? L’Anti-manuale di
evangelizzazione di Fabrice Hadjadj
Nel suo nuovo libro il filosofo francese racconta la sua
conversione. E di Dio che da “tappabuchi” si è fatto
“apri-abisso”. Soprattutto una presenza carnale, anche nei
nemici
È oggi in libreria
Come parlare di Dio
oggi? Anti-manuale di evangelizzazione del filosofo
francese Fabrice Hadjadj. Edito da Edizioni Messaggero Padova
(pagine 180, euro 13), il libretto è stato anticipato in alcuni
suoi stralci sul quotidiano
Avvenire.
Hadjadj,
filosofo, saggista e drammaturgo che i lettori di tempi.it
conoscono
bene, racconta in questa sua opera la sua
“conversione”, parola che, confessa, «prima odiavo». «Quando
qualcuno diceva “Dio” – scrive Hadjadj -, mi sembrava che
mettesse fine a qualsiasi discussione. Aveva introdotto con
l’imbroglio un altro jolly nel mazzo di carte». Il filosofo
scrive che quella parola «era un abracadabra, una formula magica
e mi verrebbe da dire addirittura una “soluzione finale”, con
tutto ciò che può comportare di terrorizzante un’espressione
del genere. Una soluzione finale all’interno di una discussione
che, d’un tratto, veniva soffocata da questa parola grossa e
massiccia».
Per questo, dice Hadjadj «la mia conversione
consistette dapprima in una conversione di vocabolario. All’epoca
del mio ateismo ero obbligato a confessare un mistero
dell’esistenza. Pensavo tuttavia che la parola “Dio” non
avesse nulla a che vedere con tale mistero, che fosse addirittura
un modo per evitarlo. Avevo la pretesa di spiegarne l’esistenza
nel lessico, sforzandomi di svicolare così: negazione della
morte, volontà di potenza, fuga nell’aldilà, sublimazione
nevrotica del “papà/ mamma, aiuto!”…»
NON E’ UN TAPPABUCHI. Oggi, però, «questa
parola non suona più ai miei orecchi come un “tappabuchi”, ma
come un “apri-abisso”. È probabile che alcuni la usino come
“tappabuchi” (credenti o meno, d’altronde). Non la capiscono
affatto, allora. Non ne sentono, per così dire, la musica. Perché
il significante “Dio” non discende da un desiderio di
soluzione finale: viene dal riconoscimento di un’assenza
irrecuperabile. Non sorge tanto come risposta quanto come
chiamata. Dà il nome all’evidenza di ciò che mi sfugge,
all’esigenza di ciò che mi supera».
Hadjadj dice di
ricordare spesso questa elementare verità ai seminaristi:
«Quando siete in missione di evangelizzazione e una persona vi
dichiara: “Io non credo in Dio”, state attenti, non saltategli
addosso dicendo: “Ma sì, bisogna credere in Dio!”, perché
magari non ci credete neppure voi al “Dio” di cui sta parlando
lui! Chiedetegli prima cosa intende con quella parola. E
chiedetevi se vi siete mai accorti della vertigine che porta con
sé».
AMARE IL NEMICO. Ma la parte più interessante
dello scritto di Hadjadj anticipato da
Avvenire è quando
il filosofo argomenta sulla difficoltà tutta moderna di porre una
cesura tra “Dio” e il prossimo. Come se la fede possa essere
qualcosa di disincarnato, etereo, senza un possibile riferimento
alle persone a noi più vicine, che incontriamo, in cui ci
imbattiamo. «Parlare di Dio – dice Hadjadj – vuol dire anche
amare, in maniera indissociabile, colui a cui ne parliamo, perché
vuol dire riverberare su di lui la Parola che gli dà l’esistenza
e che quindi desidera infinitamente che lui esista. Capite la
difficoltà? Sono missionario e un bel giorno mi trovo davanti a
qualcuno che mi è ostile. Vengo ad annunciargli la Parola di Dio,
ma visto che tale Parola mi dice che Dio è provvidenza, mi tocca
ammettere che, questo tipaccio, me lo piazza in mezzo alla strada
Dio stesso. Di conseguenza, devo innanzi tutto onorarlo questo
tipaccio, devo riconoscere che, anche se mi sta parecchio
antipatico, anche se è tremendamente contrario ai cristiani, come
persona è eternamente voluto dall’alto e ha sempre qualcosa da
insegnarmi».
I FANFARONI E DIO. È un problema di
prospettiva e di “scandalo”, perché «ogni fanfarone si
rivela essere parola di Dio». «Certo – precisa il filosofo -,
non tanto per via delle intenzioni ostili, quanto per la sua
presenza. È la Parola di Dio a conferirgli l’essere. È l’amore
di Dio che lo trae fuori dal nulla. Magari l’ignora, ma se sono
un apostolo del Creatore, io non posso ignorarlo. Devo andare
oltre l’antipatia. Meravigliarmi prima di tutto del fatto che
esiste».
Sull’amore al prossimo «c’è la verità della
mia identità cristiana. Se non sono capace di meravigliarmi
sinceramente, di fronte all’esistenza, per esempio di Michel
Onfray (prendo un ateo in Francia, ma avrei potuto scegliere allo
stesso modo un fondamentalista in Iran), non sono cristiano,
perché Michel Onfray, anche se con la bocca pronuncia idiozie
sulla Bibbia, con il suo essere rimane ugualmente una parola di
Dio, certo imbavagliata, ma comunque divina nella sua
apparizione».
Amate i vostri nemici. «Una posizione
decisamente destabilizzante», scrive il pensatore francese. «Mi
tocca parlargli di Dio lasciandomi prima interpellare da lui,
rifiutarne l’ignoranza accogliendone la presenza, contestarne
l’inimicizia attestandone la bontà originaria. Ed è proprio lo
stupore davanti alla sua bontà originaria, al di là della nostra
antipatia iniziale, che può permettermi di dominare fino al cuore
del nemico».
Hadjadj: «Si va verso il transumano. La difesa
della carne è propria del cristianesimo»
aprile 11, 2013 Leone Grotti
Intervista al filosofo francese sui risvolti della manifestazione
anti nozze gay: «La Francia vive una crisi antropologica, e questo è
una grazia»
«Quello
che sta succedendo in Francia in questo momento è una grazia».
Tenendo conto che il filosofo francese
Fabrice
Hadjadj sta parlando dell’approvazione da parte del
governo socialista in Francia del
matrimonio
gay e della quasi totale censura di un milione di
persone che
scendono
in piazza per protestare, si potrebbe pensare che è
impazzito. Ma il direttore dell’Istituto europeo di studi
antropologici Philanthropos di Friburgo (Svizzera), che ha
rilasciato un’intervista a tempi.it a margine del convegno che si è
tenuto ieri all’Università Cattolica di Milano dal titolo “È
ancora tempo di credere”, ha buone ragioni per usare la parola
“grazia”, pur affermando che la Francia è nel bel mezzo di una
«crisi antropologica» dominata da una «tecnocrazia che vuole
trasformare l’umano».
Professore Hadjadj, partiamo dal principio. Il governo
socialista di Francois Hollande vuole legalizzare matrimonio
e adozione gay. E, a meno di svolte imprevedibili, ce la farà.In
Francia c’è un governo di sinistra che non può condurre una
politica di sinistra, perché la
crisi
economica gli impedisce di mantenere le promesse di
ordine sociale fatte in campagna elettorale. Quindi la sola cosa che
gli resta è cambiare la legge. Ma legalizzando il matrimonio gay
questo governo di sinistra tradisce la sua natura. Il vero socialismo
infatti non tocca la famiglia, che è il pilastro della società, ma
cerca di provvedere a una migliore distribuzione delle ricchezze.
Questo è un grosso problema e il governo di Hollande cerca di
nascondere la sua impotenza dietro questa legge.
Come si è arrivati in Francia a proporre la
legalizzazione del matrimonio gay?
Malgrado tutto, e
indipendentemente da questa circostanza, in Francia c’è una crisi
antropologica. Questa crisi antropologica fa sì che noi non crediamo
più davvero all’umano e stiamo andando verso qualcosa che rientra
nell’ordine del transumano. Tutto questo grazie al regno della
tecnica. Infatti, quello che non si dice normalmente è che affinché
ci sia uguaglianza tra un matrimonio fra un uomo e una donna e uno
fra due uomini o due donne ci vuole la tecnica. Una coppia dello
stesso sesso per procreare deve ricorrere a qualcosa che riguarda più
la fabbricazione che la nascita. Dietro a tutto ciò c’è una
tecnocrazia che vuole trasformare l’umano.
L
Sembra che la Francia abbia anche reagito. Per due volte,
contro questo progetto di legge, sono scese in piazza un
milione di persone.Sì, c’è stata una grande
manifestazione contro il matrimonio gay ma i media francesi non ne
hanno quasi parlato. Questo fa capire quanto sia grande la censura su
quello che sta succedendo. È noto il
caso
dell’uomo arrestato perché indossava la maglia della
Manif
Pour Tous, una cosa che in Francia non si era mai vista
prima. Ma resta il fatto che quello che sta avvenendo in questo
momento è una grazia.
Una grazia?
Sì, perché non si era mai presa
una coscienza tale del mistero dell’Incarnazione. Siamo in una
situazione in cui sono la Chiesa e i cristiani che si trovano a
difendere la carne e il sesso. Siamo completamente usciti dal
puritanesimo per prendere coscienza che la sessualità così come ci
è donata viene da Dio ed è spirituale. E questo è un passo avanti
straordinario che è stato fortemente preparato da Giovanni Paolo II.
La difesa del corpo e della carne, infatti, è una peculiarità del
cristianesimo. Durante la Manif Pour Tous, dei cristiani portavano
cartelli con questo slogan: “Vogliamo il sesso, non il genere”. È
una grande novità questa affermazione del sesso, contro l’ideologia
del gender, e quelle persone lo dicevano in quanto cristiani.
Dal punto di vista politico non si può dire che la
manifestazione sia stata un successo.
Non era una
manifestazione politica ma antropologica. I cristiani si sono resi
conto che la posta in gioco non è dominare in un rapporto di forza,
non è ristabilire la cristianità ma testimoniare la verità. Ed è
per questo che sulla strada c’erano anche grandi filosofi come Rémi
Brague, che non aveva mai partecipato a una manifestazione. È una
bella novità che i cristiani si mobilitino non tanto per la difesa
della cristianità ma perché bisogna testimoniare la verità. Grazie
a questa situazione inedita si avrà una ricomposizione totale
dell’azione dei cristiani nella società.
Intanto però la legge sul matrimonio gay sarà
approvata dal Senato.
Il matrimonio civile era già
un falso matrimonio, lo definirei un divorzio rimandato. Non a caso i
gay stanno già
chiedendo
il divorzio, ancora prima di avere il matrimonio. Se lo
scopo fosse stato salvare il matrimonio civile, allora non sarebbe
valsa la pena di fare manifestazioni. Siamo allo stadio ultimo di una
distruzione che risale al 19esimo secolo. La posta in gioco non è
impedire la legge ma dire: ecco la verità del matrimonio. In questi
giorni si è visto che i cristiani non hanno bisogno dello Stato, dei
giornali, della televisione per comunicarlo. La via da percorrere non
è più conquistare un potere che sta affondando ma rifondare la
dimensione politica dal basso, attraverso l’evangelizzazione.
La sconfitta nasconde una vittoria?
Sì, è
l’inizio di qualcosa di nuovo: i cristiani si sono ritrovati e
tutti hanno sentito di esistere davvero come comunità. Il
cristianesimo francese era segnato dall’individualismo e
improvvisamente, in questa situazione, si è visto che non solo si
esisteva insieme ma che la piazza era nostra. Le manifestazioni dei
cristiani e delle comunità ebraiche contro il matrimonio gay sono
state molto più numerose delle altre. Hanno sempre detto che la
piazza era della sinistra, degli artisti e anche degli omofili, ma
non è così. E mi raccomando di scrivere omofili, non omosessuali,
perché il termine omosessualità costituisce il rifiuto della
sessualità, quindi non è giusto usare questa parola, non descrive
bene la natura della questione. Insisto: questa è una situazione
molto gioiosa, molto bella.
Eppure i cristiani non sono mai stati così poco
ascoltati.
Se uno ha la nostalgia della cristianità, del
tempo in cui lo Stato era cristiano e le leggi erano cristiane,
allora può considerare tutto un disastro già da diverso tempo. Se
invece uno ha il desiderio non della cristianità ma del
cristianesimo, allora questo momento è molto interessante e molto
bello.
Hadjadj: Non chiamateci fascisti, integralisti,
omofobi. Noi siamo, semplicemente, dei “meravigliati”
aprile 20, 2013 Fabrice Hadjadj
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più
primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella
passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di
tutte: l’ammirazione.
Per gentile concessione dell’autore traduciamo un inedito
del filosofo Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr
e intitolato “Meravigliatevi! Per un manifesto dei
meravigliati”.
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più
primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella
passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di
tutte: l’ammirazione. Essa è prima perché la si sperimenta di
fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non
abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i
volti, tutte le primavere… Prima di soddisfarci dell’opera
delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo
questo dato naturale. Questa è la colorazione affettiva che tentiamo
di fare entrare nelle nostre azioni. Esse non sono motivate da uno
stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono imbevute di
amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie.
Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono
fiorire in gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra
origine terrestre e carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli,
ma che siamo nati, da un uomo e da una donna, secondo un ordine che
sfuggiva a essi stessi.
Lungi dall’essere degli spiritualisti o
dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche chiamava «la
grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita
in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca
dei sessi, dal genio della genitalità. Certo, questa organizzazione
stupefacente è come il naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non
vederlo. Ci inorgogliamo di avere costruito una torcia, e
dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la magia delle
nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne.
Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico»,
«determinismo», «animalità», e assumiamo un’aria di
superiorità, vantando le libere prodezze della nostra fabbrica. E
tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli
esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più
sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e
che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento
di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola
peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? Jules
Supervielle esprime con una precisione più che scientifica che la
riduzione biologistica ci nasconde: «Ed era necessario che un lusso
d’innocenza/ concludesse il furore dei nostri sensi?».
Perciò le nostre manifestazioni non sono quelle di una
corporazione, ma quelle dei nostri corpi. Non partono da uno scopo
politico o partitico, ma da un riconoscimento antropologico. Non
cercano di prendere il potere, ma di rendere una testimonianza
culturale a un dato di natura, in uno slancio di gratitudine. In
greco «natura» si dice «fisis», parola che viene dal verbo
«fuein», che significa «apparire» o. più precisamente,
«manifestarsi». La natura non è anzitutto una riserva di energie,
né una miniera di materiali manipolabili secondo la nostra volontà,
ma una manifestazione di forme organizzate, spesso splendide al
nostro sguardo.
Certo, la natura è anche ferita, disordinata: c’è
la sofferenza, c’è la morte, c’è l’ingiustizia. Ma queste
rovine ci fanno orrore proprio perché abbiamo anzitutto intravisto
la sua generosità zampillante: se non avessimo percepito la bontà
delle sue forme, non saremmo scandalizzati da ciò che la sfigura…
Le nostre manifestazioni non hanno dunque altro motivo che di
attestare lo splendore di questa manifestazione primigenia. Non
riguardano il rapporto di forze. Si fondano su un’esigenza di
ospitalità verso questa presenza reale, fisica, iniziale (non segare
il ramo su cui siamo seduti, non pretendere di far sbocciare il fiore
forzando il bocciolo). Ed è a causa di questo che le nostre
manifestazioni dureranno fintanto che ci saranno peni e vulve, e la
loro ordinazione reciproca anzitutto involontaria, e la loro
fecondità che mette in discussione la nostra avarizia.
Ma è esattamente questa esigenza di ospitalità, questa relazione
di meraviglia e di gratitudine verso la nostra origine, diciamo pure
questo rapporto di debolezza, che risultano insopportabili a coloro
che concepiscono tutto in termini di rapporti di forza. Vorrebbero
che noi non fossimo altro che una fazione. Preferirebbero che
mettessimo le bombe. Questa violenza gli risulterebbe meno violenta
della nostra manifestazione elementare, quella della semplice
presenza fisica di un uomo e di una donna, e di un bambino di cui
essi sono anche il padre e la madre… Se non si trattasse che della
nostra opinione, se non fosse altro che la nostra arroganza,
potrebbero farci tacere. Ma come far tacere la presenza silenziosa
del corpo sessuato?
Che ci sia permesso – dopo il richiamo di ciò che siamo per
essenza: dei meravigliati – di insistere su cinque conseguenze
importanti per noi come per gli altri. Perché non siamo al riparo
dall’ingratitudine, e a forza di non essere riconosciuti nel nostro
meravigliarci, l’indignazione può finire per offuscare questo
fondamentale meravigliarsi, e rischiamo di cadere sia nello
scoraggiamento, sia in una violenza illegittima.
1. Alcuni ci accusano di essere dei «fascisti», procedimento
linguistico molto riduttivo, che permette di designare un nemico
senza ascoltarlo, e che si richiama precisamente ai procedimenti del
fascismo storico. Altri ci tacciano semplicemente di essere dei
«reazionari», come se il fatto di reagire fosse in sé un male, e
non un segno di vitalità, e come se la retorica del «progresso»,
che è stata tanto utile al Terrore e al totalitarismo, non fosse
ormai esaurita. Altri diranno che facciamo quello che facciamo perché
siamo dei «cattolici», o degli «ebrei integralisti», o dei
«fondamentalisti musulmani»…
Ma no, siamo soltanto dei
francesi, e più semplicemente ncora sia degli uomini e delle donne,
molto lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi
fondamentalismo, ci incantano le natiche e non ci repelle
l’ammirazione della congiunzione improbabile del «pisello» e
della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore
precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia
integrale. Ma questo genere di classificazione viene rifuggita per
timore di dover riconoscere le contraddizioni dei numerosi movimenti
ecologisti odierni, ma anche perché non c’è niente, in fondo, che
ci si può rimproverare, ovvero il rimprovero può colpirci soltanto
colpendo anche il dato rappresentato dalla carne. Se siamo fascisti,
bisognerebbe concludere che la natura stessa è fascista, e che è
necessario eliminarla, cosa che presenta un certo numero di
inconvenienti.
2. Molti non comprendono perché manifestiamo contro una riforma
del codice civile che soddisfa gli interessi di qualcuno mentre non
lede i nostri (non si parla, comunque, degli interessi del bambino).
Effettivamente, ecco qualcosa che lascia senza parola gli
utilitaristi di ogni sponda: non manifestiamo per il trionfo dei
nostri interessi particolari. Cerchiamo soltanto di testimoniare ciò
che è anteriore a ogni interesse, cioè il dono della nascita.
3. È esattamente ciò che arriva a nascondere lo slogan
dell’«uguaglianza» che ci viene servito in tutte le salse, senza
riflettere su ciò che questo termine significa, sulle minacce di
livellamento che comporta, ovvero su quelle di «riduzione» che ha
sempre contenuto. C’è un’evidente e naturale diseguaglianza fra
la coppia formata da un uomo e una donna e quella di due uomini o di
due donne.
Per rendere uguali le condizioni, è necessario
ricorrere all’artificio, e passare dalla nascita alla
fabbricazione, dal “born” al “made”… Dietro la pretesa
legalizzazione giuridica, c’è dunque un assoggettamento
tecnocratico, e il progetto di produrre persone non come persone,
dunque, ma come prodotti, in base ai nostri capricci, secondo la
legge della domanda e dell’offerta, in conformità ai desideri
fomentati dalla pubblicità: «Un bambino à la carte, la vostra
piccola cosa, l’accessorio della vostra autorealizzazione, il terzo
compensatorio delle vostre frustrazioni; infine, per una modica
somma, il barboncino umano!».
4. Ecco perché non siamo «omofobi». Siamo meravigliati dai gays
veramente gai, dai «folli» senza gabbia, dai saggi dell’inversione.
L’amore della differenza sessuale, così fondamentale, con quello
della differenza generazionale (genitori/figli), ci insegna ad
accogliere tutte le differenze secondarie. Se io, uomo, amo le donne,
così estranee al mio sesso, come potrei non avere simpatia, se non
amicizia, per gli omosessuali, che mi sono, in definitiva, molto meno
estranei?
D’altra parte ce ne sono sempre stati, che non avevano
paura di affermare la loro differenza, di assumere una certa
eccentricità, un lavoro ai margini. Allo stesso modo, noi crediamo
che ciò che è veramente «omofobo» è lo pseudo-«matrimonio gay».
Siamo di fronte a un tentativo di imborghesimento, di normalizzazione
dell’omofilia, di annientamento della sua scortesia sotto il codice
civile. Che bel dono questo «matrimonio» che non è altro che un
arrangiamento patrimoniale o un divorzio rinviato! Purché gli
omosessuali rientrino nei ranghi, e che siano sterilizzati
soprattutto nella fecondità che è loro propria.
Perché, chi
ignora la loro fecondità artistica, politicae, letteraria, nella
compassione? Gli antichi Greci la intendevano così: liberi dai
doveri familiari, potevano consacrarsi maggiormente al servizio della
Polis. Sapevano che i loro amori avevano qualcosa di contro-natura,
ma non per questo disprezzavano la natura (di là, molto spesso,
l’amore per la loro madre – vedi Proust o Barthes), e vi
trovavano risorse per l’arte.
5. Come potremmo, meravigliati come siamo, lanciarci in azioni
violente, denigratorie, esclusive? Una volta di più: non cerchiamo
una vittoria politica. Non siamo nemmeno sicuri che ci sia veramente
qualcosa da salvare in questo matrimonio privatizzato, che non ha più
nulla di repubblicano da parecchio tempo. Ed è per questo che,
malgrado la sconfitta legislativa (ma quando vediamo la trappola
mediatica e partitica nella quale si trovano i nostri legislatori, ci
domandiamo se davvero dobbiamo occuparci di questo), noi continueremo
a manifestare: senza armi, senza odio, persino senza slogan, ma con
la nostra piccola epifania di creature di carne, ossa e spirito.