Al mio amico Gianni faranno tanto piacere queste parole....TOLKIEN era attaccato alla catena della fede ed anche la nostra compagnia ne è un'anello.....
Intervista di Giovanni Ricciardi allo scrittore Saverio Simonelli
..Stando al suo biografo Humphrey Carpenter, Tolkien,
cattolico praticante, ebbe una parte non trascurabile nella
conversione dello scrittore inglese Lewis al cristianesimo. Ne parliamo con Saverio
Simonelli, giornalista e scrittore, che nel 2002 ha dedicato a
Tolkien un saggio, edito da Frassinelli (Tolkien: il Signore della
fantasia), e torna ora in libreria con una nuova fatica dedicata
al mondo letterario del narratore inglese (Gli anelli della
fantasia: viaggio ai confini dell’universo di Tolkien,
Frassinelli, 2004).
Tolkien ebbe un ruolo nella conversione di Lewis. Tuttavia le due esperienze di fede furono profondamente diverse. Perché?
SIMONELLI: Lewis è un convertito che abbraccia la fede non per una folgorazione di vita, o per aver visto esempi concreti di vita cristiana, ma perché, alla fine di un suo studio amoroso e sentimentale del Medioevo, gli sembrò, intellettualmente, l’unica scappatoia che rendesse plausibile la “materia” del suo studio. Lewis era talmente innamorato di quella letteratura, fortemente improntata ai contenuti religiosi e allegorici della Scolastica, che, a un certo punto, arrivò a concludere che l’assunto filosofico alla base di queste opere era vero. Quindi, l’approccio di Lewis al cristianesimo, pur se esistenziale, è sempre fortemente intellettuale e poetico. Tolkien ha un atteggiamento, direi, diametralmente opposto.
Qual è la differenza?
SIMONELLI: La posizione inequivocabilmente cattolica di Tolkien è tutta nella percezione del sacramento come una cosa reale, nel suo confessarsi tutte le volte che si accostava alla comunione. Nelle lettere al figlio Christopher durante la Seconda guerra mondiale, mentre questi era al fronte, ripete sempre: mi raccomando, frequenta i sacramenti, recita almeno un’Ave Maria al giorno, e quando puoi, vai in una chiesa francese; non importa se non capisci quello che dicono, se trovi confusione, preti che tirano su col naso e bambini che strillano, ma frequenta il sacramento. E non bisogna dimenticare che Tolkien si è accostato al cattolicesimo grazie alla testimonianza della madre. Ha visto le sue sofferenze, il ripudio da parte dei parenti per la sua conversione. Non ha avuto cioè un approccio “spiritualeggiante” alla fede, mentre per Lewis, per quanto possa essere stata reale la sua conversione, il cristianesimo resta una metafora intellettuale.
In quali aspetti della vita di Tolkien emerge di più questo atteggiamento di amore alla Chiesa come compagnia di Cristo?
SIMONELLI: Tolkien aveva quattro figli. Sicuramente, anche se era un accademico, dedito alle lettere, il rapporto di condivisione profonda che aveva con i figli non poteva non nascere da uno scambio di vita che passasse anche per le cose quotidiane, più banali. È bellissimo rileggere, in una lettera indirizzata al figlio, un punto in cui dice: «Nel rapporto tra un padre e un figlio da qualche parte ci deve essere un po’ di aeternitas», un piccolo mattoncino che è poi destinato, chissà, a svilupparsi in un’altra dimensione. Che non è però la dimensione spiritualeggiante, gnosticheggiante, ma qualcosa che deriva dall’aver fatto un tratto di strada insieme, a contatto di gomito, nella vita. Il finale del Signore degli Anelli a questo proposito è fondamentale. Mentre gli eroi del racconto tornano dalla loro avventura, Tolkien commenta: «Non dissero nulla, ma ognuno traeva conforto dalla presenza dell’altro sulla lunga strada verso casa». È l’immagine del cristiano, il conforto dall’avere vicino qualcuno che posso guardare negli occhi, che posso toccare.
Tolkien ebbe un ruolo nella conversione di Lewis. Tuttavia le due esperienze di fede furono profondamente diverse. Perché?
SIMONELLI: Lewis è un convertito che abbraccia la fede non per una folgorazione di vita, o per aver visto esempi concreti di vita cristiana, ma perché, alla fine di un suo studio amoroso e sentimentale del Medioevo, gli sembrò, intellettualmente, l’unica scappatoia che rendesse plausibile la “materia” del suo studio. Lewis era talmente innamorato di quella letteratura, fortemente improntata ai contenuti religiosi e allegorici della Scolastica, che, a un certo punto, arrivò a concludere che l’assunto filosofico alla base di queste opere era vero. Quindi, l’approccio di Lewis al cristianesimo, pur se esistenziale, è sempre fortemente intellettuale e poetico. Tolkien ha un atteggiamento, direi, diametralmente opposto.
Qual è la differenza?
SIMONELLI: La posizione inequivocabilmente cattolica di Tolkien è tutta nella percezione del sacramento come una cosa reale, nel suo confessarsi tutte le volte che si accostava alla comunione. Nelle lettere al figlio Christopher durante la Seconda guerra mondiale, mentre questi era al fronte, ripete sempre: mi raccomando, frequenta i sacramenti, recita almeno un’Ave Maria al giorno, e quando puoi, vai in una chiesa francese; non importa se non capisci quello che dicono, se trovi confusione, preti che tirano su col naso e bambini che strillano, ma frequenta il sacramento. E non bisogna dimenticare che Tolkien si è accostato al cattolicesimo grazie alla testimonianza della madre. Ha visto le sue sofferenze, il ripudio da parte dei parenti per la sua conversione. Non ha avuto cioè un approccio “spiritualeggiante” alla fede, mentre per Lewis, per quanto possa essere stata reale la sua conversione, il cristianesimo resta una metafora intellettuale.
In quali aspetti della vita di Tolkien emerge di più questo atteggiamento di amore alla Chiesa come compagnia di Cristo?
SIMONELLI: Tolkien aveva quattro figli. Sicuramente, anche se era un accademico, dedito alle lettere, il rapporto di condivisione profonda che aveva con i figli non poteva non nascere da uno scambio di vita che passasse anche per le cose quotidiane, più banali. È bellissimo rileggere, in una lettera indirizzata al figlio, un punto in cui dice: «Nel rapporto tra un padre e un figlio da qualche parte ci deve essere un po’ di aeternitas», un piccolo mattoncino che è poi destinato, chissà, a svilupparsi in un’altra dimensione. Che non è però la dimensione spiritualeggiante, gnosticheggiante, ma qualcosa che deriva dall’aver fatto un tratto di strada insieme, a contatto di gomito, nella vita. Il finale del Signore degli Anelli a questo proposito è fondamentale. Mentre gli eroi del racconto tornano dalla loro avventura, Tolkien commenta: «Non dissero nulla, ma ognuno traeva conforto dalla presenza dell’altro sulla lunga strada verso casa». È l’immagine del cristiano, il conforto dall’avere vicino qualcuno che posso guardare negli occhi, che posso toccare.
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