"Un pomeriggio me ne stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio Stefano, che poteva avere 4 o 5 anni,
correggendo i temi come ogni insegnante di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non avevo notato
che Stefano si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio mi stava guardando. Non chiedeva nulla di
particolare, non aveva bisogno di nulla, solo osservava suo padre al lavoro. Ricordo che quel giorno,
nell’incrociare lo sguardo di mio figlio, mi folgorò questa impressione: che lo sguardo di mio
figlio contenesse una domanda assolutamente radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se
guardandomi chiedesse: papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo. Questa, mi sono detto,
è la domanda dell’educazione e da quel momento non ho più potuto neanche entrare in classe e
incrociare lo sguardo dei miei alunni e non sentirmi rivolta questa domanda: quale speranza ti sostiene?
Dante nel Paradiso, interrogato da San Pietro sulla fede, si sente chiedere: “Quella cara gioia sopra la
quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?” Perché io potevo desiderare, bambino, di
essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via
è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del
dolore, della vita e della morte. Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso
ultimamente positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di
una Verità conosciuta. Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è
“introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo
significato”, bene mio papà faceva esattamente questo. E questo, mi pare, è proprio
ciò che manca ai giovani oggi: sono cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi
esplicativa della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente
indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché, lo sappiamo bene noi adulti:
non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi. Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli
è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra. Ecco, mio padre, lo dico volutamente con
un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo
desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “Io sono felice, vedete la mia
vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la sua santità,
non la nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo per nostra libera scelta.
Una fede che non si dimostrasse aderente alla vita reale, che non
si mostrasse capace di esaltare l’io, il cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare
curiosità e interesse e desiderio di seguire.
Una volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo), serissimo: “Ma papà, noi siamo una
famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui dice il contrario: scuola, TV, amici. Allora ho
capito che sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la vita, la vita nel mondo normale.
Si trattava di fargli veder un altro “mondo”, un altro mondo in questo mondo. Ho capito che mi
chiedeva di fargli vedere che la cosa funzionava davvero, che c’erano amici, famiglie, realtà,
movimenti, chiese, oratori, parrocchie missioni da cui poter capire e stare certo che quando fosse stato chiamato
a sfidare il mondo avrebbe avuto ragioni sufficienti da portare, tutto il peso e la forza di tanti testimoni; che
sarà un modo minoritario, quello che vive in un certo modo, ma che sia un mondo vero, "famiglie vere,
amici veri, case vere.
Dalla testimonianza del prof.Franco Nembrini , l’11 giugno 2007
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