Padre Raniero Cantalamessa (per la nostra Scuola di Cristianesimo)
Nella
prima lettura, un angelo dice ai discepoli: "Uomini di Galilea, perché
state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto
fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto
andare in cielo". Questa è l'occasione per chiarirci una buona volta le
idee su che cosa intendiamo per "cielo". Presso quasi tutti i popoli, il
cielo sta a indicare la dimora della divinità. Anche la Bibbia usa
questo linguaggio spaziale. "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in
terra agli uomini".
Con l'avvento dell'era scientifica,
tutti questi significati religiosi attribuiti alla parola cielo sono
entrati in crisi. Il cielo è lo spazio entro cui si muove il nostro
pianeta e l'intero sistema solare, e nulla più. Conosciamo la battuta
attribuita a un astronauta sovietico, di ritorno dal suo viaggio nel
cosmo: "Ho girato a lungo nello spazio e non ho incontrato da nessuna
parte Dio!"
È importante dunque che cerchiamo di chiarire
cosa intendiamo noi cristiani quando diciamo "Padre nostro che sei nei
cieli", o quando diciamo di qualcuno che "è andato in cielo". La Bibbia
si adatta, in questi casi, al modo di parlare popolare (lo facciamo del
resto anche oggi, nell'era scientifica, quando diciamo che il sole
"sorge" o "tramonta"); ma essa sa bene e insegna che Dio è "in cielo, in
terra e in ogni luogo", che è lui che "ha creato i cieli" e, se li ha
creati, non può essere in essi "racchiuso". Che Dio sia "nei cieli"
significa che "abita in una luce inaccessibile"; che dista da noi
"quanto il cielo è alto sulla terra".
Anche noi cristiani
siamo d'accordo, quindi, nel dire che il cielo come luogo della dimora
di Dio è più uno stato che un luogo. Quando si parla di lui, non ha
alcun senso dire sopra o sotto, su o giù. Con questo non stiamo
affermando che il paradiso non esiste, ma solo che a noi mancano le
categorie per potercelo rappresentare. Prendiamo una persona totalmente
cieca dalla nascita e chiediamogli di descriverci cosa sono i colori: il
rosso, il verde, il blu...Non potrà dirne assolutamente niente, né un
altro sarà in grado di spiegarglielo, perché i colori si percepiscono
solo con gli occhi. Così succede a noi nei confronti dell'aldilà e della
vita eterna che è fuori del tempo e dello spazio.
Alla
luce di quello che abbiamo detto, che cosa significa proclamare che Gesù
"è asceso al cielo"? La risposta la troviamo nel Credo: "È salito al
cielo, siede alla destra del Padre". Che Cristo sia salito al cielo
significa che "siede alla destra del Padre", cioè che, anche come uomo,
egli è entrato nel mondo di Dio; che è stato costituito, come dice san
Paolo nella seconda lettura, Signore e capo di tutte le cose. Quando si
tratta di noi, "andare in cielo", o andare "in paradiso" significa
andare a stare "con Cristo" (Fil 1,23). Il nostro vero cielo è il Cristo
risorto con cui andremo a ricongiungerci e a fare "corpo" dopo la
nostra risurrezione e in modo provvisorio e imperfetto già subito dopo
morte. Si obbietta a volte che nessuno, però, è mai tornato dall'aldilà
per assicurarci che esso esiste davvero e non è soltanto una pia
illusione. Non è vero! C'è uno che ogni giorno, nell'Eucaristia, torna
dall'aldilà per assicurarci e rinnovare le sue promesse, se sappiamo
riconoscerlo.
Le parole dell'angelo: "Uomini di Galilea,
perché state a guardare il cielo?" contengono anche un velato
rimprovero: non bisogna stare a guardare in cielo e speculare
sull'aldilà, ma piuttosto vivere in attesa del suo ritorno, proseguire
la sua missione, portare il suo Vangelo fino ai confini del mondo,
migliorare la stessa vita sulla terra. Egli è andato al cielo, ma senza
lasciare la terra. È solo uscito dal nostro campo visivo. Proprio nel
brano evangelico lui stesso ci assicura: "Ecco io sono con voi tutti i
giorni, fino alla fine del mondo".
Nessun commento:
Posta un commento