"Si può dire che lo sguardo di fede ci conduce a uscire ogni giorno, e sempre più, incontro al prossimo che abita nella città. Ci spinge a uscire verso l’incontro perché questo sguardo si alimenta nella vicinanza. Non tollera la distanza, avverte che la distanza sfoca ciò che desidera vedere; e la fede vuole vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Nell’uscire per strada, la fede limita l’avidità dello sguardo dominatore e aiuta ogni prossimo concreto – al quale guarda con desiderio di servirlo – a focalizzare meglio “l’oggetto proprio e amato”, che è Gesù Cristo venuto nella carne. Chi dice che crede in Dio e “non vede” il proprio fratello, inganna se stesso.
Perfezionarsi nella fede in questo Dio che vive nella città rinnova la speranza di nuovi incontri. La speranza ci libera da quella forza centripeta che spinge il cittadino del nostro tempo a vivere isolato, aspettando a casa la consegna dei suoi acquisti e connesso solo virtualmente. Il credente che guarda illuminato dalla speranza combatte la tentazione di non guardare, tentazione riconducibile o al vivere murato nei bastioni della propria nostalgia o alla sete di curiosare. Il suo non è lo sguardo avido del “vediamo che cosa è successo oggi” tipico dei notiziari.
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Se partiamo dalla constatazione che l’anti-città cresce con il non sguardo, che la maggior esclusione consiste nel nemmeno “vedere” l’escluso – quello che dorme per strada non lo si vede come persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, dello “scarico” – la città umana cresce con lo sguardo che “vede” l’altro come concittadino. In questo senso, lo sguardo di fede è fermento per uno sguardo di cittadinanza. Per questo, possiamo parlare di un “servizio della fede”: un servizio esistenziale, testimoniale, pastorale.
Sto dicendo che la fede, per sé sola, migliora la città? Sì, nel senso che solo la fede ci libera dalle generalizzazioni e dalle astrazioni di uno sguardo dotto che, come suo frutto, porta solo maggiore conoscenza.
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Se ci situiamo nell’ambito della carità, possiamo dire che questo sguardo ci salva dal dover relativizzare la verità per poter essere inclusivi. La città odierna è relativista (tutto è valido), e forse a volte cadiamo nella tentazione di pensare che, per non discriminare, per includere tutti, sia necessario “relativizzare” la verità. Non è così. Il nostro Dio che vive nella città – nella cui vita quotidiana si coinvolge – non discrimina né relativizza. La sua verità è quella dell’incontro che scopre volti, e ogni volto è unico. Includere persone con volti e nomi propri non implica relativizzare valori né giustificare antivalori; al contrario, non discriminare e non relativizzare implica avere la fortezza per accompagnare i processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere. La verità che accompagna è quella che mostra percorsi futuri più che giudicare le chiusure del passato.
Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è misericordioso.
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Questo sguardo è personale e comunitario. Si traduce in agenda, segna tempi più lenti di quelli della realtà (avvicinarsi a un malato richiede tempo) e genera strutture accoglienti e non espellenti, cosa che pure esige tempo.
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Un Dio vivo in mezzo alla città chiede di andare a fondo nel cammino di questo sguardo che proponiamo. Non è un guardarsi l’ombelico come invece lo è il “guardare a come guardiamo”.
Perché la città, come il deserto, produce miraggi.
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Dio vive nella città, e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al fatto di imparare dalla città – dalle sue culture e dai suoi scambi – nel momento stesso in cui usciamo per predicarle il Vangelo.
Questo è un frutto del Vangelo stesso, il quale interagisce con il terreno nel quale cade come seme. Non solo la città moderna è una sfida, ma lo sono state, lo sono e lo saranno tutte le città, tutte le culture, tutte le mentalità e tutti i cuori umani.
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La dinamica è la stessa di Giovanni nella lavanda dei piedi: la coscienza lucida e onnicomprensiva del Signore (sapendo che il Padre aveva posto tutto nelle sue mani) lo spinge a cingersi il grembiule e a lavare i piedi ai suoi discepoli. La visione più profonda e più alta non spinge a nuove visioni, ma all’azione più umile, situata e concreta.
Tenendo conto di queste riflessioni, e per concludere, possiamo dire che lo sguardo del credente sulla città si compie in tre attitudini concrete:
- L’uscire da sé per andare incontro all’altro si compie nella vicinanza, in una attitudine alla prossimità. Il nostro sguardo deve essere sempre pronto a uscire e a farsi vicino. Non autoreferenziale ma trascendente.
- Il fermento e il seme della fede trovano compimento nella testimonianza (se conosciute queste cose le mettono in pratica, saranno felici). Dimensione martiriale della fede.
- L’accompagnamento trova compimento nella pazienza, la quale accompagna i processi senza fare loro violenza.
In questa direzione mi pare che debba andare il servizio che, come uomini e donne credenti, possiamo offrire alla nostra città. ( Buenos Aires 2011
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