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Somalia, dove morde la fame
di Matteo Fraschini Koffi
22/07/2011 - Oltre 400mila uomini, in fuga dalla siccità e da una guerra ventennale, ammassati a Dadaab, in Kenya. Il racconto su “Avvenire” di Leo Capobianco, tra i responsabili del campo profughi: «Non ho mai visto una situazione così»
«In vent’anni di Africa non ho mai visto una situazione del genere», racconta con grande preoccupazione Leo Capobianco, responsabile di Avsi in Kenya e coordinatore dei progetti nel campo per rifugiati di Dadaab, in collaborazione con l’organizzazione Agire. «Dal punto di vista professionale ma soprattutto da quello umano: non avrei mai pensato di ritrovarmi coinvolto in una crisi di queste dimensioni». Parole gravi e angosciose quelle di Capobianco, che riflettono l’essenza del campo profughi più grande al mondo, quello di Dadaab, considerato senza eufemismi un inferno in terra.
«Le testimonianze dei rifugiati che soccorriamo ogni giorno hanno dell’incredibile – continua il responsabile dell’organizzazione, tornato a Nairobi per partecipare alle riunioni d’emergenza delle agenzie umanitarie, e pronto a ripartire già oggi per il campo con altri aiuti – la storia che mi ha più colpito è quella di una famiglia il cui padre e figlio sono stati letteralmente mangiati dalle iene durante il tragitto tra il sud della Somalia e Dadaab». Capobianco racconta anche di aver visto migliaia di rifugiati che, dopo aver camminato per settimane in una delle aree più aride del Corno d’Africa, sono arrivati in condizioni di estrema povertà, spesso senza neanche uno straccio di vestito per coprirsi il corpo.
Avsi e Agire sono tra le organizzazioni umanitarie che da tempo lavorano in tutte e tre le sezioni del campo di Dadaab con progetti principalmente mirati all’educazione. «Da tre anni stiamo costruendo scuole e provvediamo alla formazione di centinaia d’insegnanti – spiega ad Avvenire Capobianco – nonostante questa crisi epocale abbia colto tutti di sorpresa, teniamo duro e mandiamo avanti i nostri progetti con tutte le nostre forze».
L’emergenza umanitaria in cui è stato risucchiato il campo di Dadaab sta peggiorando giorno dopo giorno. Ai più di 400 mila rifugiati già presenti nel campo, quotidianamente se ne aggiungono tra i 2 e i 3mila. La maggior parte di loro fugge dalla Somalia, l’ex colonia italiana in guerra da più di vent’anni, e che in almeno due regioni ha raggiunto questa settimana lo stadio ufficiale di "carestia", l’ultimo relativo alle emergenze umanitarie.
Le agenzie delle Nazioni unite, oltre ad aver fissato una riunione d’emergenza-crisi per lunedì, hanno dichiarato ieri che per fermare il sempre più prorompente flusso di profughi saranno costrette a far cadere gli aiuti dagli aerei che sorvoleranno il sud della Somalia. Queste zone sono occupate dal gruppo di ribelli qaedisti dell’al Shabaab che, nonostante abbia permesso la distribuzione di viveri e medicinali nelle proprie aree, non sembra garantire la completa sicurezza per gli operatori sul territorio. Una nota della Caritas Italiana, da anni impegnata nel Corno d’Africa, oltre ad aver lanciato una raccolta di fondi, ha invitato a riflettere sulle cause strutturali di tali sofferenze: «La dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo, l’innalzamento dei prezzi, le situazioni di conflitto, e i cambiamenti climatici».
CORNO D'AFRICA: IL RACCONTO DAL VIVO DI UNA COOPERANTE.
Gente in cammino. Si incontra su tutto il tragitto che si percorre dal compound dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi (UNHCR) a Dadaab, fino al campo di Ifo. Sono campi profughi, tra i più grandi del mondo. 400mila persone.
Persone al seguito di carri con alte pire di legna trainati da asini lenti, ragazzi che portano greggi di mucche troppo magre in una terra che di verde ha soltanto gli arbusti di acacia. Una terra semidesertica praticamente asciutta da quasi due anni. La sabbia e la polvere alzate dalle macchine del convoglio che viene scortato nei campi ostacolano la visibilità. I finestrini chiusi impediscono di percepire il vento che agita i vestiti delle persone che camminano nel mezzo di questo nulla. In questa terra che non è neanche segnata sulle mappe, nonostante stia diventando la quarta città del Kenya.
Le capanne a cupola che si vedono tutt’intorno sono costruite con i rami degli arbusti e coperte da stracci. Scendendo dall’auto si viene travolti dal vento che fa ruzzolare tutto. Qui a Dadaab c’è sempre un forte vento. Il cielo è quasi sempre coperto, le nuvole corrono minacciose ogni giorno. In Italia è il segno inequivocabile di un temporale in arrivo. Qua no. Qua non piove mai. Secondo l’Onu la carestia che sta attanagliando la Somalia è la peggiore negli ultimi 60 anni. Da quel paese, già difficile prima, ora scappano tutti. E molti arrivano qui. Il 95% della popolazione è somala.
Nei campi profughi c’è sempre un grande movimento, ovunque persone in cammino. Nel campo di Ifo, in piedi dal 1992, la vita sembra organizzata. Ci sono negozi, c’è il mercato, le scuole, gli ospedali, i ristorantini, i rivenditori di telefonini, i sarti, gli internet point e, naturalmente, tanta gente sulle strade, ovunque, in movimento. Sembra un qualsiasi villaggio africano, a prima vista. Ma se ci si avvicina, non è così. Entrandoci si notano i cartelli con i nomi dei settori, le case che non sono case e tutte arrangiate, le latrine in comune per troppe famiglie, nomi di organizzazioni
umanitarie come la nostra Avsi che qui ci stanno.
Dal 2009, infatti, su richiesta dell’UNHCR e della Cooperazione Italiana, stiamo mettendo in piedi un intervento educativo qui a Dadaab. Mettiamo a posto scuole, ne costruiamo di nuove e formiamo i maestri così che possano
insegnare ai bambini. Ed ora siamo impegnati con Agire su questa nuova emergenza siccità.
Allontanandosi dal centro dei campo, le cose cambiano. Rimangono le persone in cammino, ma le case si fanno più rade, spariscono i negozi, le latrine e i punti di raccolta dell’acqua. Scompare quasi tutto. Svettano le tende bianche con lo stemma azzurro dell’UNHCR. Qui sono loro che gestiscono il campo e noi lavoriamo per loro. Tante persone in attesa di essere registrate e di avere un po’ di acqua, cibo e un posto dove dormire. E’ un lavoro quasi impossibile. Ogni giorno arrivano più di 1.500 persone.
Parlando con loro ci si accorge che ciò che li ha spinti a lasciare la propria terra è in realtà una condizione in cui molta gente vive da tempo nel Corno d’Africa, soprattutto in Somalia. La siccità, la guerra, la paura, la fame sono le principali cause. Sono tutti arrivati a Dadaab dopo un viaggio che li ha visti affrontare a piedi o con mezzi di fortuna chilometri e chilometri di strada. Anche ventisette ore di cammino. Un viaggio troppo lungo. I racconti sono drammatici, e simili. Tutti hanno patito la fame, la sete, la stanchezza. Tanti hanno raccontato di bambini abbandonati sulla strada perché troppo deboli per proseguire il cammino. Sono stati vittime di assalti dei banditi che gli hanno portano via tutto, anche i vestiti. La cosa più sconvolgente è la quantità di persone che è stata attaccata da animali feroci. Chi da un coccodrillo, chi da un leone, chi da un facocero. L’animale che uccide il maggior numero di persone, anche qui nei campi, è la iena. Chi muore sono soprattutto i bambini.
Attorno a me vedo i ragazzini che invece ce l’hanno fatta. Sono bambini con croste sulla testa o con i capelli gialli che indicano la denutrizione. Sono magrissimi, con le ginocchia che sembrano sproporzionatamente grandi rispetto al loro corpicino. Hanno gli occhi scavati. Ma sono pur sempre bambini che vogliono essere immortalati in una foto o che scappano terrorizzati alla vista di un bianco che porge loro la mano. Alcuni sono sopravvissuti all’attacco di animali. Come uno dei 5 figli di Mariam, una donna di 45 anni a Dadaab da 4 mesi. Quando è arrivata, con i figli e senza il marito, rimasto in Somalia a custodire il povero bestiame, non aveva una tenda o un posto dove stare. Dormiva sotto un albero con i suoi bambini. Una notte sono stati attaccati da una iena, ma fortunatamente sono riusciti a salvarsi. La gente attorno li ha aiutati.
Non è andata così bene a Momina, che ha visto suo figlio di soli 7 mesi essere ucciso e strappato via da un facocero sulla strada verso il confine tra la Somalia e il Kenya. O a Hassan, che ha visto suo figlio di 8 anni travolto da un leone, e nonostante questo si ritiene fortunato perché lui e il resto della sua famiglia sono ancora vivi.
E quando non sono state le belve, sono stati gli uomini ad uccidere. Mahmud migrava con i figli, un asino e un carretto. È stato attaccato dai banditi, che gli hanno portato via tutto e hanno dato fuoco al carro con l’asino e i figli sopra. Uno è rimasto ferito, ed è morto appena arrivato al campo.
La cosa incredibile è come la voglia e la speranza di vita rimanga forte nelle persone che hanno vissuto queste esperienze terribili. Noi siamo qui, di fronte a loro che li guardiamo. Chiedono medicine, acqua e cibo. Ma chiedono anche scuole per essere istruiti e per permettere ai loro figli di crescere. Perché il domani è ancora là. E dopo quello che hanno passato, l’unica cosa importante è renderlo il più sereno possibile. Ed è proprio per il loro futuro che chiediamo a tutti di aderire con Avsi all’appello di Agire per l’emergenza siccità in Africa orientale. Aiutateci ad aiutarli.
Da oggi, è possibile donare 2 euro tramite sms telefonando al numero solidale 45500 (da cellulari Tim, Vodafone, Coopvoce o da reti fisse Telecom Italia e Teletu).
22/07/2011 - Oltre 400mila uomini, in fuga dalla siccità e da una guerra ventennale, ammassati a Dadaab, in Kenya. Il racconto su “Avvenire” di Leo Capobianco, tra i responsabili del campo profughi: «Non ho mai visto una situazione così»
- Profughi somali in fuga dal loro Paese.
«Le testimonianze dei rifugiati che soccorriamo ogni giorno hanno dell’incredibile – continua il responsabile dell’organizzazione, tornato a Nairobi per partecipare alle riunioni d’emergenza delle agenzie umanitarie, e pronto a ripartire già oggi per il campo con altri aiuti – la storia che mi ha più colpito è quella di una famiglia il cui padre e figlio sono stati letteralmente mangiati dalle iene durante il tragitto tra il sud della Somalia e Dadaab». Capobianco racconta anche di aver visto migliaia di rifugiati che, dopo aver camminato per settimane in una delle aree più aride del Corno d’Africa, sono arrivati in condizioni di estrema povertà, spesso senza neanche uno straccio di vestito per coprirsi il corpo.
Avsi e Agire sono tra le organizzazioni umanitarie che da tempo lavorano in tutte e tre le sezioni del campo di Dadaab con progetti principalmente mirati all’educazione. «Da tre anni stiamo costruendo scuole e provvediamo alla formazione di centinaia d’insegnanti – spiega ad Avvenire Capobianco – nonostante questa crisi epocale abbia colto tutti di sorpresa, teniamo duro e mandiamo avanti i nostri progetti con tutte le nostre forze».
L’emergenza umanitaria in cui è stato risucchiato il campo di Dadaab sta peggiorando giorno dopo giorno. Ai più di 400 mila rifugiati già presenti nel campo, quotidianamente se ne aggiungono tra i 2 e i 3mila. La maggior parte di loro fugge dalla Somalia, l’ex colonia italiana in guerra da più di vent’anni, e che in almeno due regioni ha raggiunto questa settimana lo stadio ufficiale di "carestia", l’ultimo relativo alle emergenze umanitarie.
Le agenzie delle Nazioni unite, oltre ad aver fissato una riunione d’emergenza-crisi per lunedì, hanno dichiarato ieri che per fermare il sempre più prorompente flusso di profughi saranno costrette a far cadere gli aiuti dagli aerei che sorvoleranno il sud della Somalia. Queste zone sono occupate dal gruppo di ribelli qaedisti dell’al Shabaab che, nonostante abbia permesso la distribuzione di viveri e medicinali nelle proprie aree, non sembra garantire la completa sicurezza per gli operatori sul territorio. Una nota della Caritas Italiana, da anni impegnata nel Corno d’Africa, oltre ad aver lanciato una raccolta di fondi, ha invitato a riflettere sulle cause strutturali di tali sofferenze: «La dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo, l’innalzamento dei prezzi, le situazioni di conflitto, e i cambiamenti climatici».
CORNO D'AFRICA: IL RACCONTO DAL VIVO DI UNA COOPERANTE.
Gente in cammino. Si incontra su tutto il tragitto che si percorre dal compound dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi (UNHCR) a Dadaab, fino al campo di Ifo. Sono campi profughi, tra i più grandi del mondo. 400mila persone.
Persone al seguito di carri con alte pire di legna trainati da asini lenti, ragazzi che portano greggi di mucche troppo magre in una terra che di verde ha soltanto gli arbusti di acacia. Una terra semidesertica praticamente asciutta da quasi due anni. La sabbia e la polvere alzate dalle macchine del convoglio che viene scortato nei campi ostacolano la visibilità. I finestrini chiusi impediscono di percepire il vento che agita i vestiti delle persone che camminano nel mezzo di questo nulla. In questa terra che non è neanche segnata sulle mappe, nonostante stia diventando la quarta città del Kenya.
Le capanne a cupola che si vedono tutt’intorno sono costruite con i rami degli arbusti e coperte da stracci. Scendendo dall’auto si viene travolti dal vento che fa ruzzolare tutto. Qui a Dadaab c’è sempre un forte vento. Il cielo è quasi sempre coperto, le nuvole corrono minacciose ogni giorno. In Italia è il segno inequivocabile di un temporale in arrivo. Qua no. Qua non piove mai. Secondo l’Onu la carestia che sta attanagliando la Somalia è la peggiore negli ultimi 60 anni. Da quel paese, già difficile prima, ora scappano tutti. E molti arrivano qui. Il 95% della popolazione è somala.
Nei campi profughi c’è sempre un grande movimento, ovunque persone in cammino. Nel campo di Ifo, in piedi dal 1992, la vita sembra organizzata. Ci sono negozi, c’è il mercato, le scuole, gli ospedali, i ristorantini, i rivenditori di telefonini, i sarti, gli internet point e, naturalmente, tanta gente sulle strade, ovunque, in movimento. Sembra un qualsiasi villaggio africano, a prima vista. Ma se ci si avvicina, non è così. Entrandoci si notano i cartelli con i nomi dei settori, le case che non sono case e tutte arrangiate, le latrine in comune per troppe famiglie, nomi di organizzazioni
umanitarie come la nostra Avsi che qui ci stanno.
Dal 2009, infatti, su richiesta dell’UNHCR e della Cooperazione Italiana, stiamo mettendo in piedi un intervento educativo qui a Dadaab. Mettiamo a posto scuole, ne costruiamo di nuove e formiamo i maestri così che possano
insegnare ai bambini. Ed ora siamo impegnati con Agire su questa nuova emergenza siccità.
Allontanandosi dal centro dei campo, le cose cambiano. Rimangono le persone in cammino, ma le case si fanno più rade, spariscono i negozi, le latrine e i punti di raccolta dell’acqua. Scompare quasi tutto. Svettano le tende bianche con lo stemma azzurro dell’UNHCR. Qui sono loro che gestiscono il campo e noi lavoriamo per loro. Tante persone in attesa di essere registrate e di avere un po’ di acqua, cibo e un posto dove dormire. E’ un lavoro quasi impossibile. Ogni giorno arrivano più di 1.500 persone.
Parlando con loro ci si accorge che ciò che li ha spinti a lasciare la propria terra è in realtà una condizione in cui molta gente vive da tempo nel Corno d’Africa, soprattutto in Somalia. La siccità, la guerra, la paura, la fame sono le principali cause. Sono tutti arrivati a Dadaab dopo un viaggio che li ha visti affrontare a piedi o con mezzi di fortuna chilometri e chilometri di strada. Anche ventisette ore di cammino. Un viaggio troppo lungo. I racconti sono drammatici, e simili. Tutti hanno patito la fame, la sete, la stanchezza. Tanti hanno raccontato di bambini abbandonati sulla strada perché troppo deboli per proseguire il cammino. Sono stati vittime di assalti dei banditi che gli hanno portano via tutto, anche i vestiti. La cosa più sconvolgente è la quantità di persone che è stata attaccata da animali feroci. Chi da un coccodrillo, chi da un leone, chi da un facocero. L’animale che uccide il maggior numero di persone, anche qui nei campi, è la iena. Chi muore sono soprattutto i bambini.
Attorno a me vedo i ragazzini che invece ce l’hanno fatta. Sono bambini con croste sulla testa o con i capelli gialli che indicano la denutrizione. Sono magrissimi, con le ginocchia che sembrano sproporzionatamente grandi rispetto al loro corpicino. Hanno gli occhi scavati. Ma sono pur sempre bambini che vogliono essere immortalati in una foto o che scappano terrorizzati alla vista di un bianco che porge loro la mano. Alcuni sono sopravvissuti all’attacco di animali. Come uno dei 5 figli di Mariam, una donna di 45 anni a Dadaab da 4 mesi. Quando è arrivata, con i figli e senza il marito, rimasto in Somalia a custodire il povero bestiame, non aveva una tenda o un posto dove stare. Dormiva sotto un albero con i suoi bambini. Una notte sono stati attaccati da una iena, ma fortunatamente sono riusciti a salvarsi. La gente attorno li ha aiutati.
Non è andata così bene a Momina, che ha visto suo figlio di soli 7 mesi essere ucciso e strappato via da un facocero sulla strada verso il confine tra la Somalia e il Kenya. O a Hassan, che ha visto suo figlio di 8 anni travolto da un leone, e nonostante questo si ritiene fortunato perché lui e il resto della sua famiglia sono ancora vivi.
E quando non sono state le belve, sono stati gli uomini ad uccidere. Mahmud migrava con i figli, un asino e un carretto. È stato attaccato dai banditi, che gli hanno portato via tutto e hanno dato fuoco al carro con l’asino e i figli sopra. Uno è rimasto ferito, ed è morto appena arrivato al campo.
La cosa incredibile è come la voglia e la speranza di vita rimanga forte nelle persone che hanno vissuto queste esperienze terribili. Noi siamo qui, di fronte a loro che li guardiamo. Chiedono medicine, acqua e cibo. Ma chiedono anche scuole per essere istruiti e per permettere ai loro figli di crescere. Perché il domani è ancora là. E dopo quello che hanno passato, l’unica cosa importante è renderlo il più sereno possibile. Ed è proprio per il loro futuro che chiediamo a tutti di aderire con Avsi all’appello di Agire per l’emergenza siccità in Africa orientale. Aiutateci ad aiutarli.
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