lo Straniero - Il blog di Antonio Socci
La ragazza che guardava il cielo
Vi regalo, qui sotto, la prefazione che ho scritto al libro di Alberto Reggiori, “La ragazza che guardava il cielo” (Rizzoli, pp. 210, euro 18). E’ una storia vera. E’ un grande libro. Leggetelo questa estate.
Vi appassionerà e vi commuoverà… Vi cambierà! Vi farà vedere – in questo mondo di palloni gonfiati, celebrati dai media – dove sono e chi sono i veri eroi sconosciuti del nostro tempo
* * *
Era l’8 ottobre del 2009. Mi trovavo nel pieno della mia personale tragedia: il coma di mia figlia Caterina. Fra le tantissime mail che mi arrivarono in quei giorni ce ne fu una particolare, che subito mi colpì. Si concludeva con queste parole: “Un abbraccio ed una preghiera dal profondo dell’Africa”.
Chi mai poteva raggiungermi dal profondo dell’Africa? Era la lettera di un medico di Varese, Alberto Reggiori, che scriveva dal sud del Sudan dove era andato come volontario per tre settimane a curare delle popolazioni fra le più povere e derelitte del pianeta, con un progetto della Fondazione Avsi.
Si rivolgeva a me e a mia moglie: “vorrei dirvi che vi sono molto vicino anche e soprattutto perché il percorso che state facendo è stato anche il nostro: mio e di mia moglie Patrizia e dei nostri sette figli”.
Il dottor Reggiori mi spiegava che nel 2007 suo figlio Giulio, a quel tempo diciottenne, fece un gravissimo incidente che lo portò sulla soglia della morte.
Con la sua lettera cercava soprattutto il modo per confortarci e incoraggiarci a lottare. Mi scriveva:
Quando ci hanno comunicato dell’incidente di Giulio (…) la fede che Dio ci ha donato insieme alla croce da portare (sempre faticosa e dolorosa) ci ha sostenuto ed ora guardando indietro sono pieno di stupore.
Quando siamo passati attraverso momenti difficili (i medici che ci negavano ragionevoli speranze, i parametri che tu ben conosci erano a livelli incompatibili con la vita, il cervello di Giulio che alla Tac era “un colabrodo”) io e Patrizia ci siamo detti che continuavamo a sperare nella bontà di Dio, nel suo amore verso il nostro destino e quello di Giulio. Certi, non di un destino buono generico, ma della guarigione del nostro grande Giulio.
Abbiamo chiesto, così come eravamo capaci, insieme a decine e centinaia di amici (ogni sera il rosario al Sacro Monte vedeva anche 200 persone salire come mendicanti per chiedere a Maria la sua pietà; fuori dalla rianimazione era una processione continua).
Anche per noi sono diventati familiari i brani del vangelo in cui Cristo ci invita a pregare il Padre con insistenza, sperando contro ogni speranza: la vedova importuna, il cieco che grida “figlio di Dio abbi pietà di me”, l’amico che bussa di notte, il centurione che chiede la guarigione… tutti loro erano, anzi sono la nostra voce.
Abbiamo pregato e chiesto di giorno e di notte, letteralmente, senza smettere e devo dire che quel periodo della nostra vita è stato così importante perché il Signore ci ha toccato e la sua presenza ha lasciato il segno che non possiamo né vogliamo più toglierci di dosso. Ringrazio ogni giorno per quello che è successo, questa forse è la vera follia della croce.
Adesso Giulio, dopo due mesi di coma, sei operazioni, nove di carrozzina e una rieducazione che continua sino ad oggi ha recuperato tanto, quasi tutto ed è un miracolo la sua presenza per noi, la sua costante letizia, il suo affidarsi a noi ed agli amici, l’essere sempre sorpreso davanti alla vita, senza pretesa, (…).
A posteriori possiamo dire che forse era necessario passare attraverso questa misteriosa e potente purificazione. Comunque adesso in ballo ci siete voi, e la vostra bella e brava Caterina e noi vi siamo vicini, come se ci conoscessimo da sempre e vi rassicuriamo: non perdetevi d’animo e continuate a sostenervi a vicenda nel coraggio della Fede in Colui che non vi delude. Sperando di incontrarci, prima o poi.
Questa testimonianza mi confortò tantissimo, ma insieme mi incuriosì. Alcuni dettagli erano per me rivelatori di una persona fuori dal comune (come pure una persona eccezionale è sua moglie): sette figli, una tale fede e una tale forza da sostenere la durissima prova dell’incidente a Giulio e, mentre è ancora in corso tutto questo, lo spendere le proprie ferie in Sudan, una regione devastata da anni di guerre, a curare i più poveri e derelitti del mondo.
Infine – come se non bastasse – trovandosi in quell’inferno – la capacità di trovare il tempo e il modo per confortare un padre che, a migliaia di chilometri di distanza, ha saputo (da internet) essere precipitato nello stesso incubo per una sua figlia in coma.
Subito risposi a quella mail chiedendo al dottor Reggiori di darmi qualche informazione su di sé, sul perché si trovava in Africa. E ho scoperto una storia stupefacente.
Lui e sua moglie Patrizia, poco dopo la laurea in Medicina e il matrimonio, negli anni Ottanta, avevano dato la loro disponibilità ad andare a lavorare in Africa con i progetti dell’Avsi, per curare quelle popolazioni povere e privi di assistenza sanitaria.
Così Alberto e Patrizia sono partiti e hanno vissuto più di dieci anni in Uganda (tre dei loro sette figli, Giulio compreso, sono nati là).
Condividendo la vita di quella povera gente e legandosi a loro con forti legami di amicizia, hanno assistito, fra l’altro, da lì in prima linea, all’irrompere in quelle regioni di un apocalittico flagello infettivo che mieterà un mare di vittime e che solo dopo un po’ fu identificato: si chiamava Aids.
Eppure, quando parlano della loro Africa, Alberto e Patrizia raccontano anni belli – seppure pieni di sofferenze e compassione – descrivono paesaggi incantevoli, popolazioni a loro care, dalle grandi qualità umane.
Ho poi scoperto che Alberto ha raccontato quegli anni in Uganda in un libro delizioso, Dottore è finito il diesel (edito da Marietti).
Del resto i forti legami di amicizia che hanno con quelle popolazioni e con altri amici medici che – sempre per l’Avsi – lavorano tuttora in Uganda e in altri paesi africani restano ben solidi.
E da quando la famiglia Reggiori è tornata definitivamente in Italia, nel 1996, Alberto torna in Africa ogni anno, per circa un mese (le sue ferie), a curare persone che soffrono e non hanno nulla.
In genere torna in Uganda, ma nel 2009 fu mandato in Sud Sudan dove c’è una clinica di suore che l’Avsi sta trasformando in un piccolo ospedale ed una scuola.
Nel 2010 Alberto è stato mandato ad Haiti, dove l’Avsi è presente per alleviare le sofferenze di una popolazione provata dal terremoto.
A me stupisce ascoltare Alberto quando racconta di queste situazioni di povertà assoluta, perché dà sempre la sensazione di non essere sopraffatto dall’enormità dei problemi e si vede in lui una forza calma che sorprende e una luce che vince ogni tenebra.
Per esempio, del Sudan dice: “E’ un territorio selvaggio circondato da montagne che esce da 30 anni di guerra civile (arabi contro neri cristiani) e che è spaventosamente arretrato (la gente dei villaggi vive ancora quasi nuda e nelle capanne), ma che ha anche un grande fascino, perché è possibile incontrare persone inaspettate e condividere con loro quanto abbiamo di caro. Io seguo l’aspetto sanitario insieme ad altri medici italiani ed africani che lavorano là”.
Quello che colpisce, incontrando Alberto e sua moglie Patrizia, è la loro assoluta semplicità. Sembra che neanche si rendano conto della grandezza di ciò che fanno, quasi che sia normale decidere a 30 anni di andare a vivere in Africa, fra popolazioni poverissime, rinunciando a tante cose e facendo nascere e crescere i propri figli laggiù.
La sensazione di assoluta normalità che danno forse è dovuta anche al fatto che hanno vissuto tutto questo con altri amici con cui hanno condiviso in gioventù e negli anni dell’università una forte esperienza cristiana e quell’amicizia li ha portati fino agli estremi confini della terra con la stessa naturalezza con cui potevano metter su casa a Varese o a Como.
La vita e l’amicizia di cui Alberto partecipa sa rendere eroico il quotidiano senza che quelli che ne sono protagonisti perdano la semplicità, la luce dello sguardo, l’umiltà e senza che si sentano per questo degli eroi (mentre invece lo sono davvero).
Sono uomini e donne la cui umanità ha fatto irrompere la speranza e la vita perfino in quell’inferno di morte che è diventata l’Africa degli anni Ottanta, col dilagante orrore dell’Aids.
La storia che Alberto Reggiori racconta in questo libro ne è la prova. E’ semplicemente una storia mozzafiato, struggente. La protagonista, Zamu, una ragazza africana meravigliosa, ha vissuto con i suoi amici una vicenda che sconvolge, incanta e commuove.
Leggendo le bozze di questo libro a me è accaduto qualcosa che accade solo con i grandi libri e che non mi capitava da tempo: ogni giorno non vedevo l’ora di arrivare a sera per poter riprendere la lettura e scoprire la fine della storia. Che poi è un grande inizio, tutto da scoprire, da gustare e da rivivere.
Antonio Socci
Vi appassionerà e vi commuoverà… Vi cambierà! Vi farà vedere – in questo mondo di palloni gonfiati, celebrati dai media – dove sono e chi sono i veri eroi sconosciuti del nostro tempo
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Era l’8 ottobre del 2009. Mi trovavo nel pieno della mia personale tragedia: il coma di mia figlia Caterina. Fra le tantissime mail che mi arrivarono in quei giorni ce ne fu una particolare, che subito mi colpì. Si concludeva con queste parole: “Un abbraccio ed una preghiera dal profondo dell’Africa”.
Chi mai poteva raggiungermi dal profondo dell’Africa? Era la lettera di un medico di Varese, Alberto Reggiori, che scriveva dal sud del Sudan dove era andato come volontario per tre settimane a curare delle popolazioni fra le più povere e derelitte del pianeta, con un progetto della Fondazione Avsi.
Si rivolgeva a me e a mia moglie: “vorrei dirvi che vi sono molto vicino anche e soprattutto perché il percorso che state facendo è stato anche il nostro: mio e di mia moglie Patrizia e dei nostri sette figli”.
Il dottor Reggiori mi spiegava che nel 2007 suo figlio Giulio, a quel tempo diciottenne, fece un gravissimo incidente che lo portò sulla soglia della morte.
Con la sua lettera cercava soprattutto il modo per confortarci e incoraggiarci a lottare. Mi scriveva:
Quando ci hanno comunicato dell’incidente di Giulio (…) la fede che Dio ci ha donato insieme alla croce da portare (sempre faticosa e dolorosa) ci ha sostenuto ed ora guardando indietro sono pieno di stupore.
Quando siamo passati attraverso momenti difficili (i medici che ci negavano ragionevoli speranze, i parametri che tu ben conosci erano a livelli incompatibili con la vita, il cervello di Giulio che alla Tac era “un colabrodo”) io e Patrizia ci siamo detti che continuavamo a sperare nella bontà di Dio, nel suo amore verso il nostro destino e quello di Giulio. Certi, non di un destino buono generico, ma della guarigione del nostro grande Giulio.
Abbiamo chiesto, così come eravamo capaci, insieme a decine e centinaia di amici (ogni sera il rosario al Sacro Monte vedeva anche 200 persone salire come mendicanti per chiedere a Maria la sua pietà; fuori dalla rianimazione era una processione continua).
Anche per noi sono diventati familiari i brani del vangelo in cui Cristo ci invita a pregare il Padre con insistenza, sperando contro ogni speranza: la vedova importuna, il cieco che grida “figlio di Dio abbi pietà di me”, l’amico che bussa di notte, il centurione che chiede la guarigione… tutti loro erano, anzi sono la nostra voce.
Abbiamo pregato e chiesto di giorno e di notte, letteralmente, senza smettere e devo dire che quel periodo della nostra vita è stato così importante perché il Signore ci ha toccato e la sua presenza ha lasciato il segno che non possiamo né vogliamo più toglierci di dosso. Ringrazio ogni giorno per quello che è successo, questa forse è la vera follia della croce.
Adesso Giulio, dopo due mesi di coma, sei operazioni, nove di carrozzina e una rieducazione che continua sino ad oggi ha recuperato tanto, quasi tutto ed è un miracolo la sua presenza per noi, la sua costante letizia, il suo affidarsi a noi ed agli amici, l’essere sempre sorpreso davanti alla vita, senza pretesa, (…).
A posteriori possiamo dire che forse era necessario passare attraverso questa misteriosa e potente purificazione. Comunque adesso in ballo ci siete voi, e la vostra bella e brava Caterina e noi vi siamo vicini, come se ci conoscessimo da sempre e vi rassicuriamo: non perdetevi d’animo e continuate a sostenervi a vicenda nel coraggio della Fede in Colui che non vi delude. Sperando di incontrarci, prima o poi.
Questa testimonianza mi confortò tantissimo, ma insieme mi incuriosì. Alcuni dettagli erano per me rivelatori di una persona fuori dal comune (come pure una persona eccezionale è sua moglie): sette figli, una tale fede e una tale forza da sostenere la durissima prova dell’incidente a Giulio e, mentre è ancora in corso tutto questo, lo spendere le proprie ferie in Sudan, una regione devastata da anni di guerre, a curare i più poveri e derelitti del mondo.
Infine – come se non bastasse – trovandosi in quell’inferno – la capacità di trovare il tempo e il modo per confortare un padre che, a migliaia di chilometri di distanza, ha saputo (da internet) essere precipitato nello stesso incubo per una sua figlia in coma.
Subito risposi a quella mail chiedendo al dottor Reggiori di darmi qualche informazione su di sé, sul perché si trovava in Africa. E ho scoperto una storia stupefacente.
Lui e sua moglie Patrizia, poco dopo la laurea in Medicina e il matrimonio, negli anni Ottanta, avevano dato la loro disponibilità ad andare a lavorare in Africa con i progetti dell’Avsi, per curare quelle popolazioni povere e privi di assistenza sanitaria.
Così Alberto e Patrizia sono partiti e hanno vissuto più di dieci anni in Uganda (tre dei loro sette figli, Giulio compreso, sono nati là).
Condividendo la vita di quella povera gente e legandosi a loro con forti legami di amicizia, hanno assistito, fra l’altro, da lì in prima linea, all’irrompere in quelle regioni di un apocalittico flagello infettivo che mieterà un mare di vittime e che solo dopo un po’ fu identificato: si chiamava Aids.
Eppure, quando parlano della loro Africa, Alberto e Patrizia raccontano anni belli – seppure pieni di sofferenze e compassione – descrivono paesaggi incantevoli, popolazioni a loro care, dalle grandi qualità umane.
Ho poi scoperto che Alberto ha raccontato quegli anni in Uganda in un libro delizioso, Dottore è finito il diesel (edito da Marietti).
Del resto i forti legami di amicizia che hanno con quelle popolazioni e con altri amici medici che – sempre per l’Avsi – lavorano tuttora in Uganda e in altri paesi africani restano ben solidi.
E da quando la famiglia Reggiori è tornata definitivamente in Italia, nel 1996, Alberto torna in Africa ogni anno, per circa un mese (le sue ferie), a curare persone che soffrono e non hanno nulla.
In genere torna in Uganda, ma nel 2009 fu mandato in Sud Sudan dove c’è una clinica di suore che l’Avsi sta trasformando in un piccolo ospedale ed una scuola.
Nel 2010 Alberto è stato mandato ad Haiti, dove l’Avsi è presente per alleviare le sofferenze di una popolazione provata dal terremoto.
A me stupisce ascoltare Alberto quando racconta di queste situazioni di povertà assoluta, perché dà sempre la sensazione di non essere sopraffatto dall’enormità dei problemi e si vede in lui una forza calma che sorprende e una luce che vince ogni tenebra.
Per esempio, del Sudan dice: “E’ un territorio selvaggio circondato da montagne che esce da 30 anni di guerra civile (arabi contro neri cristiani) e che è spaventosamente arretrato (la gente dei villaggi vive ancora quasi nuda e nelle capanne), ma che ha anche un grande fascino, perché è possibile incontrare persone inaspettate e condividere con loro quanto abbiamo di caro. Io seguo l’aspetto sanitario insieme ad altri medici italiani ed africani che lavorano là”.
Quello che colpisce, incontrando Alberto e sua moglie Patrizia, è la loro assoluta semplicità. Sembra che neanche si rendano conto della grandezza di ciò che fanno, quasi che sia normale decidere a 30 anni di andare a vivere in Africa, fra popolazioni poverissime, rinunciando a tante cose e facendo nascere e crescere i propri figli laggiù.
La sensazione di assoluta normalità che danno forse è dovuta anche al fatto che hanno vissuto tutto questo con altri amici con cui hanno condiviso in gioventù e negli anni dell’università una forte esperienza cristiana e quell’amicizia li ha portati fino agli estremi confini della terra con la stessa naturalezza con cui potevano metter su casa a Varese o a Como.
La vita e l’amicizia di cui Alberto partecipa sa rendere eroico il quotidiano senza che quelli che ne sono protagonisti perdano la semplicità, la luce dello sguardo, l’umiltà e senza che si sentano per questo degli eroi (mentre invece lo sono davvero).
Sono uomini e donne la cui umanità ha fatto irrompere la speranza e la vita perfino in quell’inferno di morte che è diventata l’Africa degli anni Ottanta, col dilagante orrore dell’Aids.
La storia che Alberto Reggiori racconta in questo libro ne è la prova. E’ semplicemente una storia mozzafiato, struggente. La protagonista, Zamu, una ragazza africana meravigliosa, ha vissuto con i suoi amici una vicenda che sconvolge, incanta e commuove.
Leggendo le bozze di questo libro a me è accaduto qualcosa che accade solo con i grandi libri e che non mi capitava da tempo: ogni giorno non vedevo l’ora di arrivare a sera per poter riprendere la lettura e scoprire la fine della storia. Che poi è un grande inizio, tutto da scoprire, da gustare e da rivivere.
Antonio Socci
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