sabato 30 luglio 2011
Le soluzioni discusse a Washington? Ridurre la spesa sociale.....così in Italia.....mah !
Il 2 agosto può essere il giorno di Armageddon degli Stati Uniti.
Rimane poco tempo per evitare il default. Nessuno crede che possa avvenire, per questo potrebbe succedere.
Se il Congresso non troverà una soluzione al debito pubblico, che ha superato il tetto massimo stabilito per legge di 14.300 miliardi di dollari, gli Stati Uniti dovranno tagliare la spesa pubblica corrente. Pensioni, scuola, ospedali. Obama è sempre più teso. Vede lo spettro del default sul debito e l'abbassamento del rating con effetti a cascata su tutta l'economia mondiale. Le soluzioni discusse a Washington? Ridurre la spesa sociale, introdurre nuove tasse, alzare l'asticella del debito o emettere dollari di carta straccia. Al rimedio più ovvio, tagliare le spese militari che valgono quasi 700 miliardi di dollari all'anno, non ci pensa nessuno.
Ma gli armamenti sono la causa dell'aumento vertiginoso del debito, iniziato con la guerra in Iraq.
Bombardare coi debiti, che passione!
Un premio Nobel per la pace che taglia tutto (pensioni, stato sociale, ecc..) tranne le spese militari….
Ma se le spese militari non sono la causa almeno possono essere la soluzione,
come le spese per la politica in Italia, non sono sicuramente la causa della nostra situazione economica
ma possono eccome essere una soluzione. O no?!?
La vita è magnifica nel momento in cui si comincia a donarla.
"Adorare è ritrovare il coraggio di fare della propria vita un dono gratuito,
scoprendo sempre più che ‘la vita è fatta per esplodere,
per andare più lontano,
per farsi dono.
Quando la si conserva per sé la si soffoca.
La vita è triste quando la si conserva per sé.
È magnifica nel momento in cui si comincia a donarla.
Una vita di cui ci si rifiuta di essere i proprietari,
una vita che si dà perché il mondo non sia più come prima,
una vita come questa,
fa dei miracoli’."
(M. Delbrêl).
venerdì 29 luglio 2011
Articolo di P.Aldo sulla tragedia di Oslo - indirizzo per leggerlo
http://www.clonline.org/articoli/ita/atilfog260711.pdf
The family man (c’è qualcosa di molto più grande e riempitivo: l’amore della famiglia.)
Un bellissimo film con Nicolas Cage, The family man, racconta la storia di un uomo all’apice del successo, ricco, affascinante, con bellissime donne ai suoi piedi, con un’auto da sogno e una cabina armadio da far invidia ad un ipotetico fratello gemello di Carrie Bradshaw.
Poi un bel giorno un angelo con le sembianze di un ladruncolo di colore, gli fa vedere come sarebbe stata la sua vita se lui, dieci anni prima, non fosse partito per Londra a fare affari ma fosse rimasto con la devota fidanzata che lo pregava di non partire, consapevole che non sarebbe più tornato. Una specie di La vita è meravigliosa in chiave moderna. Il protagonista vede quindi la sua vita spostata da Manhattan ad un sobborgo di New York, con un lavoro da gommista alle dipendenze del suocero, con un armadio che farebbe pena perfino ad un clochard, e con un auto familiare parcheggiata nel vialetto. Insomma, peggio di un incubo.
Ma dopo un po’ di tempo, provando a vivere quella vita che certamente non avrebbe mai scelto in alternativa alla sua, capisce che c’è qualcosa di molto più grande e riempitivo: l’amore della famiglia. Si trova come moglie la bellissima fidanzata abbandonata anni prima all’aeroporto, due bambini stupendi come figli, un amico fidato. Insomma, inizia ad assaporare che cos’è la felicità, che cos’è l’equilibrio e quali le cose su cui poter sempre contare, che non lo tradiranno mai e che non verranno mai a meno, cioè le persone che lo amano solo per quello che è. Il protagonista capisce così che nulla è determinato e che nella vita si può cambiare sempre, che la vita non va sprecata ma vale la pena di essere vissuta a fondo, che senza una famiglia non si è davvero un uomo, ma anche senza un lavoro che ti soddisfa.
Il bello del film infatti è anche che non c’è la retorica facile e deprimente del “meglio poveri e felici che ricchi e infelici”, oppure del “i soldi non danno la felicità”. No, dal film traspare un’altra morale, a mio parere più giusta, cioè che “non solo i soldi danno la felicità”, ma certamente contribuiscono molto alla sua costruzione e sopravvivenza. La premessa è che si sappia anteporre ciò che più conta (l’amore, la famiglia, l’amicizia) alle cose che passano in secondo piano (i soldi, il successo), ma senza le quali non ci sarebbero le condizioni per vivere bene e per far vivere bene chi si ama, senza le quali neanche i valori primari sarebbero possibili.
Credo quindi che l’uomo abbia bisogno del lavoro, del guadagno e del successo per sentirsi realizzato. Ma la vera realizzazione è possibile solo quando un uomo riesce a soddisfare un’altra esigenza della sua natura, il legame con una donna e la creazione di una famiglia.
Tratto da http://www.costanzamiriano.wordpress.com/ (INTERESSANTE BLOG.....ANDATE NEL SITO)
Poi un bel giorno un angelo con le sembianze di un ladruncolo di colore, gli fa vedere come sarebbe stata la sua vita se lui, dieci anni prima, non fosse partito per Londra a fare affari ma fosse rimasto con la devota fidanzata che lo pregava di non partire, consapevole che non sarebbe più tornato. Una specie di La vita è meravigliosa in chiave moderna. Il protagonista vede quindi la sua vita spostata da Manhattan ad un sobborgo di New York, con un lavoro da gommista alle dipendenze del suocero, con un armadio che farebbe pena perfino ad un clochard, e con un auto familiare parcheggiata nel vialetto. Insomma, peggio di un incubo.
Ma dopo un po’ di tempo, provando a vivere quella vita che certamente non avrebbe mai scelto in alternativa alla sua, capisce che c’è qualcosa di molto più grande e riempitivo: l’amore della famiglia. Si trova come moglie la bellissima fidanzata abbandonata anni prima all’aeroporto, due bambini stupendi come figli, un amico fidato. Insomma, inizia ad assaporare che cos’è la felicità, che cos’è l’equilibrio e quali le cose su cui poter sempre contare, che non lo tradiranno mai e che non verranno mai a meno, cioè le persone che lo amano solo per quello che è. Il protagonista capisce così che nulla è determinato e che nella vita si può cambiare sempre, che la vita non va sprecata ma vale la pena di essere vissuta a fondo, che senza una famiglia non si è davvero un uomo, ma anche senza un lavoro che ti soddisfa.
Il bello del film infatti è anche che non c’è la retorica facile e deprimente del “meglio poveri e felici che ricchi e infelici”, oppure del “i soldi non danno la felicità”. No, dal film traspare un’altra morale, a mio parere più giusta, cioè che “non solo i soldi danno la felicità”, ma certamente contribuiscono molto alla sua costruzione e sopravvivenza. La premessa è che si sappia anteporre ciò che più conta (l’amore, la famiglia, l’amicizia) alle cose che passano in secondo piano (i soldi, il successo), ma senza le quali non ci sarebbero le condizioni per vivere bene e per far vivere bene chi si ama, senza le quali neanche i valori primari sarebbero possibili.
Credo quindi che l’uomo abbia bisogno del lavoro, del guadagno e del successo per sentirsi realizzato. Ma la vera realizzazione è possibile solo quando un uomo riesce a soddisfare un’altra esigenza della sua natura, il legame con una donna e la creazione di una famiglia.
Tratto da http://www.costanzamiriano.wordpress.com/ (INTERESSANTE BLOG.....ANDATE NEL SITO)
giovedì 28 luglio 2011
Giuni Russo......dedicato ad Edith Stein....
mercoledì 27 luglio 2011
Report ci ha fornito non solo dati ma anche esperienze dirette dell’estrema difficoltà in cui versa la generazione under 40 nel nostro Paese.
Report racconta la “Generazione a perdere”. E i dati dicono: i giovani non si sposano più (puntata 22 maggio 2011)
Sembra essere l’argomento all’ordine del giorno, i giovani italiani non si sposano più (i matrimoni sono diminuiti del 6%), non fanno più figli (si calcola circa 1,4 figli a coppia contro il dato francese di 2 figli a coppia).
Ci manca letteralmente un pezzo di popolazione, il pezzo, tra l’altro, al culmine della propria produttività, quella giovanile: ben 4 milioni di giovani tra i 25 e i 35 anni.
Entro il 2050 l’Europa sarà notevolmente invecchiata; questo significherà maggiori spese mediche per malattie geriatriche ed altre ingenti spese a livello socio economico.
Ci manca letteralmente un pezzo di popolazione, il pezzo, tra l’altro, al culmine della propria produttività, quella giovanile: ben 4 milioni di giovani tra i 25 e i 35 anni.
Entro il 2050 l’Europa sarà notevolmente invecchiata; questo significherà maggiori spese mediche per malattie geriatriche ed altre ingenti spese a livello socio economico.
Proprio su questa "Generazione a perdere" si è concentrata la puntata di ieri sera di Report, che in nome della vera natura del giornalismo, informare per formare criticità di pensiero, ci ha fornito non solo dati ma anche esperienze dirette dell’estrema difficoltà in cui versa la generazione under 40 nel nostro Paese.
In Italia lavora 1 giovane su 4 tra i 16 e i 24 anni.
In Europa 1 su 2
Per ogni disoccupato adulto invece, sempre nel nostro Paese, ce ne sono 4 giovani.
Report ci porta a Pescara, ad ascoltare la storia di un giornalista precario di 36 anni, storia che sembra così maledettamente simile a quella di tanti ragazzi italiani che provano a crearsi un proprio spazio nel Belpaese: situazione contrattuale co.co.co dopo 15 anni immutata, vive con 300/400 euro al mese che non gli permette di lasciare il “nido” familiare. Il Paese non cresce e non valorizza le risorse che ha, di conseguenza va ad implodere. Questo crea un vero e proprio senso di dipendenza nei confronti dei propri genitori, l’abitare nella casa parentale non diventa certo una scelta da bamboccioni, come invece qualcuno la definì qualche anno fa, bensì una vera e propria necessità: i giovani sono quindi costretti a sentirsi figli, obbligati a chiedere ai genitori quello che lo Stato gli nega. Ma qual è la situazione in altri Paesi europei?
In Germania esiste il BAföG (Bundesausbildungsförderungsgesetz – Ufficio federale per l’assistenza all’istruzione e formazione) che assicura tra i 500 e i 600 euro al mese (con un tetto massimo di 670 euro) come sostegno allo studio universitario. Con un’uscita di circa 250 euro mensili di affitto mensile nelle tasche di uno studente tedesco restano un bel po’ di soldini per vivere (si badi, non sopravvivere).
In Germania il 60% del budget sociale proviene dal lavoro.
Il sostegno allo studio è visto come un investimento per il futuro. Gli studenti, una volta laureati, restituiscono allo Stato solo il 50% a partire dal loro primo stipendio, senza interessi. Si è calcolato che nello scorso anno si siano assegnati 2 miliardi di Euro in tutto il Paese.
E in Francia? Michele Buono incontra Eriu, studentessa fuori sede di scienze politiche che lavora come commessa a contratto a tempo indeterminato (“per forza, non esistono contratti irregolari in Francia”) e guadagna 1300 Euro al mese. Grazie al contratto e all’aiuto dello Stato (40.000 Euro) ha potuto comprarsi un appartamento. Nel caso si avesse bisogno di un aiuto statale ci si reca a uno sportello del CAF (Caisses d’Allocation Familiales) muniti di contratto di affitto e di dichiarazione dei redditi perché si abbia un calcolo dei contributi che ci possono spettare. In media uno studente riceve 200 euro mensili.
In Italia, invece, come siamo messi? Dopo due panoramiche sullo spaccato di vita a Roma, di uno stabile al Prenestino, occupato da studenti che ne hanno creato un vero e proprio studentato, e di un cinema teatro in disuso i cui camerini sono stati trasformati in camere per studenti, apprendiamo che le borse di studio stanziate in Italia coprono solo il 5% del fabbisogno reale. L’Italia stanzia ogni anno 481 milioni di euro in borse di studio per giovani universitari. Francia e Germania 1 miliardo e 400 milioni. Il divario è a dir poco impressionante. Una soluzione potrebbe essere quella di destinare i fondi incomprensibilmente destinati alle scuole e alle università private alle borse di studio. Questa è solo una delle tante proposte di un gruppo di economisti che ha dato origine a un progetto dal nome SBILANCIAMOCI! e che ogni anno compila una vera e propria contro finanziaria. Le risorse possono trovarsi con qualche semplice provvedimento, cominciando con la lotta alla precarietà passando per il credito di imposta alle aziende che li assumono, continuando per la creazione di 2000 cooperative giovanili incentivate dallo Stato per finire con incentivi alle aziende per 100.000 posti di lavoro per i giovani.
Molti giovani cercano soluzione a questa situazione allarmante fuggendo all’estero:
dal 2000 circa 30.000 giovani sotto i 40 anni scelgono la via dell’esilio.
A conti fatti siamo il terzo Paese più vecchio al mondo, con un elettorato e una classe politica anziane: come abbiamo visto le idee ci sono ma mentre il primo (l’elettorato) spesso non arriva a comprenderle la seconda non se ne interessa perché non è assolutamente intenzionata a cambiare.
Una vera e propria generazione in stallo, tenuta in gabbia. Preparatissima rispetto a tutta la sua controparte europea (risultati alla mano) ma allo stesso tempo con un potenziale che non le è dato modo di sfruttare, legata al ceppo della staticità anziana e allo stesso tempo denigrata perché vista come pigra, fannullona e bambocciona, perché l’anziano spesso guarda solo al risultato (cioè a quanto il giovane europeo produce rispetto a quello italiano) senza occuparsi delle vere cause del disastro.
I genitori di questa generazione condannata all’immobilità, costretti a mantenerli e ad averli in casa fino a 35 anni, se non oltre, di certo non auspicavano questa situazione per i loro figli....
Il Premio Narducci 2011 a Padre Antonio Maria Sicari--presenterà anche l’ultimo suo libro, «Il Divino Cantico di san Giovanni della Croce».
Il Premio Narducci 2011 a Padre Antonio Maria Sicari
Il premio «Angelo Narducci» 2011 è stato assegnato a padre Antonio Maria Sicari, dell’ordine dei Carmelitani Scalzi. Forse poco noto al grande pubblico, padre Sicari, nato nel 1943, è il fondatore del Movimento ecclesiale carmelitano e vive a Brescia. Collaboratore della rivista «Communio», ha scritto moltissimi libri, in gran parte dedicati al racconto delle vite dei santi, antichi e contemporanei, e proprio per questo gli è stato assegnato il premio «Narducci».
Padre Antonio sarà a Lerici martedì 26 e mercoledì 27 luglio,nell’ambito della festa del quotidiano cattolico, che inizia sabato 23. Martedì alle 19, al Belvedere Stefanini, il giornalista di «Avvenire» Gianni Cardinale presenterà con lui l’ultimo libro, «Il Divino Cantico di san Giovanni della Croce». Seguirà un aperitivo con prodotti locali. Mercoledì alle 9.30, nella chiesa di San Francesco, Sicari parlerà al clero diocesano sul tema «La bellezza della santità», tema legato appunto ai suoi libri. Seguirà alle 11 la concelebrazione presieduta dal vescovo. Alle 21.15, alla Rotonda «Vassallo», Gianni Cardinale lo intervisterà in pubblico sul tema, legato a quello generale della festa,
«Omologazione o santità ?».
Il premio “Narducci” è riservato a importanti personalità del mondo della comunicazione e della cultura. Alcuni tra i premiati delle precedenti edizioni: Mons. Ersilio TONINI – Arcivescovo di Ravenna, Luigi ACATTOLI – Vaticanista Corriere della Sera, Fabrizio DEL NOCE – Giornalista televisivo, Mons. Gianfranco RAVASI – Biblista, Mario AGNES – Direttore Osservatore Romano, Andrea RICCARDI – Fondatore Comunità Sant’Egidio, Pupi AVATI – Regista, Giuseppe DE CARLI – Vaticanista Televisione RAI, Mons. Giancarlo BREGANTINI – Vescovo di Locri, Padre Federico LOMBARDI – Direttore Sala Stampa Vaticana, Dino BOFFO – Direttore Avvenire e SAT 2000, Claudia KOLL – Attrice e Conduttrice televisiva, Wanda POLTAWSKA.
Il «Divino Cantico» di San Giovanni della Croce
Descrizione Il titolo di questo volume trasferisce all’opera di san Giovanni della Croce la definizione («Divino Cantico») che egli dava del biblico Cantico dei Cantici. Per secoli questo sacro poema era stato commentato per offrire ai credenti splendidi «trattati» sul mistero della Chiesa e sulla mistica unione dell’anima con Dio.
Poi, sul finire del XV secolo, la cristianità si era lacerata e la teologia aveva cominciato a indurirsi nelle controversie e nelle sottigliezze esegetiche, al punto da dimenticare (o perfino temere) l’antico Cantico, cuore della Scrittura. Giovanni della Croce assunse allora la missione di commentarlo in forma nuova, anche poetica (per la prima volta!): così il testo sacro rivisse nel suo Cántico Espiritual, un poema che «arde di passione più di qualsiasi poesia profana», ma in cui si sente aleggiare «lo Spirito di Dio che è passato di qui, abbellendo e santificando tutto» (Damaso Alonso). In seguito, commentando ripetutamente il proprio Cantico (e aggiungendovi altri poemi), egli poté annunciare alla Chiesa la centralità assoluta dell’amore sponsale che Dio offre a ogni singola creatura umana. Un Dio «inaudito» che, dalle pagine del mistico spagnolo, può parlarci così: «Io sono tuo e per te; sono felice di essere come sono, per essere tuo e donarmi a te» (L 3,6).
Padre Antonio, ripercorrendo tutto l’itinerario spirituale offerto da san Giovanni della Croce (a partire da una nuova traduzione dei suoi poemi), ha inteso sottolineare con rara insistenza che nessun dramma o problema ecclesiale può essere davvero compreso e vissuto, se ci si colloca a un’altezza inferiore di questa e a una minore profondità.
Il carisma del Santo carmelitano (e di chi si fa suo discepolo) è tutto in questa
esperienza offerta come principio pedagogico: quando l’uomo si lascia attrarre dal Cuore di Dio, egli va, contemporaneamente, verso la massima profondità del proprio cuore e verso i più lontani confini, là dove ogni creatura umana può essere riconosciuta e accolta.
Padre Antonio, ripercorrendo tutto l’itinerario spirituale offerto da san Giovanni della Croce (a partire da una nuova traduzione dei suoi poemi), ha inteso sottolineare con rara insistenza che nessun dramma o problema ecclesiale può essere davvero compreso e vissuto, se ci si colloca a un’altezza inferiore di questa e a una minore profondità.
Il carisma del Santo carmelitano (e di chi si fa suo discepolo) è tutto in questa
esperienza offerta come principio pedagogico: quando l’uomo si lascia attrarre dal Cuore di Dio, egli va, contemporaneamente, verso la massima profondità del proprio cuore e verso i più lontani confini, là dove ogni creatura umana può essere riconosciuta e accolta.
IL MOVIMENTO ECCLESIALE CARMELITANO ALLA GMG DI MADRID 2011
DAL CUORE AL MONDO IL MOVIMENTO ECCLESIALE CARMELITANO ALLA GMG DI MADRID 2011 |
Per tutti quelli che vogliono scoprire la profondità del cuore umano abitato dal mistero di Dio, per tutti quelli che vogliono raggiungere, con l’entusiasmo di una Chiesa giovane, i confini più lontani del mondo… vi aspettiamo a Madrid, vi aspettiamo a Moncloa! alla GMG di Madrid
. Il MEC infatti, che sarà presente a Madrid con circa 500 giovani provenienti da varie nazioni, presenterà presso il “Centro Cultural MONCLOA” (Plaza de la Moncloa 1, fermata metro) due iniziative ispirate dal suo carisma: la mostra interattiva sui “Santi Giovani” (S. Teresa di Lisieux, Jack Fesch e Piergiorgio Frassati) che metterà a tema – con coinvolgimento diretto dei visitatori - la santità alla portata di tutti; e, presso lo stesso Centro, l’ambiente d’incontro del “book-shop”, costruito sulla simbolica del “castello interiore” di S. Teresa d’Avila. In più, presso la vicina Chiesa del “Corazon Immaculato de Maria”, i giovani del movimento offriranno momenti pubblici di preghiera e adorazione, con canti e accompagnamenti musicali.
Il MEC, nato nel 1993 a Brescia su iniziativa del teologo carmelitano P. Antonio Maria Sicari (che il prossimo 27 luglio riceverà il “Premio Narducci”, in occasione della Festa di Avvenire), si fonda sulla comunione tra religiosi e laici che condividono le ricchezze del carisma carmelitano. Riconosciuto nel 2003 come associazione privata di fedeli, è oggi diffuso – oltre che in varie città d’Italia - anche in Romania, Spagna, Belgio, Libano, Lettonia, Stati Uniti.
lunedì 25 luglio 2011
Bisogna soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina”, diceva Mounier
P.Aldo Trento....
"Grido dentro di me perchè Cristo mostri il suo tenero volto a chi incontro ...".
Povertà è mostrare il proprio amore per Cristo..... facendosi "i calli".
"Grido dentro di me perchè Cristo mostri il suo tenero volto a chi incontro ...".
Povertà è mostrare il proprio amore per Cristo..... facendosi "i calli".
"Se anche una mamma si dimenticasse di suo figlio, Io non ti dimenticherò mai"
Cari amici, la sproporzione fra il mio nulla, e il Mistero di cui è fatto il mio cuore aumenta man mano che vedo la mia impotenza davanti al bisogno mio e di quanti, sofferenti, derelitti, bussano alla mia porta. Che dolore, che grido dentro di me al Mistero perché mostri il Suo tenero volto davanti a tre giovani mamme ricoverate con cancro terminale. Maria, 29 anni e 5 figli, Giuseppina, 32 anni e 6 figli, Cinzia 42 anni e 3 figli. Tre donne sole, senza marito che le ha abbandonate con 14 figli. Mentre celebravo la messa, Giuseppina credevo che morisse. Un cancro ai polmoni pareva soffocarla. Vedevo il suo affannoso respiro e guardavo l´ostia che avevo fra le mani. Sentivo tutto il dolore di quell´affanno e chiedevo a Gesù di guardarla negli occhi, le chiedevo di condividere con lei il suo dolore. A un certo punto mi sono avvicinato accarezandola e dopo averle dato l´ unzione degli infermi, dopo la comunione si è riposata. Chi sono io Signore, si domandava Santa Caterina? Niente, e chi sei Tu? Tutto.
Vedere ogni giorno chi l´umano è drammatico eppure quell´uomo che in un momento cessa di vivere, è Cristo e guardandolo così non puoi non metterti in ginocchio. Perché se ciò che di più caro che hai è Cristo è vero che quell´uomo è ciò che di più caro hai in quel momento. E lui è ciò che di più caro hai perché lui come me è ciò che di più caro esiste per Cristo. E l’ho visto con i miei occhi per l´ennesima volta sabato sera quando una famiglia per disfarsi di un anziano parente, con una gamba piena di vermi per una grande ferita, passando da una bugia all´altra e ingannandoci, è riuscita a scaricare questo povero uomo davanti alla Clinica. Erano giunti fino a noi, con l´inganno, con il vecchietto nella carrozzeria aperta della camionetta e loro dentro ben al riparo del freddo. Il motivo: Puzza.
L´abbiamo preso subito e ho visto in quel volto triste la Presenza del Mistero e senza aspettare nessun medico e molto meno l´assistente sociale (conoscete bene anche voi come spessissimo questi professionisti prima di tutto guardano le cartelle cliniche, se c´è il diagnostico e tutti questi correlati. Gesù che era il medico andando per le strade e incontrando mille di pazienti a cosa guardava? Al diagnostico, alla cartella clinica o ascoltando il loro dolore e vedendo la loro fede li curava subito? Su questo sono una bestia a costo di mandare alla merda tutti. Lo guardavo e pensavo: Dio si è servito anche dell´inganno dei parenti che da qualche tempo l´avevano abbandonato in un pollaio per mostrargli e mostrarmi che Lui non si era dimenticato di quell´uomo, di quel poveraccio la cui regalità è oggettiva perché relazione con il Mistero.
L´ho baciato, portato alla Clinica. Gli infermieri l’hanno trasformato. Però non c´erano letti liberi ed era notte. Allora lo Spirito Santo, sapendo che sono debole di memoria, mi ha ricordato che nella Capella con il Santissimo esposto, dove c´è già un mendicante ammalato, c´è ancora un posto. E così l´abbiamo portato lí e credo che a Gesù la cosa gli abbia piaciuto perché così adesso ha due chierichetti.
Nel frattempo i parenti sono fuggiti. Ancora una volta ho visto compiersi quanto dice il Salmo delle Lodi del Sabato: “potrà una madre abbandonare suo figlio?” “Pero io non ti abbandonerò mai”.
L´ho toccato con mano lunedì quando una adolescente che ha ammazzato il suo convivente ha voluto rinunciare al suo bambino, nato di 7 mesi, ed ora ha tre mesi. Lei vive nella nostra casa di accoglienza per le bambine o adolescenti incinte. Ho dovuto con lei e l´avvocata andare dal giudice dei minori. Che dolore sentire la ragazza dire al giudice che mi cedeva il suo bambino per ritornare nel carcere dei minori. Parlava con una fredezza terribile e guardavo commosso il bebé fra le mie braccia. Rifiutato, perfino maltrattato da parte sua, il bambino.
Terminata l´avventura dell´affido, siamo tornati a casa. Adesso Dio mi ha reso, per l´ennesima volta, papà di questo piccolo. E lei, questa povera ragazza tornerà al carcere per scontare la pena che avrebbe potuto scontare qui con noi e in compagnia del suo bambino. P. Paolino dopo l´accaduto mi dice pensando a cosa lascia e a cosa trova: “Neanche la bellezza senza Cristo muove il cuore di una persona”. Puoi offrirgli il luogo più bello del mondo, più pulito ma senza l´incontro con Cristo perfino un Lager diventa più attrattivo.
Infine una notizia interessante nel giorno di San Benedetto. Si presentò un giovane di 24 anni, ricco, diseredato dalla famiglia e cacciato di casa perché vuole farsi prete. È laureato in filosofia ed altri titoli. Arriva da me, grazie al settimanale che pubblichiamo e che legge (quanto è importante entrare nei quotidiani laici con un settimanale “laico”, cioè cattolico). Vuole essere sacerdote perché affascinato dall´esperienza che vibra nel settimanale.
Lo guardo con molto distacco anche perché in questi anni più di qualcuno mi è venuto con questo desiderio, ma poi davanti alla mia proposta non tornano più. L´ascolto e poi gli chiedo: “Ti piacciono le ragazze?”. Lui mi guarda stupito e sorpreso. Al che io gli rispondo: “Con i tempi che corrono, è una domanda importante perché la condizione, come diceva Giussani, per essere prete è di essere uomini”. “Padre, chiaro che sì”, mi rispose. Bene, allora ti propongo subito una cosa: “Per tre mesi, non solo perché sei laureato in filosofia ti piace leggere, studiare cantare (cantava nell´opera di Asunción), parlare italiano etc. (un sacco di doni che io non ho mai avuto essendo stato un asino a scuola) ma perché tu possa imparare a fare i conti con il “mordere la pietra” come diceva il frate a Miguel Mañara, vieni oggi con Paolino e me alla fattoria dove ci sono gli ammalati di AIDS, rifiutati da tutti. Per tre mesi vivrai con loro: dormirai in una delle loro stanze in un letto a castello, mangerai con loro, lavorerai la terra e ovviamente ci sarà lo spazio necessario per la preghiera, lettura, silenzio, etc. Poi, terminati i tre mesi, andrai dai “ex barboni” della casa S. Gioacchino e Anna, per lavare e pulire questi figli prediletti di Dio, vivendo con loro. Ed infine altri mesi nella Clinica”.
Amico per essere prete ci vogliono le palle, perché altrimenti domani basta una ragazza che ti guarda e sparisci o vivi nell´orgoglio, lamenti e borghesismo di tanti giovani e non, preti che conosco: “Bisogna soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina”, diceva Mounier.
Mi guarda e con un sorriso mi dice: “Padre, grazie è quello che voglio, accetto la sfida”. Siamo saliti in macchina, siamo andati alla fattoria e dal giorno di S. Benedetto con il suo “ora et labora” è lí che ha dato inizio a un’avventura che se Dio vorrà – chissà- sarà quello che mi sostituirà, perché la vita passa e sempre ho chiesto al Signore un sostituto pero che sia con le palle e ami Cristo e i poveri inmensamente di più di quanto un innamorato ami la donna che ha sposato come un innamorato, la sua morosa. Pregate allora, amici perché se Gesù vuole, sia davvero per lui la possibilità di vivere la grazia che mi è data di vivere.
La regola è sempre quella: “Calli nelle ginocchia, calli nelle mani, calli nella mente”. Preti, cioè uomini virili!
Ciao,
P. Aldo
Vedere ogni giorno chi l´umano è drammatico eppure quell´uomo che in un momento cessa di vivere, è Cristo e guardandolo così non puoi non metterti in ginocchio. Perché se ciò che di più caro che hai è Cristo è vero che quell´uomo è ciò che di più caro hai in quel momento. E lui è ciò che di più caro hai perché lui come me è ciò che di più caro esiste per Cristo. E l’ho visto con i miei occhi per l´ennesima volta sabato sera quando una famiglia per disfarsi di un anziano parente, con una gamba piena di vermi per una grande ferita, passando da una bugia all´altra e ingannandoci, è riuscita a scaricare questo povero uomo davanti alla Clinica. Erano giunti fino a noi, con l´inganno, con il vecchietto nella carrozzeria aperta della camionetta e loro dentro ben al riparo del freddo. Il motivo: Puzza.
L´abbiamo preso subito e ho visto in quel volto triste la Presenza del Mistero e senza aspettare nessun medico e molto meno l´assistente sociale (conoscete bene anche voi come spessissimo questi professionisti prima di tutto guardano le cartelle cliniche, se c´è il diagnostico e tutti questi correlati. Gesù che era il medico andando per le strade e incontrando mille di pazienti a cosa guardava? Al diagnostico, alla cartella clinica o ascoltando il loro dolore e vedendo la loro fede li curava subito? Su questo sono una bestia a costo di mandare alla merda tutti. Lo guardavo e pensavo: Dio si è servito anche dell´inganno dei parenti che da qualche tempo l´avevano abbandonato in un pollaio per mostrargli e mostrarmi che Lui non si era dimenticato di quell´uomo, di quel poveraccio la cui regalità è oggettiva perché relazione con il Mistero.
L´ho baciato, portato alla Clinica. Gli infermieri l’hanno trasformato. Però non c´erano letti liberi ed era notte. Allora lo Spirito Santo, sapendo che sono debole di memoria, mi ha ricordato che nella Capella con il Santissimo esposto, dove c´è già un mendicante ammalato, c´è ancora un posto. E così l´abbiamo portato lí e credo che a Gesù la cosa gli abbia piaciuto perché così adesso ha due chierichetti.
Nel frattempo i parenti sono fuggiti. Ancora una volta ho visto compiersi quanto dice il Salmo delle Lodi del Sabato: “potrà una madre abbandonare suo figlio?” “Pero io non ti abbandonerò mai”.
L´ho toccato con mano lunedì quando una adolescente che ha ammazzato il suo convivente ha voluto rinunciare al suo bambino, nato di 7 mesi, ed ora ha tre mesi. Lei vive nella nostra casa di accoglienza per le bambine o adolescenti incinte. Ho dovuto con lei e l´avvocata andare dal giudice dei minori. Che dolore sentire la ragazza dire al giudice che mi cedeva il suo bambino per ritornare nel carcere dei minori. Parlava con una fredezza terribile e guardavo commosso il bebé fra le mie braccia. Rifiutato, perfino maltrattato da parte sua, il bambino.
Terminata l´avventura dell´affido, siamo tornati a casa. Adesso Dio mi ha reso, per l´ennesima volta, papà di questo piccolo. E lei, questa povera ragazza tornerà al carcere per scontare la pena che avrebbe potuto scontare qui con noi e in compagnia del suo bambino. P. Paolino dopo l´accaduto mi dice pensando a cosa lascia e a cosa trova: “Neanche la bellezza senza Cristo muove il cuore di una persona”. Puoi offrirgli il luogo più bello del mondo, più pulito ma senza l´incontro con Cristo perfino un Lager diventa più attrattivo.
Infine una notizia interessante nel giorno di San Benedetto. Si presentò un giovane di 24 anni, ricco, diseredato dalla famiglia e cacciato di casa perché vuole farsi prete. È laureato in filosofia ed altri titoli. Arriva da me, grazie al settimanale che pubblichiamo e che legge (quanto è importante entrare nei quotidiani laici con un settimanale “laico”, cioè cattolico). Vuole essere sacerdote perché affascinato dall´esperienza che vibra nel settimanale.
Lo guardo con molto distacco anche perché in questi anni più di qualcuno mi è venuto con questo desiderio, ma poi davanti alla mia proposta non tornano più. L´ascolto e poi gli chiedo: “Ti piacciono le ragazze?”. Lui mi guarda stupito e sorpreso. Al che io gli rispondo: “Con i tempi che corrono, è una domanda importante perché la condizione, come diceva Giussani, per essere prete è di essere uomini”. “Padre, chiaro che sì”, mi rispose. Bene, allora ti propongo subito una cosa: “Per tre mesi, non solo perché sei laureato in filosofia ti piace leggere, studiare cantare (cantava nell´opera di Asunción), parlare italiano etc. (un sacco di doni che io non ho mai avuto essendo stato un asino a scuola) ma perché tu possa imparare a fare i conti con il “mordere la pietra” come diceva il frate a Miguel Mañara, vieni oggi con Paolino e me alla fattoria dove ci sono gli ammalati di AIDS, rifiutati da tutti. Per tre mesi vivrai con loro: dormirai in una delle loro stanze in un letto a castello, mangerai con loro, lavorerai la terra e ovviamente ci sarà lo spazio necessario per la preghiera, lettura, silenzio, etc. Poi, terminati i tre mesi, andrai dai “ex barboni” della casa S. Gioacchino e Anna, per lavare e pulire questi figli prediletti di Dio, vivendo con loro. Ed infine altri mesi nella Clinica”.
Amico per essere prete ci vogliono le palle, perché altrimenti domani basta una ragazza che ti guarda e sparisci o vivi nell´orgoglio, lamenti e borghesismo di tanti giovani e non, preti che conosco: “Bisogna soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina”, diceva Mounier.
Mi guarda e con un sorriso mi dice: “Padre, grazie è quello che voglio, accetto la sfida”. Siamo saliti in macchina, siamo andati alla fattoria e dal giorno di S. Benedetto con il suo “ora et labora” è lí che ha dato inizio a un’avventura che se Dio vorrà – chissà- sarà quello che mi sostituirà, perché la vita passa e sempre ho chiesto al Signore un sostituto pero che sia con le palle e ami Cristo e i poveri inmensamente di più di quanto un innamorato ami la donna che ha sposato come un innamorato, la sua morosa. Pregate allora, amici perché se Gesù vuole, sia davvero per lui la possibilità di vivere la grazia che mi è data di vivere.
La regola è sempre quella: “Calli nelle ginocchia, calli nelle mani, calli nella mente”. Preti, cioè uomini virili!
Ciao,
P. Aldo
domenica 24 luglio 2011
sabato 23 luglio 2011
EMERGENZA POVERTA' (mai vista una situazione così in Somalia !) RACCONTO DAL VIVO
Giorgio mi ha suggerito questo articolo....urgente una risposta
Somalia, dove morde la fame
di Matteo Fraschini Koffi
22/07/2011 - Oltre 400mila uomini, in fuga dalla siccità e da una guerra ventennale, ammassati a Dadaab, in Kenya. Il racconto su “Avvenire” di Leo Capobianco, tra i responsabili del campo profughi: «Non ho mai visto una situazione così»
«In vent’anni di Africa non ho mai visto una situazione del genere», racconta con grande preoccupazione Leo Capobianco, responsabile di Avsi in Kenya e coordinatore dei progetti nel campo per rifugiati di Dadaab, in collaborazione con l’organizzazione Agire. «Dal punto di vista professionale ma soprattutto da quello umano: non avrei mai pensato di ritrovarmi coinvolto in una crisi di queste dimensioni». Parole gravi e angosciose quelle di Capobianco, che riflettono l’essenza del campo profughi più grande al mondo, quello di Dadaab, considerato senza eufemismi un inferno in terra.
«Le testimonianze dei rifugiati che soccorriamo ogni giorno hanno dell’incredibile – continua il responsabile dell’organizzazione, tornato a Nairobi per partecipare alle riunioni d’emergenza delle agenzie umanitarie, e pronto a ripartire già oggi per il campo con altri aiuti – la storia che mi ha più colpito è quella di una famiglia il cui padre e figlio sono stati letteralmente mangiati dalle iene durante il tragitto tra il sud della Somalia e Dadaab». Capobianco racconta anche di aver visto migliaia di rifugiati che, dopo aver camminato per settimane in una delle aree più aride del Corno d’Africa, sono arrivati in condizioni di estrema povertà, spesso senza neanche uno straccio di vestito per coprirsi il corpo.
Avsi e Agire sono tra le organizzazioni umanitarie che da tempo lavorano in tutte e tre le sezioni del campo di Dadaab con progetti principalmente mirati all’educazione. «Da tre anni stiamo costruendo scuole e provvediamo alla formazione di centinaia d’insegnanti – spiega ad Avvenire Capobianco – nonostante questa crisi epocale abbia colto tutti di sorpresa, teniamo duro e mandiamo avanti i nostri progetti con tutte le nostre forze».
L’emergenza umanitaria in cui è stato risucchiato il campo di Dadaab sta peggiorando giorno dopo giorno. Ai più di 400 mila rifugiati già presenti nel campo, quotidianamente se ne aggiungono tra i 2 e i 3mila. La maggior parte di loro fugge dalla Somalia, l’ex colonia italiana in guerra da più di vent’anni, e che in almeno due regioni ha raggiunto questa settimana lo stadio ufficiale di "carestia", l’ultimo relativo alle emergenze umanitarie.
Le agenzie delle Nazioni unite, oltre ad aver fissato una riunione d’emergenza-crisi per lunedì, hanno dichiarato ieri che per fermare il sempre più prorompente flusso di profughi saranno costrette a far cadere gli aiuti dagli aerei che sorvoleranno il sud della Somalia. Queste zone sono occupate dal gruppo di ribelli qaedisti dell’al Shabaab che, nonostante abbia permesso la distribuzione di viveri e medicinali nelle proprie aree, non sembra garantire la completa sicurezza per gli operatori sul territorio. Una nota della Caritas Italiana, da anni impegnata nel Corno d’Africa, oltre ad aver lanciato una raccolta di fondi, ha invitato a riflettere sulle cause strutturali di tali sofferenze: «La dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo, l’innalzamento dei prezzi, le situazioni di conflitto, e i cambiamenti climatici».
CORNO D'AFRICA: IL RACCONTO DAL VIVO DI UNA COOPERANTE.
Gente in cammino. Si incontra su tutto il tragitto che si percorre dal compound dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi (UNHCR) a Dadaab, fino al campo di Ifo. Sono campi profughi, tra i più grandi del mondo. 400mila persone.
Persone al seguito di carri con alte pire di legna trainati da asini lenti, ragazzi che portano greggi di mucche troppo magre in una terra che di verde ha soltanto gli arbusti di acacia. Una terra semidesertica praticamente asciutta da quasi due anni. La sabbia e la polvere alzate dalle macchine del convoglio che viene scortato nei campi ostacolano la visibilità. I finestrini chiusi impediscono di percepire il vento che agita i vestiti delle persone che camminano nel mezzo di questo nulla. In questa terra che non è neanche segnata sulle mappe, nonostante stia diventando la quarta città del Kenya.
Le capanne a cupola che si vedono tutt’intorno sono costruite con i rami degli arbusti e coperte da stracci. Scendendo dall’auto si viene travolti dal vento che fa ruzzolare tutto. Qui a Dadaab c’è sempre un forte vento. Il cielo è quasi sempre coperto, le nuvole corrono minacciose ogni giorno. In Italia è il segno inequivocabile di un temporale in arrivo. Qua no. Qua non piove mai. Secondo l’Onu la carestia che sta attanagliando la Somalia è la peggiore negli ultimi 60 anni. Da quel paese, già difficile prima, ora scappano tutti. E molti arrivano qui. Il 95% della popolazione è somala.
Nei campi profughi c’è sempre un grande movimento, ovunque persone in cammino. Nel campo di Ifo, in piedi dal 1992, la vita sembra organizzata. Ci sono negozi, c’è il mercato, le scuole, gli ospedali, i ristorantini, i rivenditori di telefonini, i sarti, gli internet point e, naturalmente, tanta gente sulle strade, ovunque, in movimento. Sembra un qualsiasi villaggio africano, a prima vista. Ma se ci si avvicina, non è così. Entrandoci si notano i cartelli con i nomi dei settori, le case che non sono case e tutte arrangiate, le latrine in comune per troppe famiglie, nomi di organizzazioni
umanitarie come la nostra Avsi che qui ci stanno.
Dal 2009, infatti, su richiesta dell’UNHCR e della Cooperazione Italiana, stiamo mettendo in piedi un intervento educativo qui a Dadaab. Mettiamo a posto scuole, ne costruiamo di nuove e formiamo i maestri così che possano
insegnare ai bambini. Ed ora siamo impegnati con Agire su questa nuova emergenza siccità.
Allontanandosi dal centro dei campo, le cose cambiano. Rimangono le persone in cammino, ma le case si fanno più rade, spariscono i negozi, le latrine e i punti di raccolta dell’acqua. Scompare quasi tutto. Svettano le tende bianche con lo stemma azzurro dell’UNHCR. Qui sono loro che gestiscono il campo e noi lavoriamo per loro. Tante persone in attesa di essere registrate e di avere un po’ di acqua, cibo e un posto dove dormire. E’ un lavoro quasi impossibile. Ogni giorno arrivano più di 1.500 persone.
Parlando con loro ci si accorge che ciò che li ha spinti a lasciare la propria terra è in realtà una condizione in cui molta gente vive da tempo nel Corno d’Africa, soprattutto in Somalia. La siccità, la guerra, la paura, la fame sono le principali cause. Sono tutti arrivati a Dadaab dopo un viaggio che li ha visti affrontare a piedi o con mezzi di fortuna chilometri e chilometri di strada. Anche ventisette ore di cammino. Un viaggio troppo lungo. I racconti sono drammatici, e simili. Tutti hanno patito la fame, la sete, la stanchezza. Tanti hanno raccontato di bambini abbandonati sulla strada perché troppo deboli per proseguire il cammino. Sono stati vittime di assalti dei banditi che gli hanno portano via tutto, anche i vestiti. La cosa più sconvolgente è la quantità di persone che è stata attaccata da animali feroci. Chi da un coccodrillo, chi da un leone, chi da un facocero. L’animale che uccide il maggior numero di persone, anche qui nei campi, è la iena. Chi muore sono soprattutto i bambini.
Attorno a me vedo i ragazzini che invece ce l’hanno fatta. Sono bambini con croste sulla testa o con i capelli gialli che indicano la denutrizione. Sono magrissimi, con le ginocchia che sembrano sproporzionatamente grandi rispetto al loro corpicino. Hanno gli occhi scavati. Ma sono pur sempre bambini che vogliono essere immortalati in una foto o che scappano terrorizzati alla vista di un bianco che porge loro la mano. Alcuni sono sopravvissuti all’attacco di animali. Come uno dei 5 figli di Mariam, una donna di 45 anni a Dadaab da 4 mesi. Quando è arrivata, con i figli e senza il marito, rimasto in Somalia a custodire il povero bestiame, non aveva una tenda o un posto dove stare. Dormiva sotto un albero con i suoi bambini. Una notte sono stati attaccati da una iena, ma fortunatamente sono riusciti a salvarsi. La gente attorno li ha aiutati.
Non è andata così bene a Momina, che ha visto suo figlio di soli 7 mesi essere ucciso e strappato via da un facocero sulla strada verso il confine tra la Somalia e il Kenya. O a Hassan, che ha visto suo figlio di 8 anni travolto da un leone, e nonostante questo si ritiene fortunato perché lui e il resto della sua famiglia sono ancora vivi.
E quando non sono state le belve, sono stati gli uomini ad uccidere. Mahmud migrava con i figli, un asino e un carretto. È stato attaccato dai banditi, che gli hanno portato via tutto e hanno dato fuoco al carro con l’asino e i figli sopra. Uno è rimasto ferito, ed è morto appena arrivato al campo.
La cosa incredibile è come la voglia e la speranza di vita rimanga forte nelle persone che hanno vissuto queste esperienze terribili. Noi siamo qui, di fronte a loro che li guardiamo. Chiedono medicine, acqua e cibo. Ma chiedono anche scuole per essere istruiti e per permettere ai loro figli di crescere. Perché il domani è ancora là. E dopo quello che hanno passato, l’unica cosa importante è renderlo il più sereno possibile. Ed è proprio per il loro futuro che chiediamo a tutti di aderire con Avsi all’appello di Agire per l’emergenza siccità in Africa orientale. Aiutateci ad aiutarli.
Da oggi, è possibile donare 2 euro tramite sms telefonando al numero solidale 45500 (da cellulari Tim, Vodafone, Coopvoce o da reti fisse Telecom Italia e Teletu).
22/07/2011 - Oltre 400mila uomini, in fuga dalla siccità e da una guerra ventennale, ammassati a Dadaab, in Kenya. Il racconto su “Avvenire” di Leo Capobianco, tra i responsabili del campo profughi: «Non ho mai visto una situazione così»
- Profughi somali in fuga dal loro Paese.
«Le testimonianze dei rifugiati che soccorriamo ogni giorno hanno dell’incredibile – continua il responsabile dell’organizzazione, tornato a Nairobi per partecipare alle riunioni d’emergenza delle agenzie umanitarie, e pronto a ripartire già oggi per il campo con altri aiuti – la storia che mi ha più colpito è quella di una famiglia il cui padre e figlio sono stati letteralmente mangiati dalle iene durante il tragitto tra il sud della Somalia e Dadaab». Capobianco racconta anche di aver visto migliaia di rifugiati che, dopo aver camminato per settimane in una delle aree più aride del Corno d’Africa, sono arrivati in condizioni di estrema povertà, spesso senza neanche uno straccio di vestito per coprirsi il corpo.
Avsi e Agire sono tra le organizzazioni umanitarie che da tempo lavorano in tutte e tre le sezioni del campo di Dadaab con progetti principalmente mirati all’educazione. «Da tre anni stiamo costruendo scuole e provvediamo alla formazione di centinaia d’insegnanti – spiega ad Avvenire Capobianco – nonostante questa crisi epocale abbia colto tutti di sorpresa, teniamo duro e mandiamo avanti i nostri progetti con tutte le nostre forze».
L’emergenza umanitaria in cui è stato risucchiato il campo di Dadaab sta peggiorando giorno dopo giorno. Ai più di 400 mila rifugiati già presenti nel campo, quotidianamente se ne aggiungono tra i 2 e i 3mila. La maggior parte di loro fugge dalla Somalia, l’ex colonia italiana in guerra da più di vent’anni, e che in almeno due regioni ha raggiunto questa settimana lo stadio ufficiale di "carestia", l’ultimo relativo alle emergenze umanitarie.
Le agenzie delle Nazioni unite, oltre ad aver fissato una riunione d’emergenza-crisi per lunedì, hanno dichiarato ieri che per fermare il sempre più prorompente flusso di profughi saranno costrette a far cadere gli aiuti dagli aerei che sorvoleranno il sud della Somalia. Queste zone sono occupate dal gruppo di ribelli qaedisti dell’al Shabaab che, nonostante abbia permesso la distribuzione di viveri e medicinali nelle proprie aree, non sembra garantire la completa sicurezza per gli operatori sul territorio. Una nota della Caritas Italiana, da anni impegnata nel Corno d’Africa, oltre ad aver lanciato una raccolta di fondi, ha invitato a riflettere sulle cause strutturali di tali sofferenze: «La dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo, l’innalzamento dei prezzi, le situazioni di conflitto, e i cambiamenti climatici».
CORNO D'AFRICA: IL RACCONTO DAL VIVO DI UNA COOPERANTE.
Gente in cammino. Si incontra su tutto il tragitto che si percorre dal compound dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi (UNHCR) a Dadaab, fino al campo di Ifo. Sono campi profughi, tra i più grandi del mondo. 400mila persone.
Persone al seguito di carri con alte pire di legna trainati da asini lenti, ragazzi che portano greggi di mucche troppo magre in una terra che di verde ha soltanto gli arbusti di acacia. Una terra semidesertica praticamente asciutta da quasi due anni. La sabbia e la polvere alzate dalle macchine del convoglio che viene scortato nei campi ostacolano la visibilità. I finestrini chiusi impediscono di percepire il vento che agita i vestiti delle persone che camminano nel mezzo di questo nulla. In questa terra che non è neanche segnata sulle mappe, nonostante stia diventando la quarta città del Kenya.
Le capanne a cupola che si vedono tutt’intorno sono costruite con i rami degli arbusti e coperte da stracci. Scendendo dall’auto si viene travolti dal vento che fa ruzzolare tutto. Qui a Dadaab c’è sempre un forte vento. Il cielo è quasi sempre coperto, le nuvole corrono minacciose ogni giorno. In Italia è il segno inequivocabile di un temporale in arrivo. Qua no. Qua non piove mai. Secondo l’Onu la carestia che sta attanagliando la Somalia è la peggiore negli ultimi 60 anni. Da quel paese, già difficile prima, ora scappano tutti. E molti arrivano qui. Il 95% della popolazione è somala.
Nei campi profughi c’è sempre un grande movimento, ovunque persone in cammino. Nel campo di Ifo, in piedi dal 1992, la vita sembra organizzata. Ci sono negozi, c’è il mercato, le scuole, gli ospedali, i ristorantini, i rivenditori di telefonini, i sarti, gli internet point e, naturalmente, tanta gente sulle strade, ovunque, in movimento. Sembra un qualsiasi villaggio africano, a prima vista. Ma se ci si avvicina, non è così. Entrandoci si notano i cartelli con i nomi dei settori, le case che non sono case e tutte arrangiate, le latrine in comune per troppe famiglie, nomi di organizzazioni
umanitarie come la nostra Avsi che qui ci stanno.
Dal 2009, infatti, su richiesta dell’UNHCR e della Cooperazione Italiana, stiamo mettendo in piedi un intervento educativo qui a Dadaab. Mettiamo a posto scuole, ne costruiamo di nuove e formiamo i maestri così che possano
insegnare ai bambini. Ed ora siamo impegnati con Agire su questa nuova emergenza siccità.
Allontanandosi dal centro dei campo, le cose cambiano. Rimangono le persone in cammino, ma le case si fanno più rade, spariscono i negozi, le latrine e i punti di raccolta dell’acqua. Scompare quasi tutto. Svettano le tende bianche con lo stemma azzurro dell’UNHCR. Qui sono loro che gestiscono il campo e noi lavoriamo per loro. Tante persone in attesa di essere registrate e di avere un po’ di acqua, cibo e un posto dove dormire. E’ un lavoro quasi impossibile. Ogni giorno arrivano più di 1.500 persone.
Parlando con loro ci si accorge che ciò che li ha spinti a lasciare la propria terra è in realtà una condizione in cui molta gente vive da tempo nel Corno d’Africa, soprattutto in Somalia. La siccità, la guerra, la paura, la fame sono le principali cause. Sono tutti arrivati a Dadaab dopo un viaggio che li ha visti affrontare a piedi o con mezzi di fortuna chilometri e chilometri di strada. Anche ventisette ore di cammino. Un viaggio troppo lungo. I racconti sono drammatici, e simili. Tutti hanno patito la fame, la sete, la stanchezza. Tanti hanno raccontato di bambini abbandonati sulla strada perché troppo deboli per proseguire il cammino. Sono stati vittime di assalti dei banditi che gli hanno portano via tutto, anche i vestiti. La cosa più sconvolgente è la quantità di persone che è stata attaccata da animali feroci. Chi da un coccodrillo, chi da un leone, chi da un facocero. L’animale che uccide il maggior numero di persone, anche qui nei campi, è la iena. Chi muore sono soprattutto i bambini.
Attorno a me vedo i ragazzini che invece ce l’hanno fatta. Sono bambini con croste sulla testa o con i capelli gialli che indicano la denutrizione. Sono magrissimi, con le ginocchia che sembrano sproporzionatamente grandi rispetto al loro corpicino. Hanno gli occhi scavati. Ma sono pur sempre bambini che vogliono essere immortalati in una foto o che scappano terrorizzati alla vista di un bianco che porge loro la mano. Alcuni sono sopravvissuti all’attacco di animali. Come uno dei 5 figli di Mariam, una donna di 45 anni a Dadaab da 4 mesi. Quando è arrivata, con i figli e senza il marito, rimasto in Somalia a custodire il povero bestiame, non aveva una tenda o un posto dove stare. Dormiva sotto un albero con i suoi bambini. Una notte sono stati attaccati da una iena, ma fortunatamente sono riusciti a salvarsi. La gente attorno li ha aiutati.
Non è andata così bene a Momina, che ha visto suo figlio di soli 7 mesi essere ucciso e strappato via da un facocero sulla strada verso il confine tra la Somalia e il Kenya. O a Hassan, che ha visto suo figlio di 8 anni travolto da un leone, e nonostante questo si ritiene fortunato perché lui e il resto della sua famiglia sono ancora vivi.
E quando non sono state le belve, sono stati gli uomini ad uccidere. Mahmud migrava con i figli, un asino e un carretto. È stato attaccato dai banditi, che gli hanno portato via tutto e hanno dato fuoco al carro con l’asino e i figli sopra. Uno è rimasto ferito, ed è morto appena arrivato al campo.
La cosa incredibile è come la voglia e la speranza di vita rimanga forte nelle persone che hanno vissuto queste esperienze terribili. Noi siamo qui, di fronte a loro che li guardiamo. Chiedono medicine, acqua e cibo. Ma chiedono anche scuole per essere istruiti e per permettere ai loro figli di crescere. Perché il domani è ancora là. E dopo quello che hanno passato, l’unica cosa importante è renderlo il più sereno possibile. Ed è proprio per il loro futuro che chiediamo a tutti di aderire con Avsi all’appello di Agire per l’emergenza siccità in Africa orientale. Aiutateci ad aiutarli.
La giornalista Francesca Paci spiega dove muoiono i cristiani (e anche perché)
Dove muoiono i cristiani” (Mondadori 2011).
L’inviata de “La Stampa”, Francesca Paci, ha dedicato un libro alle violenze contro i cristiani, discriminati «perché per loro la dignità della persona viene prima di tutto. Una vera rivoluzione». La Paci è corrispondente a Londra, ha vinto nel 2005 il Premio Giornalistico Internazionale Marco Luchetta e nel 2007 il Premiolino Giovani. Ha anche condotto una trasmissione su LA 7.
Non sapeva che l‘essere cristiani e cattolici è un grande problema fino a quando ha scoperto che Tony Blair, allora primo ministro inglese, si faceva portare la comunione di nascosto da padre Michael Seed, il quale entrava a Downing Street passando dalla porta sul retro. Ha raccolto tante storie in “Dove muoiono i cristiani” (Mondadori 2011).
La rivista Tracce ha intervistato la giornalista, chiedendolo perché, secondo lei, i cristiani subiscono persecuzioni in così tante aree del mondo. Risponde: «Mi sono fatta questa idea: il cristianesimo pone al centro la persona e la sua dignità. Ovunque ci sia una situazione in cui il singolo viene maltrattato, fino magari a essere ucciso, dove la sua dignità umana viene calpestata, io ho sempre trovato che quella persona trova rifugio sotto un campanile, in una parrocchia. Ci sono posti nel mondo dove gli omosessuali vengono presi a sassate. La comunità cristiana è quasi sempre un porto sicuro. Per il cristiano, la dignità di ognuno viene prima di tutto. Questa è una posizione rivoluzionaria. Il sacerdote, la famiglia cristiana o il semplice fedele recuperano quel potenziale rivoluzionario delle origini. Irriducibile al potere».
E poi si parla di Amazzonia, Colombia e India, dove sono sempre i sacerdoti -spiega la giornalista- a difendere gli ultimi. I paria in India non hanno alcun diritto, tuttavia vengono accolti nelle parrocchie dove trovano «la possibilità di studiare, essere curati. Tutto insieme agli altri. Questo emancipa. Domani a 20 anni possono prendere un aereo, andare a studiare a Harvard o Cambridge e poi tornare e sovvertire l’ordine delle caste. Una persona che non ha mai avuto niente dalla vita può studiare senza che gli sia chiesto niente in cambio». Nessuno però ne parla, come mai? «A chi interessa un Paese come l’Orissa?», chiede la giornalista. «Non c’è nessun interesse economico, politico a quei luoghi. La nostra colpa è non considerare che in tanti posti i cristiani sono trattati come ai tempi delle persecuzioni. E sono più perseguitati di altri in virtù delle qualità che noi, in Occidente, abbiamo assimilato».
«Viviamo in Occidente – spiega la giornalista - in stati democratici dove il cristianesimo è ancora maggioranza. Non siamo abituati all’idea che altrove questa è una piccola minoranza di fedeli che fanno fatica anche ad andare a messa. Per questo, da non credente, sono rimasta sbalordita dalle aggressioni in Nigeria, dall’assalto alle chiese in Iraq, dalle stragi di cristiani copti in Egitto a quelle dei fedeli dell’Orissa (India). Per non parlare del Pakistan... Una persecuzione che non fa notizia, specie se le discriminazioni non mietono vittime. Sono stata per anni corrispondente da Gerusalemme e ho visto l’esodo tuttora in corso dei cristiani dalla Terra Santa».
Spesso al silenzio contribuisce, paradossalmente, anche la strategia del dialogo: «Credo – continua - che nessuno come la Chiesa cattolica si stia impegnando nel creare ponti piuttosto che muri, con incontri e seminari di ogni genere. E condivido questo impegno. Purtroppo però a volte si rischia di tacitare le situazioni di oppressione. Spesso i copti in Egitto mi dicono è “colpa vostra, perché a furia di insistere sul dialogo non capite che i Fratelli Musulmani non vogliono il dialogo e faranno di tutto per schiacciarci”. Dopo aver contribuito alla caduta di Mubarak, ora temono di non poter ancora accedere a cariche pubbliche. La verità è che nei paesi musulmani la divisione tra religione e politica non c’è mai stata. E non posso che essere favorevole anch’io all’istituzione del Christian Rights Watch, un osservatorio a difesa dei diritti dei cristiani».
Ci sono Paesi, come l’India, l’Iraq o la Nigeria, in cui alla base c’è un esplicito odio religioso, come quello dei fondamentalisti di altre islamici o indù. E altri come la Cina, il Vietnam o la Corea del Nord, dove lo Stato comunista non ammette nessun credo. «Però da laica - sottolinea l’autrice – mi son sempre chiesta qual è la matrice comune della massiccia persecuzione anticristiana ai giorni nostri nelle diverse zone del mondo. Ho capito che il cristianesimo sin dalle origini sovverte l’ordine costituito non attraverso la spada, ma promuovendo la dignità dell’uomo: con largo anticipo su qualunque dottrina liberale o illuminista. Ovunque la dignità dell’uomo è calpestata, il cristianesimo mette in campo la sua carica rivoluzionaria. Penso ad esempio all’India, dove i cristiani sono gli unici ad accogliere i più emarginati, i “dahlit”, quelli senza casta. Oppure all’Amazzonia dove non ci sono fondamentalisti eppure sacerdoti e missionari perdono la vita per difendere gli ultimi e i poveri». Ritratti che spingono l’autrice ad affermare sicura: «La fede è un pretesto, le persecuzioni nascondono disuguaglianze economiche per tagliar fuori le minoranze».
In realtà insistendo sulle ragioni sociali dell’oppressione dei cristiani, la giornalista non fa altro che affermare come la fede non sia soltanto una dottrina, ma si incarni nella vita concreta dei credenti che ha incontrato. «Mi ha colpito – rivela – la testimonianza dei fedeli della Corea del Nord, un mondo ancora inaccessibile. Un eroismo che ricorda quello dei primi cristiani. Ho incontrato uno di loro ad Amsterdam e mi raccontava che per anni i suoi genitori cristiani nascondevano il libro di preghiere in una giara seppellita in giardino: la tiravano fuori solo durante la notte. Qualcuno però ha fatto la spia e i suoi familiari furono torturati e uccisi. E un altro coreano, riuscito a fuggire dai campi di concentramento dove finiscono anche tanti dissidenti cristiani, mi ha confidato che ha sempre tenuto nascosto ai suoi figli la propria fede. “Mi pento – mi ha detto, ma non potevo parlare. Una volta tentavo di spiegare ai miei bambini il Natale, la nascita di Gesù. E mio figlio mi chiese: “Ma chi era il bimbo di Betlemme, il caro leader?”. In Corea del Nord infatti i cristiani sono considerati dissidenti perché hanno un altro “dio” rispetto al leader del partito comunista e il lavaggio del cervello comincia già nelle scuole».
Una tenacia che non conosce confini: «Mi ha impressionato – conclude Francesca Paci - il coraggio di una donna cristiana in Indonesia. Nonostante le percosse subite continuava a ripetermi: “Non ho paura di morire se si tratta di difendere Gesù”».
L’inviata de “La Stampa”, Francesca Paci, ha dedicato un libro alle violenze contro i cristiani, discriminati «perché per loro la dignità della persona viene prima di tutto. Una vera rivoluzione». La Paci è corrispondente a Londra, ha vinto nel 2005 il Premio Giornalistico Internazionale Marco Luchetta e nel 2007 il Premiolino Giovani. Ha anche condotto una trasmissione su LA 7.
Non sapeva che l‘essere cristiani e cattolici è un grande problema fino a quando ha scoperto che Tony Blair, allora primo ministro inglese, si faceva portare la comunione di nascosto da padre Michael Seed, il quale entrava a Downing Street passando dalla porta sul retro. Ha raccolto tante storie in “Dove muoiono i cristiani” (Mondadori 2011).
La rivista Tracce ha intervistato la giornalista, chiedendolo perché, secondo lei, i cristiani subiscono persecuzioni in così tante aree del mondo. Risponde: «Mi sono fatta questa idea: il cristianesimo pone al centro la persona e la sua dignità. Ovunque ci sia una situazione in cui il singolo viene maltrattato, fino magari a essere ucciso, dove la sua dignità umana viene calpestata, io ho sempre trovato che quella persona trova rifugio sotto un campanile, in una parrocchia. Ci sono posti nel mondo dove gli omosessuali vengono presi a sassate. La comunità cristiana è quasi sempre un porto sicuro. Per il cristiano, la dignità di ognuno viene prima di tutto. Questa è una posizione rivoluzionaria. Il sacerdote, la famiglia cristiana o il semplice fedele recuperano quel potenziale rivoluzionario delle origini. Irriducibile al potere».
E poi si parla di Amazzonia, Colombia e India, dove sono sempre i sacerdoti -spiega la giornalista- a difendere gli ultimi. I paria in India non hanno alcun diritto, tuttavia vengono accolti nelle parrocchie dove trovano «la possibilità di studiare, essere curati. Tutto insieme agli altri. Questo emancipa. Domani a 20 anni possono prendere un aereo, andare a studiare a Harvard o Cambridge e poi tornare e sovvertire l’ordine delle caste. Una persona che non ha mai avuto niente dalla vita può studiare senza che gli sia chiesto niente in cambio». Nessuno però ne parla, come mai? «A chi interessa un Paese come l’Orissa?», chiede la giornalista. «Non c’è nessun interesse economico, politico a quei luoghi. La nostra colpa è non considerare che in tanti posti i cristiani sono trattati come ai tempi delle persecuzioni. E sono più perseguitati di altri in virtù delle qualità che noi, in Occidente, abbiamo assimilato».
«Viviamo in Occidente – spiega la giornalista - in stati democratici dove il cristianesimo è ancora maggioranza. Non siamo abituati all’idea che altrove questa è una piccola minoranza di fedeli che fanno fatica anche ad andare a messa. Per questo, da non credente, sono rimasta sbalordita dalle aggressioni in Nigeria, dall’assalto alle chiese in Iraq, dalle stragi di cristiani copti in Egitto a quelle dei fedeli dell’Orissa (India). Per non parlare del Pakistan... Una persecuzione che non fa notizia, specie se le discriminazioni non mietono vittime. Sono stata per anni corrispondente da Gerusalemme e ho visto l’esodo tuttora in corso dei cristiani dalla Terra Santa».
Spesso al silenzio contribuisce, paradossalmente, anche la strategia del dialogo: «Credo – continua - che nessuno come la Chiesa cattolica si stia impegnando nel creare ponti piuttosto che muri, con incontri e seminari di ogni genere. E condivido questo impegno. Purtroppo però a volte si rischia di tacitare le situazioni di oppressione. Spesso i copti in Egitto mi dicono è “colpa vostra, perché a furia di insistere sul dialogo non capite che i Fratelli Musulmani non vogliono il dialogo e faranno di tutto per schiacciarci”. Dopo aver contribuito alla caduta di Mubarak, ora temono di non poter ancora accedere a cariche pubbliche. La verità è che nei paesi musulmani la divisione tra religione e politica non c’è mai stata. E non posso che essere favorevole anch’io all’istituzione del Christian Rights Watch, un osservatorio a difesa dei diritti dei cristiani».
Ci sono Paesi, come l’India, l’Iraq o la Nigeria, in cui alla base c’è un esplicito odio religioso, come quello dei fondamentalisti di altre islamici o indù. E altri come la Cina, il Vietnam o la Corea del Nord, dove lo Stato comunista non ammette nessun credo. «Però da laica - sottolinea l’autrice – mi son sempre chiesta qual è la matrice comune della massiccia persecuzione anticristiana ai giorni nostri nelle diverse zone del mondo. Ho capito che il cristianesimo sin dalle origini sovverte l’ordine costituito non attraverso la spada, ma promuovendo la dignità dell’uomo: con largo anticipo su qualunque dottrina liberale o illuminista. Ovunque la dignità dell’uomo è calpestata, il cristianesimo mette in campo la sua carica rivoluzionaria. Penso ad esempio all’India, dove i cristiani sono gli unici ad accogliere i più emarginati, i “dahlit”, quelli senza casta. Oppure all’Amazzonia dove non ci sono fondamentalisti eppure sacerdoti e missionari perdono la vita per difendere gli ultimi e i poveri». Ritratti che spingono l’autrice ad affermare sicura: «La fede è un pretesto, le persecuzioni nascondono disuguaglianze economiche per tagliar fuori le minoranze».
In realtà insistendo sulle ragioni sociali dell’oppressione dei cristiani, la giornalista non fa altro che affermare come la fede non sia soltanto una dottrina, ma si incarni nella vita concreta dei credenti che ha incontrato. «Mi ha colpito – rivela – la testimonianza dei fedeli della Corea del Nord, un mondo ancora inaccessibile. Un eroismo che ricorda quello dei primi cristiani. Ho incontrato uno di loro ad Amsterdam e mi raccontava che per anni i suoi genitori cristiani nascondevano il libro di preghiere in una giara seppellita in giardino: la tiravano fuori solo durante la notte. Qualcuno però ha fatto la spia e i suoi familiari furono torturati e uccisi. E un altro coreano, riuscito a fuggire dai campi di concentramento dove finiscono anche tanti dissidenti cristiani, mi ha confidato che ha sempre tenuto nascosto ai suoi figli la propria fede. “Mi pento – mi ha detto, ma non potevo parlare. Una volta tentavo di spiegare ai miei bambini il Natale, la nascita di Gesù. E mio figlio mi chiese: “Ma chi era il bimbo di Betlemme, il caro leader?”. In Corea del Nord infatti i cristiani sono considerati dissidenti perché hanno un altro “dio” rispetto al leader del partito comunista e il lavaggio del cervello comincia già nelle scuole».
Una tenacia che non conosce confini: «Mi ha impressionato – conclude Francesca Paci - il coraggio di una donna cristiana in Indonesia. Nonostante le percosse subite continuava a ripetermi: “Non ho paura di morire se si tratta di difendere Gesù”».
CRESCITA ECONOMICA ITALIANA UGUALE A ZEROOOOOOOO...
Quattro cose da fare per difendere l'economia italiana
1. Dichiarare lo stato di emergenza.
2. Vietare in maniera permanente i titoli derivati di assicurazione (credit default swaps), lo strumento preferito usato per l’assalto alle obbligazioni dello Stato Italiano. Disporre serie pene criminali per i trasgressori di tale divieto. Se questi titoli sono considerati assicurazioni, i venditori non hanno adempito alle precondizioni legali per poter funzionare come ditta assicuratrice. Se sono giochi di azzardo, la loro vendita rappresenta una bisca abusiva. In ogni caso sono illegali e devono essere puniti dalla legge.
3. Vietare le vendite di titoli allo scoperto di qualsiasi genere ...
... fino alla fine dell’attuale crisi, secondo il giudizio del Presidente del Consiglio.
4. Neutralizzare le agenzie di rating. Durante la crisi del 2008, le agenzie di rating hanno mantenuto una valutazione di AAA per molte obbligazioni fino alla vigilia del crollo, dando luogo ad accuse di corruzione. Oggi esiste il fondato sospetto della partecipazione di queste agenzie ad una operazione congiunta di attacco all’Italia da parte di banche e hedge funds esteri nell’ambito di una speculazione al ribasso su vasta scala.
È quindi opportuno far intervenire la Magistratura e la Guardia di Finanza per eseguire perlustrazioni nelle sedi di tali agenzie allo scopo di accertare in maniera preventiva se questi crimini siano in fase di preparazione. Eventuali attività criminali contro l’Italia da parte di queste agenzie di rating devono essere colpite attraverso proteste diplomatiche, mandati dell’Interpol, e altri mezzi.
Questi provvedimenti urgono sopratutto per rompere lo slancio dell’attuale attacco speculativo e per garantire la stabilità necessaria per sviluppare una azione a più lunga scadenza. Ogni sforzo deve essere fatto per ottenere l’applicazione di tali provvedimenti in tutti i paesi dell’Union Europea.
Dal Blog :Attualizzando la foschia
venerdì 22 luglio 2011
giovedì 21 luglio 2011
ANTONIO SOCCI ancora ci commuove e ci interroga con un suo articolo dove 2 povertà ( malattia di un figlio e miseria in Africa ) si incontrano sotto la Croce di Cristo e così assumono una profondità e una ricchezza per tutti noi...
lo Straniero - Il blog di Antonio Socci
La ragazza che guardava il cielo
Vi regalo, qui sotto, la prefazione che ho scritto al libro di Alberto Reggiori, “La ragazza che guardava il cielo” (Rizzoli, pp. 210, euro 18). E’ una storia vera. E’ un grande libro. Leggetelo questa estate.
Vi appassionerà e vi commuoverà… Vi cambierà! Vi farà vedere – in questo mondo di palloni gonfiati, celebrati dai media – dove sono e chi sono i veri eroi sconosciuti del nostro tempo
* * *
Era l’8 ottobre del 2009. Mi trovavo nel pieno della mia personale tragedia: il coma di mia figlia Caterina. Fra le tantissime mail che mi arrivarono in quei giorni ce ne fu una particolare, che subito mi colpì. Si concludeva con queste parole: “Un abbraccio ed una preghiera dal profondo dell’Africa”.
Chi mai poteva raggiungermi dal profondo dell’Africa? Era la lettera di un medico di Varese, Alberto Reggiori, che scriveva dal sud del Sudan dove era andato come volontario per tre settimane a curare delle popolazioni fra le più povere e derelitte del pianeta, con un progetto della Fondazione Avsi.
Si rivolgeva a me e a mia moglie: “vorrei dirvi che vi sono molto vicino anche e soprattutto perché il percorso che state facendo è stato anche il nostro: mio e di mia moglie Patrizia e dei nostri sette figli”.
Il dottor Reggiori mi spiegava che nel 2007 suo figlio Giulio, a quel tempo diciottenne, fece un gravissimo incidente che lo portò sulla soglia della morte.
Con la sua lettera cercava soprattutto il modo per confortarci e incoraggiarci a lottare. Mi scriveva:
Quando ci hanno comunicato dell’incidente di Giulio (…) la fede che Dio ci ha donato insieme alla croce da portare (sempre faticosa e dolorosa) ci ha sostenuto ed ora guardando indietro sono pieno di stupore.
Quando siamo passati attraverso momenti difficili (i medici che ci negavano ragionevoli speranze, i parametri che tu ben conosci erano a livelli incompatibili con la vita, il cervello di Giulio che alla Tac era “un colabrodo”) io e Patrizia ci siamo detti che continuavamo a sperare nella bontà di Dio, nel suo amore verso il nostro destino e quello di Giulio. Certi, non di un destino buono generico, ma della guarigione del nostro grande Giulio.
Abbiamo chiesto, così come eravamo capaci, insieme a decine e centinaia di amici (ogni sera il rosario al Sacro Monte vedeva anche 200 persone salire come mendicanti per chiedere a Maria la sua pietà; fuori dalla rianimazione era una processione continua).
Anche per noi sono diventati familiari i brani del vangelo in cui Cristo ci invita a pregare il Padre con insistenza, sperando contro ogni speranza: la vedova importuna, il cieco che grida “figlio di Dio abbi pietà di me”, l’amico che bussa di notte, il centurione che chiede la guarigione… tutti loro erano, anzi sono la nostra voce.
Abbiamo pregato e chiesto di giorno e di notte, letteralmente, senza smettere e devo dire che quel periodo della nostra vita è stato così importante perché il Signore ci ha toccato e la sua presenza ha lasciato il segno che non possiamo né vogliamo più toglierci di dosso. Ringrazio ogni giorno per quello che è successo, questa forse è la vera follia della croce.
Adesso Giulio, dopo due mesi di coma, sei operazioni, nove di carrozzina e una rieducazione che continua sino ad oggi ha recuperato tanto, quasi tutto ed è un miracolo la sua presenza per noi, la sua costante letizia, il suo affidarsi a noi ed agli amici, l’essere sempre sorpreso davanti alla vita, senza pretesa, (…).
A posteriori possiamo dire che forse era necessario passare attraverso questa misteriosa e potente purificazione. Comunque adesso in ballo ci siete voi, e la vostra bella e brava Caterina e noi vi siamo vicini, come se ci conoscessimo da sempre e vi rassicuriamo: non perdetevi d’animo e continuate a sostenervi a vicenda nel coraggio della Fede in Colui che non vi delude. Sperando di incontrarci, prima o poi.
Questa testimonianza mi confortò tantissimo, ma insieme mi incuriosì. Alcuni dettagli erano per me rivelatori di una persona fuori dal comune (come pure una persona eccezionale è sua moglie): sette figli, una tale fede e una tale forza da sostenere la durissima prova dell’incidente a Giulio e, mentre è ancora in corso tutto questo, lo spendere le proprie ferie in Sudan, una regione devastata da anni di guerre, a curare i più poveri e derelitti del mondo.
Infine – come se non bastasse – trovandosi in quell’inferno – la capacità di trovare il tempo e il modo per confortare un padre che, a migliaia di chilometri di distanza, ha saputo (da internet) essere precipitato nello stesso incubo per una sua figlia in coma.
Subito risposi a quella mail chiedendo al dottor Reggiori di darmi qualche informazione su di sé, sul perché si trovava in Africa. E ho scoperto una storia stupefacente.
Lui e sua moglie Patrizia, poco dopo la laurea in Medicina e il matrimonio, negli anni Ottanta, avevano dato la loro disponibilità ad andare a lavorare in Africa con i progetti dell’Avsi, per curare quelle popolazioni povere e privi di assistenza sanitaria.
Così Alberto e Patrizia sono partiti e hanno vissuto più di dieci anni in Uganda (tre dei loro sette figli, Giulio compreso, sono nati là).
Condividendo la vita di quella povera gente e legandosi a loro con forti legami di amicizia, hanno assistito, fra l’altro, da lì in prima linea, all’irrompere in quelle regioni di un apocalittico flagello infettivo che mieterà un mare di vittime e che solo dopo un po’ fu identificato: si chiamava Aids.
Eppure, quando parlano della loro Africa, Alberto e Patrizia raccontano anni belli – seppure pieni di sofferenze e compassione – descrivono paesaggi incantevoli, popolazioni a loro care, dalle grandi qualità umane.
Ho poi scoperto che Alberto ha raccontato quegli anni in Uganda in un libro delizioso, Dottore è finito il diesel (edito da Marietti).
Del resto i forti legami di amicizia che hanno con quelle popolazioni e con altri amici medici che – sempre per l’Avsi – lavorano tuttora in Uganda e in altri paesi africani restano ben solidi.
E da quando la famiglia Reggiori è tornata definitivamente in Italia, nel 1996, Alberto torna in Africa ogni anno, per circa un mese (le sue ferie), a curare persone che soffrono e non hanno nulla.
In genere torna in Uganda, ma nel 2009 fu mandato in Sud Sudan dove c’è una clinica di suore che l’Avsi sta trasformando in un piccolo ospedale ed una scuola.
Nel 2010 Alberto è stato mandato ad Haiti, dove l’Avsi è presente per alleviare le sofferenze di una popolazione provata dal terremoto.
A me stupisce ascoltare Alberto quando racconta di queste situazioni di povertà assoluta, perché dà sempre la sensazione di non essere sopraffatto dall’enormità dei problemi e si vede in lui una forza calma che sorprende e una luce che vince ogni tenebra.
Per esempio, del Sudan dice: “E’ un territorio selvaggio circondato da montagne che esce da 30 anni di guerra civile (arabi contro neri cristiani) e che è spaventosamente arretrato (la gente dei villaggi vive ancora quasi nuda e nelle capanne), ma che ha anche un grande fascino, perché è possibile incontrare persone inaspettate e condividere con loro quanto abbiamo di caro. Io seguo l’aspetto sanitario insieme ad altri medici italiani ed africani che lavorano là”.
Quello che colpisce, incontrando Alberto e sua moglie Patrizia, è la loro assoluta semplicità. Sembra che neanche si rendano conto della grandezza di ciò che fanno, quasi che sia normale decidere a 30 anni di andare a vivere in Africa, fra popolazioni poverissime, rinunciando a tante cose e facendo nascere e crescere i propri figli laggiù.
La sensazione di assoluta normalità che danno forse è dovuta anche al fatto che hanno vissuto tutto questo con altri amici con cui hanno condiviso in gioventù e negli anni dell’università una forte esperienza cristiana e quell’amicizia li ha portati fino agli estremi confini della terra con la stessa naturalezza con cui potevano metter su casa a Varese o a Como.
La vita e l’amicizia di cui Alberto partecipa sa rendere eroico il quotidiano senza che quelli che ne sono protagonisti perdano la semplicità, la luce dello sguardo, l’umiltà e senza che si sentano per questo degli eroi (mentre invece lo sono davvero).
Sono uomini e donne la cui umanità ha fatto irrompere la speranza e la vita perfino in quell’inferno di morte che è diventata l’Africa degli anni Ottanta, col dilagante orrore dell’Aids.
La storia che Alberto Reggiori racconta in questo libro ne è la prova. E’ semplicemente una storia mozzafiato, struggente. La protagonista, Zamu, una ragazza africana meravigliosa, ha vissuto con i suoi amici una vicenda che sconvolge, incanta e commuove.
Leggendo le bozze di questo libro a me è accaduto qualcosa che accade solo con i grandi libri e che non mi capitava da tempo: ogni giorno non vedevo l’ora di arrivare a sera per poter riprendere la lettura e scoprire la fine della storia. Che poi è un grande inizio, tutto da scoprire, da gustare e da rivivere.
Antonio Socci
Vi appassionerà e vi commuoverà… Vi cambierà! Vi farà vedere – in questo mondo di palloni gonfiati, celebrati dai media – dove sono e chi sono i veri eroi sconosciuti del nostro tempo
* * *
Era l’8 ottobre del 2009. Mi trovavo nel pieno della mia personale tragedia: il coma di mia figlia Caterina. Fra le tantissime mail che mi arrivarono in quei giorni ce ne fu una particolare, che subito mi colpì. Si concludeva con queste parole: “Un abbraccio ed una preghiera dal profondo dell’Africa”.
Chi mai poteva raggiungermi dal profondo dell’Africa? Era la lettera di un medico di Varese, Alberto Reggiori, che scriveva dal sud del Sudan dove era andato come volontario per tre settimane a curare delle popolazioni fra le più povere e derelitte del pianeta, con un progetto della Fondazione Avsi.
Si rivolgeva a me e a mia moglie: “vorrei dirvi che vi sono molto vicino anche e soprattutto perché il percorso che state facendo è stato anche il nostro: mio e di mia moglie Patrizia e dei nostri sette figli”.
Il dottor Reggiori mi spiegava che nel 2007 suo figlio Giulio, a quel tempo diciottenne, fece un gravissimo incidente che lo portò sulla soglia della morte.
Con la sua lettera cercava soprattutto il modo per confortarci e incoraggiarci a lottare. Mi scriveva:
Quando ci hanno comunicato dell’incidente di Giulio (…) la fede che Dio ci ha donato insieme alla croce da portare (sempre faticosa e dolorosa) ci ha sostenuto ed ora guardando indietro sono pieno di stupore.
Quando siamo passati attraverso momenti difficili (i medici che ci negavano ragionevoli speranze, i parametri che tu ben conosci erano a livelli incompatibili con la vita, il cervello di Giulio che alla Tac era “un colabrodo”) io e Patrizia ci siamo detti che continuavamo a sperare nella bontà di Dio, nel suo amore verso il nostro destino e quello di Giulio. Certi, non di un destino buono generico, ma della guarigione del nostro grande Giulio.
Abbiamo chiesto, così come eravamo capaci, insieme a decine e centinaia di amici (ogni sera il rosario al Sacro Monte vedeva anche 200 persone salire come mendicanti per chiedere a Maria la sua pietà; fuori dalla rianimazione era una processione continua).
Anche per noi sono diventati familiari i brani del vangelo in cui Cristo ci invita a pregare il Padre con insistenza, sperando contro ogni speranza: la vedova importuna, il cieco che grida “figlio di Dio abbi pietà di me”, l’amico che bussa di notte, il centurione che chiede la guarigione… tutti loro erano, anzi sono la nostra voce.
Abbiamo pregato e chiesto di giorno e di notte, letteralmente, senza smettere e devo dire che quel periodo della nostra vita è stato così importante perché il Signore ci ha toccato e la sua presenza ha lasciato il segno che non possiamo né vogliamo più toglierci di dosso. Ringrazio ogni giorno per quello che è successo, questa forse è la vera follia della croce.
Adesso Giulio, dopo due mesi di coma, sei operazioni, nove di carrozzina e una rieducazione che continua sino ad oggi ha recuperato tanto, quasi tutto ed è un miracolo la sua presenza per noi, la sua costante letizia, il suo affidarsi a noi ed agli amici, l’essere sempre sorpreso davanti alla vita, senza pretesa, (…).
A posteriori possiamo dire che forse era necessario passare attraverso questa misteriosa e potente purificazione. Comunque adesso in ballo ci siete voi, e la vostra bella e brava Caterina e noi vi siamo vicini, come se ci conoscessimo da sempre e vi rassicuriamo: non perdetevi d’animo e continuate a sostenervi a vicenda nel coraggio della Fede in Colui che non vi delude. Sperando di incontrarci, prima o poi.
Questa testimonianza mi confortò tantissimo, ma insieme mi incuriosì. Alcuni dettagli erano per me rivelatori di una persona fuori dal comune (come pure una persona eccezionale è sua moglie): sette figli, una tale fede e una tale forza da sostenere la durissima prova dell’incidente a Giulio e, mentre è ancora in corso tutto questo, lo spendere le proprie ferie in Sudan, una regione devastata da anni di guerre, a curare i più poveri e derelitti del mondo.
Infine – come se non bastasse – trovandosi in quell’inferno – la capacità di trovare il tempo e il modo per confortare un padre che, a migliaia di chilometri di distanza, ha saputo (da internet) essere precipitato nello stesso incubo per una sua figlia in coma.
Subito risposi a quella mail chiedendo al dottor Reggiori di darmi qualche informazione su di sé, sul perché si trovava in Africa. E ho scoperto una storia stupefacente.
Lui e sua moglie Patrizia, poco dopo la laurea in Medicina e il matrimonio, negli anni Ottanta, avevano dato la loro disponibilità ad andare a lavorare in Africa con i progetti dell’Avsi, per curare quelle popolazioni povere e privi di assistenza sanitaria.
Così Alberto e Patrizia sono partiti e hanno vissuto più di dieci anni in Uganda (tre dei loro sette figli, Giulio compreso, sono nati là).
Condividendo la vita di quella povera gente e legandosi a loro con forti legami di amicizia, hanno assistito, fra l’altro, da lì in prima linea, all’irrompere in quelle regioni di un apocalittico flagello infettivo che mieterà un mare di vittime e che solo dopo un po’ fu identificato: si chiamava Aids.
Eppure, quando parlano della loro Africa, Alberto e Patrizia raccontano anni belli – seppure pieni di sofferenze e compassione – descrivono paesaggi incantevoli, popolazioni a loro care, dalle grandi qualità umane.
Ho poi scoperto che Alberto ha raccontato quegli anni in Uganda in un libro delizioso, Dottore è finito il diesel (edito da Marietti).
Del resto i forti legami di amicizia che hanno con quelle popolazioni e con altri amici medici che – sempre per l’Avsi – lavorano tuttora in Uganda e in altri paesi africani restano ben solidi.
E da quando la famiglia Reggiori è tornata definitivamente in Italia, nel 1996, Alberto torna in Africa ogni anno, per circa un mese (le sue ferie), a curare persone che soffrono e non hanno nulla.
In genere torna in Uganda, ma nel 2009 fu mandato in Sud Sudan dove c’è una clinica di suore che l’Avsi sta trasformando in un piccolo ospedale ed una scuola.
Nel 2010 Alberto è stato mandato ad Haiti, dove l’Avsi è presente per alleviare le sofferenze di una popolazione provata dal terremoto.
A me stupisce ascoltare Alberto quando racconta di queste situazioni di povertà assoluta, perché dà sempre la sensazione di non essere sopraffatto dall’enormità dei problemi e si vede in lui una forza calma che sorprende e una luce che vince ogni tenebra.
Per esempio, del Sudan dice: “E’ un territorio selvaggio circondato da montagne che esce da 30 anni di guerra civile (arabi contro neri cristiani) e che è spaventosamente arretrato (la gente dei villaggi vive ancora quasi nuda e nelle capanne), ma che ha anche un grande fascino, perché è possibile incontrare persone inaspettate e condividere con loro quanto abbiamo di caro. Io seguo l’aspetto sanitario insieme ad altri medici italiani ed africani che lavorano là”.
Quello che colpisce, incontrando Alberto e sua moglie Patrizia, è la loro assoluta semplicità. Sembra che neanche si rendano conto della grandezza di ciò che fanno, quasi che sia normale decidere a 30 anni di andare a vivere in Africa, fra popolazioni poverissime, rinunciando a tante cose e facendo nascere e crescere i propri figli laggiù.
La sensazione di assoluta normalità che danno forse è dovuta anche al fatto che hanno vissuto tutto questo con altri amici con cui hanno condiviso in gioventù e negli anni dell’università una forte esperienza cristiana e quell’amicizia li ha portati fino agli estremi confini della terra con la stessa naturalezza con cui potevano metter su casa a Varese o a Como.
La vita e l’amicizia di cui Alberto partecipa sa rendere eroico il quotidiano senza che quelli che ne sono protagonisti perdano la semplicità, la luce dello sguardo, l’umiltà e senza che si sentano per questo degli eroi (mentre invece lo sono davvero).
Sono uomini e donne la cui umanità ha fatto irrompere la speranza e la vita perfino in quell’inferno di morte che è diventata l’Africa degli anni Ottanta, col dilagante orrore dell’Aids.
La storia che Alberto Reggiori racconta in questo libro ne è la prova. E’ semplicemente una storia mozzafiato, struggente. La protagonista, Zamu, una ragazza africana meravigliosa, ha vissuto con i suoi amici una vicenda che sconvolge, incanta e commuove.
Leggendo le bozze di questo libro a me è accaduto qualcosa che accade solo con i grandi libri e che non mi capitava da tempo: ogni giorno non vedevo l’ora di arrivare a sera per poter riprendere la lettura e scoprire la fine della storia. Che poi è un grande inizio, tutto da scoprire, da gustare e da rivivere.
Antonio Socci
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mercoledì 20 luglio 2011
GESU' VIENE OFFESO TUTTI I GIORNI COSI' ( ANCHE DA ME).......ma il suo Amore è DISARMANTE se solo vedessimo......GESU' DA ERODE (tratto dal Musical "Jesus Christ Superstar")
....E LA PREGHIERA PUO' APRIRCI GLI OCCHI E IL CUORE PER RICONOSCERLO COME AMICO....PRESENTE...
martedì 19 luglio 2011
lunedì 18 luglio 2011
domenica 17 luglio 2011
POVERTA' IN ITALIA ( UNO SU OTTO NON CE LA FA PIU ') N.B..........1 su 4 al Sud
Allarme Istat: la povertà aumenta
"Otto milioni di italiani in bilico"
Dati drammatici dall'istituto di statistica: il 13,6% della popolazione campa con 900 euro mensili (per due persone) e sale al 4,6% la percentuale delle famiglie che non hanno più i mezzi per assicurarsi beni e servizi essenziali per vivere dignitosamente. Il Sud più in difficoltà con Basilicata, Sicilia e Calabria.
Un pasto alla mensa dei poveri. Nelle strutture della Caritas è aumentato il numero degli italiani
ROMA - Sono 8 milioni e 272mila le persone povere in Italia, il 13,8% dell'intera popolazione. E' quanto fa sapere l'Istat, aggiungendo che nel 2010 le famiglie in condizione di povertà relativa sono 2 milioni e 734 mila, l'11% delle famiglie residenti. L'Istituto spiega che si tratta di quelle famiglie che sono cadute al di sotto della linea di povertà relativa, che per un nucleo di due componenti è pari ad una spesa mensile di 992,46 euro. Nel complesso, il 18,6% dei nuclei familiari italiani sono poveri (11%) o quasi poveri (7,6%).Povertà assoluta - Il dato che più fa paura è quello che riguarda le famiglie che risultano in condizioni di povertà assoluta: sono un milione e 156mila, il 4,6% di quelle residenti nel paese, per un totale di 3 milioni e 129mila persone, il 5,2% della popolazione. L'Istat spiega che sono considerate assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore a quella minima necessaria per acquisire l'insieme di beni e servizi considerati essenziali per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Si tratta, quindi, spiega l'Istituto dei "più poveri tra i poveri".
I non poveri a rischio - Anche tra le famiglie non povere esistono poi gruppi a rischio di povertà; si tratta delle famiglie con spesa per consumi equivalente superiore, ma molto prossima, alla linea di povertà: il 3,8% delle famiglie residenti presenta valori di spesa superiori alla linea di povertà di
Chi peggiora - L'Istat rileva una sostanziale stabilità del fenomeno, sia relativo che assoluto, a rispetto al 2010, ma anche un peggioramento per alcune fasce della popolazione. Al Sud, ad esempio, quasi una famiglia numerosa su due è povera. I dati indicano infatti che la povertà relativa aumenta tra le famiglie di 5 o più componenti (dal 24,9% al 29,9%), specie se i figli sono piccoli; tra quelle con membri aggregati, ad esempio quelle dove c'è un anziano che vive con la famiglia del figlio (dal 18,2% al 23%), e di monogenitori (dall'11,8% al 14,1%). E la condizione delle famiglie con membri aggregati peggiora anche rispetto alla povertà assoluta (dal 6,6% al 10,4%). In particolare, fa notare l'Istituto, nel Mezzogiorno l'incidenza di povertà relativa cresce dal 36,7% del 2009 al 47,3% del 2010 tra le famiglie con tre o più figli minori. Quindi, quasi la metà di questi nuclei vive in povertà relativa.
Il divario Sud-Nord - Dal punto di vista geografico, le regioni più povere sono Basilicata (28,3%), Sicilia (27%) e Calabria (26%). Nel Mezzogiorno, il fenomeno ha un'intensità del 21,5% e la spesa media mensile equivalente delle famiglie povere scende a 779 euro. Nel Nord e nel Centro i valori sono più alti - 809,85 e 793,06 euro rispettivamente - nonostante l'aumento dell'intensità osservato tra il 2009 e il 2010 (dal 17,5% al 18,4% nel Nord e dal 17,4% al 20,1% nel Centro) a causa della recessione. La Lombardia e l'Emilia Romagna sono le regioni con i valori più bassi dell'incidenza di povertà, pari al 4,0% e al 4,5% rispettivamente. Si collocano su valori dell'incidenza di povertà inferiori al 6% l'Umbria, il Piemonte, il Veneto, la Toscana, il Friuli Venezia Giulia e la provincia di Trento.
Operai e autonomi - Lo studio conferma il legame della povertà con il basso livello di istruzione e con la presenza (e la qualità) dell'occupazione: la diffusione della povertà tra le famiglie con a capo un operaio o assimilato (15,1%) è decisamente superiore a quella osservata tra le famiglie di lavoratori autonomi (7,8%) e, in particolare, di imprenditori e liberi professionisti (3,7%).
Sarà vero come si legge in internet che esiste una casta di garantiti proprio tra chi ci chiede nuovi sacrifici???? alcuni esempi da verificare.....facendo la manovra......
Tutti i costi della politica che la manovra non taglia
Dopo il discorso di Giulio Tremonti al Senato e l’approvazione della manovra alla Camera, si è parlato molto dei mancati tagli alla politica. Cinque infografiche de Linkiesta raccontano chi sono, quanto costano e quanto lavorano i parlamentari italiani.
E un precario della Camera svela su Facebook i segreti della casta
E un precario della Camera svela su Facebook i segreti della casta
I costi della Camera dei Deputati, voce per voce
Se si potesse dividere per 630 onorevoli, ognuno costerebbe oltre un milione e mezzo. Ma su questa cifra record (in aumento nel prossimo triennio) gravano affitti, pensioni, spese di segreteria e per il cerimoniale, sei milioni di ristorante e dieci di software per i computer.
Scopri, voce per voce, come i costi del Parlamento superano il miliardo di euro l'anno.
Quanto si lavora in Senato? 40 ore al mese
In Senato, dall’inizio della legislatura in aula hanno presenziato per circa 1415 ore totali. Quanto un dipendente medio lavora in circa 8 mesi, solo che la legislatura sta per compiere tre anni.
Alla Camera si lavora 15 ore alla settimana
Tra indennità, diaria e rimborsi vari poco meno di tredicimila euro. Non troppo lo stress: le sedute in un mese sono circa 13 e dall’inizio della legislatura (nel 2008) sono state 464.
I parlamentari guadagnano di più, ma studiano di meno
I 945 parlamentari italiani guadagnano sempre di più ma i laureati sono sempre meno. La nostra infografica ricostruisce i loro guadagni e i titoli di studio dalla prima legislatura a quella attuale. Nel 1948 quelli con la laurea erano circa il 90% ma in quella attuale sono scesi al 65%. I compensi invece hanno avuto una direzione contraria.
I parlamentari sono sempre più vecchi e di "professione"
Nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica nel Parlamento italiano sono aumentati i manager (+11,5%) mentre il numero di operai è sceso (-2,4%). Contrariamente alle aspettative sono cresciuti i politici di professione (+2,6%). Dal 1946 ad oggi poi quelli che hanno lasciato l'emiciclo per andare in pensione sono il 5,6% e quelli che lo hanno lasciato per andare in prigione il 2,7%. Se eletti, la vita cambia davvero e infatti il 57,4% degli ex parlamentari non torna all'occupazione di partenza. In compenso la loro età media continua ad aumentare.
Così esordisce la prima soffiata da Montecitorio che mette piede su facebook. Una pagina eloquente, «I segreti della casta di Montecitorio», una promessa chiara, rivelare: «indiscrezioni e segreti che nessuno osa far uscire fuori dal Parlamento italiano». Chi o cosa ci sia dietro questa pagina facebook, attiva da poche ore ma già capace di macinare «like» uno dopo l'altro, nessuno lo sa. Però gli argomenti sono quelli da casta, capaci di far infuriare i cittadini e generare una valanga di condivisioni sul social network più conosciuto al mondo.
Si parte da cose minimali: «indovina-indovinello: i 9 barbieri che lavorano nella barberia di Montecitorio, guadagnando 11mila euro al mese sudati tagliando in media 2 o 3 teste gloriose al giorno - si legge - come mai parlano tutti lo stesso accento? E come mai è lo stesso accento dell’allora presidente della Camera che li assunse attraverso un bel concorso pubblico trasparente come i suoi capelli? Chi era costui?». Più che accuse: lance intinte nel curaro, scoccate contro i parlamentari senza distinzione di casacca.
Si prosegue con lo status symbol per eccellenza del potente: la scorta. «Nel mentre il deputato svolge li suoi interminabili incontri pubblici, mi capitava a volte di chiacchierare con alcuni agenti delle forze dell’ordine preposte al «servizio scorte» del Viminale - racconta la soffiata di Montecitorio -. In tanti esprimevano un forte senso di frustrazione nel dover svolgere mansioni particolare mortificanti. Il mio «amico di sventura», il caposcorta del deputato aveva iniziato la carriera nella squadra mobile di Palermo ed era finito ad accompagnare la moglie del deputato a fare la spesa tutte le mattine, mentre la sera gli toccava portare il deputato a casa dell’amante o ai festini in giro per le ville dei Parioli». E ancora, parla di un meccanismo che definisce «collaudato» per ottenere la scorta con tanto di auto blindata: «Basta trovare una persona fidata che si prenda l’impegno, con le dovute precauzioni di intracciabilità, di inviare una lettera anonima di insulti e minacce, meglio ancora anche verso i familiari, riportando alcuni dettagli della vita privata (il nome della scuola del figlio, ad esempio).
E infine, i viaggi pagati dal contribuente: «C’è un’agenzia di viaggio all’interno di Montecitorio, alla quale tutti i deputati si rivolgono per fare qualsiasi biglietto aereo (naturalmente gratis) da e per qualsiasi destinazione italiana. La prima volta che sono andato a fare i biglietti, il funzionario parlamentare adibito all’agenzia (7mila euro al mese) mi ha chiesto il codice millemiglia, che con accortezza il deputato-padrone mi aveva fornito. Cosa ho scoperto? Che lor signori non solo si fanno i viaggi gratis, ma con quei viaggi accumulano punti su punti che poi utilizzano per far viaggiare gratis anche mogli, amici e parenti sui voli». La prossima puntata sarà sui pianisti, i parlamentari che votano al posto degli assenti.
(Molte di queste vicende sono già note all’opinione pubblica grazie al bestseller La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo.)
sabato 16 luglio 2011
Le condizioni tariffarie esclusive della TIM per i parlamentari italiani
Questo invece sono le condizioni tariffarie riservate per i deputati!!sono del 2008, oggi sono ancora più vantaggiose! Anche qui, mica possono spendere come i comuni mortali!!! l'unico negozio abilitato ad attivare questa tariffa è il negozio tim in Largo Chigi: mostri il tesserino parlamentare ed ecco per te la tariffa DEPUTATI
Un ufficio in ogni casa! non solo in parlamento, anche al domicilio dei portaborse!
Che sono tutte queste carte intestate della Camera dei Deputati?
Il deputato, o chi per lui, manda un fax allo 06/6760XXX, servizio cancelleria camera dei deputati, e chiede di far recapitare a qualsiasi indirizzo in qualsiasi parte dell'Italia, uno stock di cancelleria. Dopo pochi giorni arriva un camion con cartoni pieni zeppi di materiale non solo cartaceo ma di qualsiasi genere, un vero e proprio ufficio che lui sceglie di impiantare non solo presso i suoi uffici, ma anche a direttamente a casa dei suoi portaborse, così potranno anche fare a qualsiasi ora del giorno e della notte, un pò di lavoro a domicilio.
Non c'è limite alla provvidenza, il camion sbarca anche sull'isola dell'arcipelago intorno alla Sicilia, nella sua seconda come nella sua terza casa, tanto chi se ne frega.....pagano i cittadini.
I noti ladri che si aggirano a Palazzo Marini, sede degli uffici dei singoli parlamentari.
Qui di ladri non ce ne sono tanti, ma uno solo, che però risulta molto più scaltro dei tanti parlamentari che sopravvivono con "solo" 14.000 euro al mese. Lui intasca dalla Camera dei deputati all'incirca 2 milioni di euro al mese.
Lo scandalo già alcuni anni fà venne fuori.
In pratica la camera dei deputati paga 25 milioni l'anno per l'affitto dell'intero Palazzo Marini, per 20 anni.
Il palazzo è stato comprato con un mutuo, le cui rate vengono pagate dalla Camera dei Deputati.
Il vero scandalo non è solo pagare per questo palazzo qualcosa come 150 stipendi parlamentari al mese, o 2000 stipendi normali, ma è anche e soprattuto nella misera funzionalità di questa struttura.
Qui infatti hanno gli uffici i parlamentari sfortunati: i segretari di partito, i capigruppo, i presidenti di commissione hanno gli uffici all'interno di Montecitorio, ma essendo gli spazi limitati restavano qualche centinaio di deputati da sistemare.
Questi li hanno spediti a palazzo Marini, che è in piazza San silvestro, sono 500 metri o poco meno da Montecitorio, ma essendo che i parlamentari sono a Roma solo dal martedì pomeriggio al giovedì per le votazioni, ed essendo il loro mestiere in quei giorni incentrato essenzialmente nel premere il pulsante del voto al suono della campana, non possono permettersi il lusso di allontanarsi così tanto.
E così quel palazzo è sempre vuoto, spettrale, cammini per centinaia di metri per i suoi labirintici corridoi senza trovare mai un'essere umano, un segno di vita.
I corridoi sono sempre vuoti, le tasche degli affittuari invece sono sempre piene!
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