Vergini come marito e moglie.
di Luigi Giussani - Antonio Sicari
Domenica 22 febbraio ricorre il decimo anniversario della scomparsa di monsignor Luigi Giussani. Per gentile concessione dell’editrice Jaca Book, riproponiamo di seguito ampi stralci della sua “Conversazione sul matrimonio” con il teologo Antonio Maria Sicari. Il dialogo è contenuto in Breve catechesi sul matrimonio (1990), libro firmato dallo stesso Sicari.
Per poter dare a questo mio libro sul matrimonio una conclusione viva, ho chiesto a monsignor Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, di poter rivedere con lui, conversando, almeno le pagine più decisive. Il motivo della scelta è per me ovvio: tra tutti i sacerdoti che conosco, nessuno sa parlare, come lui, della verginità cristiana. (…) Questo amore immediato a Cristo – il saper vedere l’intera creazione e gli uomini tutti come segni di Lui, e amarLo attraversando ogni altro amore ed ogni altra affezione – è la «verginità». (…)
Sicari (S.). Vorrei iniziare la nostra “conversazione sul matrimonio” riprendendo la frase di S. Agostino posta in apertura a questo libro: «Quid tam tuus quam tu? Sed quid tam non tuus quam tu, si alicuius est quod es? – Che cosa è così tuo come te stesso? Ma che cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a un altro?». (…) Questo ci porta subito al cuore del problema, al tema della appartenenza nella sua forma più totale e radicale…
Giussani (G.). Sì, questa frase sintetizza, anche per noi uomini, una delle intuizioni più profonde: che il contenuto della propria autocoscienza si svela nella appartenenza a un altro e come appartenenza a un altro. Ciò è evidente soprattutto nel bambino: tutta la coscienza che egli ha di sé è nella appartenenza, sperimentata come un bene, al padre e alla madre. Altrimenti viene impedito lo stesso sviluppo della sua coscienza.
S. Parliamo ora della “appartenenza coniugale”, quella che comincia a realizzarsi fin dal primo innamoramento…
G. Per una persona adulta, anche se molto giovane, l’appartenenza a un altro essere umano non è il primum; per prima cosa viene il sentimento di sé, della propria personalità. Quanto più questo sentimento di sé è profondo e vero, tanto più si è capaci di appartenere a un altro. Ma qui scopriamo il segreto più interessante: che per avere un sentimento di sé che sia dignitoso, consistente, operativo – direi quasi “definitivo” della propria persona – bisogna percepire una appartenenza ancora più originale: quella nei riguardi di Cristo, di Uno che ci redime dalla nostra fragilità, dallo sgomento della precarietà. (…)
S. Torniamo per ora alla fase ancora istintiva, ancora immediata e non riflessa: uno sente il bisogno di appartenere totalmente alla persona di cui si va innamorando; come questa prima evidenza può diventare pedagogia a scoprire o a riscoprire quella più radicale appartenenza di cui parliamo? Qual è il cammino da percorrere?
G. La strada unicamente percorribile mi sembra quella dello stupore. Ecco: se nasce lo stupore dell’incontro fatto, in esso è implicito il senso di una Grazia, di un dono. Infatti si tratta di una appartenenza nuova che nasce da circostanze non programmate, non previste. Ma occorre una certa sensibilità, una certa semplicità di cuore per accorgersene. Anche in tal caso, però, non è possibile scoprire tutto il valore di quel presentimento o di quello stupore, se non si incontra un maestro e una compagnia nei quali sia già viva la coscienza che tutto ci è donato da Dio. (…) Nel frastuono di oggi, quello stupore spesso appena accennato, difficilmente riesce ad approfondirsi. Tutto diventa subito abituale, tutto è dovuto, meccanico. Per questo è sempre necessario un incontro ulteriore, l’imbattersi in una realtà già cosciente delle implicazioni più profonde.
S. Una realtà che educhi: una comunità? Un prete? Un’altra coppia di sposi? Una persona consacrata?
G. La comunità cristiana è certo un luogo dove le implicazioni contenute in quel primo stupore possono essere esplicitate: nelle conversazioni, nei raduni, in qualche esperienza in cui si colgono accenti che spalancano un orizzonte nuovo. Ma resta indispensabile poi un incontro personale: non importa che sia un prete, uno sposato o uno che ha scelto di vivere verginalmente; importante è che si tratti di una persona che abbia fatto una vera esperienza affettiva verso Dio. Certo, un prete o un vergine dovrebbero essere più criticamente consapevoli di questo passaggio.
S. Ma questa persona «criticamente consapevole» che cosa (…) deve far percepire a due ragazzi che provano semplicemente lo stupore, la gratitudine per un incontro d’amore accaduto così naturalmente?
G. Dovrebbe far percepire loro due cose. Anzitutto che la stoffa dell’avvenimento, del loro incontro d’amore, è la Grazia: dono fatto da un Altro a cui appartengono il mondo e le persone tutte, e che, attraverso le sue vie misteriose, ha provocato quell’incontro mobilitando un numero infinito di circostanze apparentemente casuali; e in tal modo Egli ha creato “per te” un momento pieno di senso e di sentimento. In secondo luogo, l’educatore dovrebbe far percepire la profezia contenuta in quello stesso incontro: lo stupore cioè promette una appartenenza e un possesso che diventeranno tanto più forti, tanto più ricchi, quanto più saranno vissuti nella obbedienza al grande Signore, scoperto come origine della Grazia.
S. Tuttavia questa duplice scoperta (della creaturalità stupefatta e della promessa di un compimento sovrabbondante) resta a livello di semplice “senso religioso”. Ma come si può far percepire a due ragazzi innamorati anche il volto personale di Cristo?
G. Vedi, (…) se due ragazzi non solo si incontrano tra loro, ma incontrano anche chi svela il loro senso del loro amore, già fanno una esperienza della incarnazione di Cristo: è infatti Cristo che li raggiunge nel mistero della sua Chiesa, nella presenza del suo “testimone” o ministro.
S. Accade però che i ragazzi ti dicano: noi il nostro amore lo sentiamo molto concretamente, mentre l’amore di Cristo è così vago, così “spirituale”…!
G. Che Cristo faccia sentire la sua concretezza corporea, risorta, anche questo è una sua grazia… una grazia che poi verrà sempre più confermata: negativamente dalla percezione dei limiti dell’amore umano, della fragilità, della precarietà inevitabile eppure dolorosa; e, positivamente, dal fatto che è sempre possibile addentrarsi più profondamente in quel segno, in quel “sacramento” che è l’amore tra uomo e donna.
S. Ogni uomo dunque porta in sé una tale profondità, nella quale l’incontro con Cristo si fa sempre più concreto man mano che uno vi si addentra?
G. È una profondità che viene spalancata dall’amore umano, e che Cristo può usare misericordiosamente per farsi percepire. È come l’albore del giorno escatologico, come anticipo di una appartenenza e di un possesso infiniti. D’altra parte in ogni esperienza stabile di amore, nella vita concreta di ogni famiglia, ci si accorge che il possesso è tanto più potente, profondo e vero quanto più viene attuato in un distacco. (…) Il distacco supremo viene raggiunto là dove lo sguardo d’amore si porta direttamente sul Destino dell’altro. Nella vita della famiglia dapprima il distacco è consigliato e quasi esigito dagli inevitabili limiti e dai pesi conseguenti, che tante volte possono anche generare stanchezza e incapacità a perseverare nel rapporto. Ma proprio per attraversare anche questa stanchezza e queste delusioni, proprio per riscattarle, l’unica modalità razionale è quella di seguire la logica ultima dell’amore che è la passione per il Destino dell’altra persona. (…)
S. Se c’è una evidenza naturale che Dio ci ha donato (nel dono stesso della nascita, del nostro esser stati bambini, del nostro aver avuto una famiglia) è proprio questa: che l’appartenenza è una cosa buona e che è proprio essa a rendere possibile la libertà. Che cosa poi interviene a rovinare questa prima evidenza? L’adulto che dice orgogliosamente: libertà significa “non appartenere”, non dipendere da nessuno; appartenere e dipendere sono soltanto umiliazione, schiavitù… Che cosa gli è accaduto?
G. Potremmo vedervi una prova del peccato originale, inteso come ciò che ha reso possibile una tale distorsione. Ma la ragione più immediata è la ineducazione, anzi la contro-educazione: i doni che ci vengono dalla natura, se non diventano evidenti nelle loro ragioni, restano atrofizzati: vengono usati in modo meschino, fragile, oppure senza nessuna discrezione: subiscono, in ogni caso, violenza. E questo succede inevitabilmente quando la realtà umana non incontra Cristo: la natura senza Cristo viene anchilosata, si obnubila, si altera. (…) È piuttosto un plagio operato dalla mentalità dominante; un plagio che innesta la sua menzogna sulla ineducazione, e quest’ultima tanto più si dilata quanto più retrocede l’influsso della Chiesa. Ciò coincide con l’assenza di ragioni, con l’oscurarsi della coscienza, con la sua restrizione. Su questa restrizione poi la società sviluppa il suo potere.
S. È per questo che oggi il potere ha interesse a distruggere i legami familiari stabili?
G. L’interesse del potere è duplice: prima di tutto, distruggendo questa primordiale unità-compagnia dell’uomo, il potere riesce ad avere davanti a sé un uomo isolato: l’uomo solo è senza forza, è privo del senso del destino, privo del senso della sua ultima responsabilità: e si piega facilmente al dettato delle convenienze.
S. Quindi dietro a tutti i cedimenti sociali a riguardo della famiglia (aborto, divorzio, convivenze, permissivismo sessuale ecc.) c’è sempre uno stesso scopo: quello di far dimenticare che libertà e appartenenza sono la stessa cosa…
G. Certamente, perché così l’uomo resta un pezzo di materia, un cittadino anonimo. La famiglia è attaccata per far sì che l’uomo sia più solo, e non abbia tradizioni in modo che non veicoli responsabilmente qualcosa che possa esser scomodo per il potere o che non nasca dal potere. La seconda ragione, più profonda, è questa: che distruggendo la famiglia si attacca l’ultimo e più forte baluardo che resiste naturalmente alla concezione culturale che il potere introduce, di cui il potere è funzione: vale a dire, intendere la realtà atomisticamente, materialisticamente, una realtà in cui il bene sia l’istinto o il piacere, o meglio ancora il calcolo.
S. Io penso che il problema più grave della Chiesa di oggi stia nel modo in cui molti cristiani concepiscono il rapporto tra natura e soprannatura: o in modo spiritualistico (in cui la fede non c’entra con la vita concreta) o in modo moralistico (la fede c’entra, ma solo come sostegno etico di un progetto naturale). In ambedue i casi si dimentica l’innesto sostanziale con cui Dio ha legato assieme ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale, in modo indissolubile, in un unico ordine. Ora a me sembra che proprio per questo motivo il futuro della fede si giochi nella famiglia. Il matrimonio è l’unica realtà naturale che diventa soprannaturale (sacramento) per il solo fatto di essere il gesto di due battezzati. (…) Il matrimonio-sacramento è il punto della storia in cui la realtà naturale e quella soprannaturale più perfettamente si innestano l’una nell’altra senza confondersi, in forza del battesimo, in forza della fede.
G. Vuoi dire che proprio là dove la natura più si esprime, più dimostra di essere stata indissolubilmente legata con la soprannatura…
S. Sì, nella famiglia la natura umana si esprime in tutta la sua concretezza: ogni cosa, anche la più materiale (la casa, il lavoro, il cibo…), tutto viene finalizzato e umanizzato. Per questo credere che il matrimonio è un sacramento suggerisce anche un modo totalizzante di considerare il proprio essere cristiano: impedisce alla radice ogni dualismo, ogni falso spiritualismo. Cosa manca allora nel modo abituale con cui si educano i giovani a capire il sacramento del matrimonio?
G. Manca la fede nella sua vera natura. C’è nel migliore dei casi una preoccupazione morale dignitosa e un vago sentimento di soggezione a Dio. Invece occorrerebbe guardare alla famiglia come all’esempio più impressionante della Incarnazione. (…)
S. Proprio qui io credo che si innesti nel modo più autentico la problematica morale. La morale cristiana non è possibile, non è liberante, se non nasce da uno stupore davanti al dono di Dio, se non è risposta umile e generosa alla grandezza del dono che Dio ci fa. Dunque bisogna prima educare i cristiani allo stupore davanti al miracolo del loro matrimonio. Ma cos’è che fa percepire come buona, percorribile, la concreta legge morale: quella, ad esempio, che governa la vita sessuale?
G. Per amare la morale cristiana e osservarla, bisogna essere coinvolti concretamente nel fatto di Cristo, bisogna che Cristo sia divenuto veramente il Signore di tutti, fino ad amare obbedientemente le leggi che Lui ha messo nella sua creazione. Bisogna che in casa domini Cristo.
S. Eppure è sempre più frequente trovare dei cristiani, anche tra i nostri amici, che sono infastiditi dal fatto che il Papa parli spesso della morale sessuale. Dicono che ormai quelle cose non le capisce più nessuno (…) e non è più possibile partire dall’etica o insistere subito su questo.
G. Io non sono affatto d’accordo. E per due motivi diversi, anche se legati tra loro. Il primo è che il Papa insiste sugli aspetti fondamentali, essenziali per la costruzione di ogni società: il valore della persona, della ragionevolezza, dell’“atto”. Si tratta dell’uomo; è la natura dell’uomo che è in gioco in quei problemi sessuali che sembrerebbero così particolari. Il secondo motivo è che un cristiano, quando riflette sulle indicazioni del Magistero, anche se gli sembra che esso parta da lontano, è costretto subito a ritrovare l’imponenza di Cristo sulla sua vita.
S. Ma è giusto dire che, per una nuova evangelizzazione, è necessario partire non dall’etica ma dall’estetica?
G. Non bisogna semplificare troppo. Proprio questo Papa che spinge alla nuova evangelizzazione parla molto dell’etica sessuale, perché essa tocca ora i punti fondanti, quelli in cui è salvata la dignità stessa della persona umana. E questo è già un fatto profondamente estetico, perché se è salva la santità della persona, allora lo splendore della presenza di Cristo nel mondo colpisce. La morale, quando tocca i fondamenti dell’esistenza, è l’estetica di ciò che è dato, della creazione, del dono. Si tratta di rimettere in gioco lo stupore della creazione, la verità della creazione. La moralità rende la persona sintonica al movimento della creazione in cui essa si trova coinvolta; allora rinasce lo splendore della creazione. Lo splendore è là dove la moralità è salvata.
S. (…) Si dice: bisogna riproporre il fatto di Cristo, non un’etica.
G. Ma se non si giunge a un’etica, non si comprende il fatto di Cristo. Non si è coinvolti nel fatto, se non si entra nel movimento morale che il fatto implica.
S. A volte però si sente dire, anche da persone autorevoli: se fosse per le indicazioni morali, io non starei nel cristianesimo, perché sarebbe solo addossarsi altri pesi. Ci resto perché mi dà gioia, soddisfa le mie esigenze…
G. Io sto nel cristianesimo perché è la verità; perché riconoscere il fatto di Cristo e la sua presenza mi converte, mi sospinge, mi attira a cambiare il mio modo di entrare in rapporto con tutte le cose, mi fa diventare più vero fin nei particolari. Incontrando il fatto cristiano, anche il rapporto affettivo diventa più doloroso e più vero: si accetta una maggiore “dolorosità”, perché lo si vuole più vero. Quando una donna vuole bene ad un uomo, se lui viene mandato dalla sua ditta per sei mesi in America, lei l’attende, è tesa a lui, gli resta unita. Il fatto stupefacente del loro amore, della loro unità è dentro la serietà etica della loro reciproca attesa.
S. Vuoi dire che c’è un livello della questione in cui “etica” ed “estetica” coincidono?
G. Io direi che la vera estetica è quella che nasce da un destino percepito come immanente al movimento della realtà. La vera estetica è sempre etica.
S. È, secondo te, importante predicare anche oggi ai fidanzati la castità prematrimoniale, senza sconti o concessioni di alcun tipo?
G. Ma certo! Perché senza verginità non imparano a possedersi veramente: possedere è amare e, nel gesto, cercare e amare il Destino dell’altro. Il gesto dev’essere determinato dal destino dell’altro. Il gesto si fa se è necessario per adempiere il compito che il Destino assegna.
S. Appunto, ci sono perfino preti che sostengono che i gesti intimi dell’amore sono necessari ai fidanzati, per conoscersi meglio, per prepararsi…
G. È un giudizio squallidamente sentimentale. Il dire che si vogliono bene è un artificio. Voler bene è desiderare il Destino, cioè desiderare che Cristo venga. Ma Cristo viene attraverso le circostanze della vita, integralmente rispettate nella loro natura. E la natura del fidanzamento è la promessa, non l’anticipazione furtiva e limitata. Altrimenti accade proprio quello che dicevamo prima. Dicendo a due fidanzati: «… purché vi vogliate bene!», si separa il Destino dai «fatti». Si sciupa sia il momento estetico che quello etico.
S. Che cosa vuol dire propriamente che «sposarsi significa assumersi la vocazione dell’altro come propria»?
G. Significa che ognuno dei due sposi non può più realizzare il compito che Dio gli ha affidato (cioè, costruire la Chiesa) se non nell’unità con l’altro.
S. Spesso però accade che uno dei due si sottrae volontariamente a questo servizio ecclesiale. Allora l’altro, che pur lo desidera, come può realizzare la sua vocazione?
G. L’unità non è necessariamente corrispondenza. L’unità è la verità del legame con l’altro; è la fedeltà nonostante tutto. Se penso alla fedeltà di certe donne praticamente abbandonate!…
S. Quando a un coniuge succede di esser proprio, fisicamente, abbandonato, di restar solo, che senso ha ancora la fedeltà?
G. Il senso si può trovare solo scoprendo l’aspetto “verginale” della propria vocazione. Nota bene che questo aspetto era presente anche prima, anche quando il rapporto perdurava. Era già l’essenza del rapporto coniugale. Nella drammaticità ingiusta dell’abbandono, l’aspetto verginale emerge con una evidenza dolorosa, ma comunque capace di essere salvifica.
S. Come spiegheresti meglio questo valore a chi sente soltanto la ferita dell’abbandono?
G. La vocazione è un compito a favore della Chiesa, che Dio ci affida attraverso le circostanze della vita. Ci sono due compiti fondamentali: il matrimonio che ha la funzione di generare nuovi esseri (questo è il suo significato profondo, anche se oggi molti lo vogliono far passare in seconda linea) e la verginità che ha invece la funzione di richiamare tutti alla “forma ideale”. Per questo chi vive veramente il matrimonio cristiano ha una grande stima di chi nella Chiesa incarna la vocazione verginale. Tornando al caso del coniuge abbandonato: accade che, attraverso la contingenza terribile dell’abbandono, uno è chiamato ad andare fino in fondo al valore su cui il suo matrimonio era costruito: l’essere funzione di Cristo per costruire la Chiesa. Si tratterà allora di vivere l’attesa, apparentemente sterile, con profonda umiltà, accettando una situazione di verginità, che sembra soltanto imposta, in quanto essa non è solo un “incidente”, ma chiede di scoprire la salda radice. È su questa “verginità radicale” che bisognerà costruire la propria pace, la propria missionarietà, il dono di sé alla Chiesa. (…)
S. Molte nostre famiglie cominciano con un buon impeto ideale, ma poi facilmente scadono nell’abitudine, nella stanchezza, nella noia. Cosa è che impedisce all’ideale del sacramento di diventare esperienza quotidiana?
G. Il fatto che l’impeto ideale spesso non è fondato nella fede. Non accade loro quello che diceva Mounier: «Occorre soffrire perché una verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».
S. Prova invece a descrivere una famiglia «fondata sulla fede».
G. Una coppia cristiana nasce, come tutte le altre, dalla affezione. Ma per due credenti l’affezione è il suggerimento di Dio che dice: «Vi voglio insieme». Dunque: che Dio voglia che siamo assieme per affrontare la vita e per camminare assieme verso il destino, questa è l’essenza del perché io ti voglio. In tal caso, la scoperta dei limiti, il rischio dell’abitudinarietà, tutto è sottoposto a vigilanza. La rovina o la povertà di tanti matrimoni cristiani dipendono da una duplice causa: la prima è che i due non hanno veramente iniziato nella fede. La fede era una intenzione, non una ascesi, non una “sofferenza” (nel senso di Mounier) che facesse nascere la verità dalla carne. La verità del loro rapporto è partecipare al mistero di Cristo, fare la volontà del Padre celeste: ma queste cose sono state sentite come astratte o addirittura ripugnanti. In secondo luogo, i due hanno continuato a credere che quello che importava era il loro volersi bene. Invece era importante il cambiamento del loro volersi bene: convertire l’esperienza del loro volersi bene, scendendo nella profondità del fenomeno, fino a scorgervi la Grazia che vi inabita, e assorbirla.
S. Qual è per una coppia, per una famiglia il test che indica se questo cambiamento è davvero avvenuto?
G. Il test è semplice: che nella loro vita non esiste più l’“obiezione” e, dunque, l’abitudine non logora.
S. Quindi, se due persone dicono: «Più il tempo passa, più ci vogliamo bene» è segno che è avvenuta la conversione di cui parli?
G. È una indicazione, ma ancora imperfetta: bisogna inoltre vedere come questo loro amore si rapporta con la Chiesa. Devono avere coscienza che la loro unità implica tutte le famiglie del mondo; e questo si manifesta con una passione perché tutte le famiglie del mondo conoscano ed amino Cristo. Devono avere cioè una tensione “comunionale” e “missionaria”.
S. Non penso che il tuo discorso coincida con quello che attualmente si fa parlando di una “famiglia aperta”…
G. Spesso questa è una espressione usata in senso molto moralistico, sociologico, che non tocca la sostanza del rapporto. La sostanza consiste nel fatto che l’apertura sia passione perché il mistero di Cristo faccia diventare una cosa sola tutti gli uomini, tutte le famiglie. È la passione perché Cristo sia conosciuto. È la passione per la Gloria di Cristo. (…)
S. Quali indicazioni pratiche daresti?
G. Io dico sempre due cose: anzitutto che anche nei momenti peggiori, anche se due coniugi si fossero picchiati un momento prima, che dicano sempre una “Ave Maria” alla Madonna, assieme. Anche se si odiano, che la dicano! In secondo luogo: che si richiamino con l’esempio. Se uno vede l’altro che dice il Rosario, anche se lui è stanco e non ha voglia di dirlo, sente tuttavia un richiamo che gli fa bene. Oppure: uno va a far la Comunione e l’altro no, però è un richiamo. Anche se non sembra, c’è qualcosa che ogni volta li lega assieme. È sempre “preghiera comune”, almeno un po’. Anche la preghiera comune “esplicita” è utile, ma non in modo asfissiante. Non bisogna fare come certi fidanzati che “pregano insieme”, però non pregano loro.
S. Parliamo un po’ dei bambini. Incontrando molte coppie, alcune in crisi, io mi sono convinto che una delle carenze più gravi è questa: trattano i problemi della fedeltà, della indissolubilità del loro legame, come se si trattasse solo di “valori” ideali, di “leggi”. Non hanno mai capito che prima di essere delle “idee” sono dei “fatti”: i figli sono l’indissolubilità vivente della coppia, la fedeltà fatta carne. (…) Il bambino “giudica” tutte le ideologie, tutti i cedimenti che si fanno sul matrimonio. La fatica ad accogliere i figli, la voglia di averne il meno possibile dipende forse anche dalla incapacità dei coniugi di stare fino in fondo di fronte al mistero e al significato della propria unità.
G. La difficoltà ad accogliere i figli nasce dal calcolo: se io sono la misura di tutto, allora è giusto misurare anche i figli (non solo nella quantità, ma perfino nella qualità). La fede invece ci dice proprio il contrario: che io non sono mio, ma di un Altro. Solo da questa persuasione è resa possibile una procreazione responsabile, nella quale entra anche il calcolo, perché la ragione è anche questo. Ma non in modo egoistico. Piuttosto come voglia di “rispondere” nel modo più vero e giusto possibile alle attese di Colui al quale appartengo e per il quale metto al mondo i figli. Il dialogo dei due coniugi è per dare questa risposta: offrono a Dio la loro unità “creativa”, “generosa” (c’entra la parola “generare”) e ricevono il figlio che incarna questa stessa unità. Nel figlio saranno uniti per tutta l’eternità in un modo nuovo, irripetibile, diverso da ogni altro; come dicevi tu: una unità fatta carne, fatta persona. (…)
S. Cosa suggeriresti a due cristiani che si ritrovano con un matrimonio rovinato, per loro stessa colpa?
G. Cercherei prima di tutto di prenderli separatamente e di coinvolgerli in una realtà in cui ritrovino il respiro per l’ideale: in una comunità, in una compagnia. La possibilità di rimetterli assieme è tutta nel farli crescere in una fede viva e operosa: se crescono nella fede, si accorgeranno anche dei sacrifici da fare per riscattare il loro sacramento e cominceranno a desiderarlo, anche se fanno fatica. Altrimenti è un moralismo insopportabile. Una possibilità di ricostruire c’è sempre, se ambedue accettano, in qualunque modo, di crescere. Ma non ci si può abbandonare al caso, sperando che cambino i sentimenti. (…)
S. Capita mai, a te che sei affascinato dal mistero della verginità cristiana, di invidiare qualche coppia ben riuscita di coniugi?
G. Sarei tentato di dire: mai. Ma questo non è giusto. Deve avvenire che un vergine provi una santa invidia davanti a certe coppie di sposi. (Come gli sposi devono prima o poi avere nostalgia della verginità cristiana). Ma l’unica cosa che mi farebbe “invidia” in due coniugi sarebbe una unità splendidamente espressa dal loro rapporto: veder significata con più evidenza quella unità totale con Dio, con Cristo, con tutte le persone, a cui tutti tendiamo con infinito desiderio.
S. Quindi, se tu vedessi due persone molto unite tra loro, questo ti…
G. … Questo si tradurrebbe in un impeto di desiderio di essere io più vero in quello che sono. (…
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