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lunedì 23 febbraio 2015
Il diario spirituale di Gabrielle Bossis (le prime pagine)
Lui e io di Gabrielle Bossis fu pubblicato a Parigi dall'editore Beauchesne in sette volumetti, dal 1949 al
1957 (vedi Note). Nessuno dei quaderni originali utilizzati per la stampa è stato rintracciato, eccetto il
decimo quaderno che, recentemente, è arrivato nelle nostre mani!
Sono pagine bellissime, che ci hanno emozionato con l’emozione che si sprigiona dalle “reliquie”... E ci
hanno procurato, con la loro straordinaria eloquenza grafica, la sensazione di poter quasi “ascoltare”, e
non solo leggere, quei colloqui. La grafia di Gabrielle, rapida ed elegante, lievita quando lei trasmette la
Voce di Cristo, ne traduce in qualche modo la forza e la nobiltà; spesso si arresta su una sola parola; le
maiuscole significative traboccano; i continui capoversi, le linee, le sospensioni rendono quasi sensibile
l’afflato di Colui che le parla, ce ne consegnano perfino le pause: come se la pagina fosse uno spartito,
un “Mistero sacro”, rappresentato con l’essenzialità della parola e sviluppato come una rapsodia.
Il diario di Gabrielle Bossis inizia nel 1936, con i
dialoghi trascritti sul transatlantico che la portava
in Canada per una coraggiosa tournée teatrale.
1936
22 agosto 1936 – Sul piroscafo. Durante il concerto di musica classica, gli offrivo il fascio di suoni e di
dolcezza che ne scaturiva. Lui mi ha detto piano, come una volta:
«Figliolina mia».
23 agosto 1936 – Hanno fatto un altare sul pianoforte, io pensavo ai gabbiani e agli aerei, che vengono a
posarsi sui piroscafi. Lui:
«Questa volta, è il Cristo».
Durante il penoso rollio, gli dicevo: “Lo sapete bene che tutto è per voi; allora, non ve lo dico”. Lui:
«Bisogna dirmelo, perché amo sentirmelo dire.
Dimmelo spesso: quando sai che qualcuno ti ama, sei contenta che te lo dica».
24 settembre 1936 – Canada. La cappella è accanto alla porta della mia camera, e ogni volta che ci passo
davanti gli sorrido. Lui mi ha detto:
«Sorridi a tutti. Unirò una Grazia al tuo sorriso».
3 ottobre 1936 – Nel Saskatscewan. Lui:
«Rinchiudimi nel tuo cuore con un segno di croce, come dietro a due sbarre».
4 ottobre 1936 – Montréal. Lui:
«Quando non ti raccogli, è a me che tu manchi» (con una voce così delicata).
25 ottobre 1936 – Festa di Cristo Re. Stamani, durante la messa, l’Abate mi ha consacrata a Dio posando la
mia promessa sull'altare, sotto l’Ostia. Lui mi ha detto:
«Occupati del mio amore... non c’è nessun orfano abbandonato come me».
Vicino a Quèbec. I bimbi avevano terminato i loro canti, e io gli dicevo: “Ora non vi parlo più in musica”.
Lui mi ha risposto:
«La mia musica è il tuo amore».
4 novembre 1936 – Al ritorno. Ultima messa sul ponte. Distratta dopo la comunione, ho udito la Voce soave
che diceva:
«Io aspetto».
Dicembre 1936 – In Francia. Per strada. Io: “Cammino al Vostro fianco”. Lui (dolcemente):
«Ma tu non mi parli molto...».
14 dicembre 1936 –
«Cerca di essere per tutti il mio sorriso. La mia voce amabile».
15 dicembre 1936 – Stamani alle sei meno cinque, costretta a fare rapidamente la Via Crucis prima della
messa, Lui mi ha detto:
«Pensa alla mia fretta di percorrere la Via dolorosa per andare a morire per voi».
16 dicembre 1936 –
«Esci dalle tue misure abituali: amami di più».
17 dicembre 1936 –
«Cominciamo il cielo. Amami incessantemente mentre io ti amo».
Una sera –
«Dov’è ogni Bellezza e ogni Grazia, io sono lì».
19 dicembre 1936 –
«Talvolta tu dubiti che sia Io a parlarti, talmente questo ti sembra semplice e come uscito da te stessa.
Ma tu ed Io, non siamo Uno?».
21 dicembre 1936 – Poiché gli chiedevo di dare a me e ai miei cari tutte le Grazie che tante anime rifiutano,
Lui mi ha detto:
«Le mie Grazie sono Grazie su misura, ma io sono abbastanza ricco per dartene altre. Non sono
l’Infinito?».
«Con me, sii semplice come in famiglia».
24 dicembre 1936 –
«Sii dura verso te e dolce verso gli altri».
25 dicembre 1936 –
«Nasconditi in me. Nutri il mondo con le tue sofferenze. È così che sarai la mia sposa».
26 dicembre 1936 –
«La tua immaginazione? È il cane di casa che va dappertutto.
Si può irritarsi con un cane che circola ovunque?
Fa’ come se tu non fossi stata distratta».
28 dicembre 1936 –
«Quando mi ami, ti purifichi».
«Sii per ognuno la mia Grazia».
«Ritorna a me come se non mi avessi mai lasciato. Mi farai piacere».
«Io cambio le tue preghiere in mie preghiere, ma se tu non preghi...
Posso far fiorire una pianta se tu non la semini?».
1937
1° gennaio 1937 –
«Con purezza e con semplicità, ecco il tu motto per quest’anno».
2 gennaio 1937 –
«Ti basti offrirmi l’istante presente: così, tutto l’anno sarà mio».
4 gennaio 1937 –
«Tu che ci tieni tanto ad essere pensata dai tuoi amici, come non comprendi che io tengo tanto ad essere
pensato dalle mie creature?».
5 gennaio 1937 –
«Fa’ atti di speranza. Esci da te stessa. Entra in me».
«Non giudicare. Forse tu conosci l'anima altrui?».
«Mettimi davanti a te. Prima io. Tu, dopo».
«Fa’ loro piacere per il mio piacere».
26 gennaio 1937 –
«Una sposa che non contemplasse spesso gli occhi del suo Sposo, sarebbe una sposa?».
12 febbraio 1937 –
«Certo! Conosco tutte le tue miserie poiché tu sei la mia figliolina!».
«Sapessi quanto sono sensibile alle piccole cose!…».
14 febbraio 1937 – In una corriera.
«Hai visto la mia benevolenza attraverso il volto di quella fanciulla? Sii sempre così.
Se i miei fedeli fossero buoni gli uni con gli altri, la faccia del mondo sarebbe diversa».
«Ma i tuoi desideri d’amore, sono Amore».
«Circondami d’amore».
«C’è nella tua anima una porta che si apre alla contemplazione di Dio. Ma bisogna che tu l’apra».
17 febbraio 1937 –
«Non lasciarmi senza le tue sofferenze, esse aiutano i peccatori».
19 febbraio 1937 – Castello di C.
«Non potrai venire a ricevermi nella Comunione in questi tre giorni, così lontana da una chiesa. Ma io
ti do l'appuntamento: sarà tutte le mattine al tuo risveglio».
Ahimè! L’indomani mattina stavo per dimenticare l’appuntamento, quando un uccellino è venuto a cantare
sulla mia finestra con una voce così acuta e insistente, che tutt’ad un tratto mi sono ricordata...
1° marzo 1937 – Nel Dipartimento del Rodano, alla stazione.
«Tu guardi fisso nella direzione del treno che deve arrivare. Allo stesso modo i miei occhi sono fissi su di
te, nell’attesa che tu venga a me».
In treno.
«Non restare mai senza fare nulla, mi onorerai mentre io mi occupo incessantemente di salvarvi».
Davanti alla Loira straripata.
«Sii sempre serena e calma. Il fiume riflette il cielo solo quando è calmo».
3 marzo 1937 – In treno.
«I miei tramonti... sono Amore. Le creature che li guardano per lodarmene, sono poco numerose...
Tuttavia, è Amore».
«Se tu non avessi delle “piccole” prove, come potrei darti “grandi” ricompense?».
«Io sono quello che ama di più».
Di sera.
«Nulla è piccolo per Me».
«Mostra nella tua vita che sulla terra non ci si riposa».
Metà Quaresima – Durante il corteo sono entrata in una chiesa per consolarlo. Con mia sorpresa, nonostante
le navate vuote, l’organo suonava. Un artista senza dubbio approfittato di questa solitudine per studiare. Era
come una solennità ineffabile. Lui mi ha detto semplicemente:
«Ti aspettavo».
«Vedi me negli altri. Questo ti aiuterà ad essere più umile».
9 marzo 1937 – Pensavo di uscire di chiesa all’Elevazione.
«Non andartene così presto (con tenerezza). Non potrei darti tutte le mie Grazie...».
16 marzo 1937 – A Nôtre-Dame.
«Sii tenera. Nella tenerezza, fa' il primo passo verso il tuo prossimo».
La sera, alla Benedizione, mi ha ripetuto:
«Fa' il primo passo!».
«E anche se ciò che scrivi non facesse riflettere che una sola anima!?».
In treno.
Non dire: “Gloria al Padre, al Figlio” in una maniera così vaga, ma augura loro questa Gloria attraverso i
tuoi atti».
18 marzo 1937 – A Puy-de-Dôme, portavo faticosamente i miei bagagli dopo aver passato una notte fra gli
scossoni del treno, e dicevo per le scale del sottopassaggio: “Io porto la mia croce con Te, ma Tu hai avuto
qualcuno che ti ha aiutato...” E subito un signore, dietro a me, mi ha liberata di una valigia.
Ieri – Dal dentista. Lui mi ha detto:
«Io ho sofferto tanto per te! Tu non puoi sopportare questo?...».
20 marzo 1937 – A Lozère.
«Sii amabile, buona, al di là delle tue abitudini. La sposa assomiglia allo Sposo».
«Ascoltali parlare. A loro fa bene parlare ed essere ascoltati».
Assisi. Durante un “Benedicite”, in cui ero stata molto distratta, Lui mi ha detto:
«Tu credi che sia una piccola cosa? Per me, è grande».
Pasqua 1937 – Roma, Chiesa della Minerva. Lo ringraziavo delle sue sofferenze. Lui:
«Non metterai mai nella tua riconoscenza tanto amore e gioia quanto amore e gioia ho messo io nel
soffrire per salvarvi».
Taormina, Sicilia. – Osservavo le donne che hanno un marito per sbrogliare le piccole difficoltà dei viaggi.
Lui mi ha detto:
«Ma se ci sono io, qui!…».
30 marzo 1937 – Palermo.
«Ascolta e ti parlerò. Vuoi essere la mia confidente?».
Monreale di Palermo.
«Io sono in te più che te stessa».
Nella corriera da Kairouan a Sousse.
«Ti ricordi, quando eri piccola? Ti avevo detto: “Raccontami ciò che hai fatto oggi”. Ma non avevi
creduto che fosse la mia voce».
8 aprile 1937 – Sousse.
«Rendi il bene per il male. Non perderne una sola occasione».
9 aprile 1937 – Tunisi.
«Io sarò il tuo sorriso di oggi».
Tunisi, nella chiesa del Sacro Cuore.
«Perché gli uomini non vogliono credere al mio Amore?
Sono forse stato malvagio?
Mi sono forse vendicato quando ero sulla terra?
Non sono forse stato tutto indulgenza, tutto perdono?
Non sono diventato il “Dolore” per amor vostro?
Perché gli uomini non vogliono credere al mio Amore?»
«Non credere che un santo sia stato santo in ogni momento... Ma c’è la mia Grazia».
Oran. Convento delle Suore Trinitarie. Nella mia cella sotto la scala.
«Mira alla perfezione. Ma alla perfezione della “tua natura”».
Lui mi fece capire che la perfezione di un’anima non richiede lo stesso lavoro che la perfezione di un’altra.
«E tu mi farai piacere».
Nella cappella.
«Spero che tu non abbia paura di me! I tuoi peccati? Me ne incarico io».
16 aprile 1937 – Algeri. Nella chiesa di Sant’Agostino, dove avevo potuto comunicarmi appena scesa dal
treno:
«Abbrevia il tuo ringraziamento per spirito di carità».
Infatti, all’uscita, trovai sulla piazza le suore che, non avendomi vista alla stazione, mi cercavano,
preoccupate.
Algeri.
«Fa’ attenzione a non parlare del male. C’è sempre un po’ di Bene, non fosse che in germe, in ogni
anima.
Abbi degli altri la stessa cura delicata che Io ho di te ».
18 aprile 1937 – In un teatro.
«Perché mi parli come se Io fossi molto lontano? Io sono vicinissimo... nel tuo cuore».
23 aprile 1937 – Algeri.
«Non stancarti di me. Io non mi stanco di te».
«Quando Io non ti parlo, è perché quello è per te il momento dell’azione.
Parla agli altri come pensi che Io parlerei a te.
Io ti aiuterò».
25 aprile 1937 – Porto Vendres. In un caffè non lontano dall’imbarcadero.
«Se, nel ristorarti, tu pensassi a dar sollievo alle mie labbra arse, quale somma di gioie mi daresti… Ma
questo non è chiesto a tutti».
30 aprile 1937 – Sul treno di ritorno.
«Quando un oggetto ha bisogno di riparazioni, lo si affida alle mani di un operaio.
Metti dunque l’anima tua, silenziosa e immobile, sotto il mio sguardo.
Io riparo».
A Le-Fresne. Mentre piantavo i gerani in giardino e inghirlandavo il pergolato.
«Noi due insieme faremo belle cose! Ho voluto fare dell’uomo il mio collaboratore per rendere più
stretta la nostra unione. L’amore tende all’unione».
In treno.
«Lasciare gli amori per l’Amore».
Mentre ripartivo.
«Prendi il mio Vangelo. Tienilo sempre con te. Mi farai piacere».
5 maggio 1937 – Nel vagone.
«Vedi la differenza che c’è fra il ricordo di una frase che hai letto e la “mia Parola”».
Cappella di Sant’Anna.
«Perché non mi riconosci nel tuo prossimo?».
Al catechismo a Le-Fresne.
«Sii più tenera con loro. I bambini hanno bisogno di tenerezza».
12 maggio 1937 –
«Io cerco sofferenze che davvero vogliano unirsi alle mie».
14 maggio 1937 – Passando dalla stazione di Vannes.
«Tu non sei che un tessuto di misericordie».
19 maggio 1937 – Parigi. In metropolitana.
«Io sono l’Ostia. Tu sei l’ostensorio. I raggi d’oro sono le mie Grazie tramite te».
20 maggio 1937 – Montmartre. Mentre pensavo a raccogliermi, mi ha detto:
«Lo Sposo non si avvicina alla sposa mentre essa si distrae alla finestra...
Lui attende che essa lo attenda nel fondo della camera dei segreti».
Maggio – A Le-Fresne. Dopo la Comunione. Io: “Signore, supplisci alle mie insufficienze”. Lui: «Sono qui
per questo».
Davanti ad alcune rose appassite.
«Io non passo. Io non inganno».
28 maggio – Pensavo alla sua Festa del Corpus Domini e Lui mi ha detto:
«Quando riceverò tutte le predilezioni, le predilezioni di tutte le anime, sarà veramente la mia Festa».
«Non temere di gioire di me. Vedi quel piccolo insetto che sale dritto nel cielo? Fa’ come lui.
Impara a guardare, imparerai a vedere me, il Creatore».
«Sai che cos’è la Bontà? La Bontà è mia Madre».
30 maggio 1937 – Festa del Corpus Domini. Dopo la Comunione.
«Io non ho lasciato niente di me in Cielo.
Io mi dono interamente a te: donati interamente a Me».
31 maggio 1937 – Nella Seine-et-Oise.
«Quando sei in chiesa, spogliati di ogni pensiero, di ogni preoccupazione della giornata. Spogliatene
come di un vestito. E sii tutta per Me».
In un vagone. Ho avuto la tentazione di essere pungente con una viaggiatrice pungente. Lui mi ha detto
dolcemente:
«Più si è cristiani, cioè miei, più si è amabili: sii amabile fra tutte le donne».
4 giugno 1937 – Festa del Sacro Cuore. In una stazione.
«Oggi, prendo per me ognuno dei tuoi sorrisi».
Allora, ho deciso di sorridere a tutto e a tutti.
8 giugno 1937 – A Le-Fresne.
«Non ti fermare ai piccoli dettagli della vita. Pensa unicamente all’amore: quello che ricevi da me.
Quello che tu mi dai».
«Pensa con carità. I pensieri generano le parole».
Giugno – A Le-Fresne.
«Io non ti chiedo la perfezione – sarebbe difficile per te – ma lo Spirito di perfezione.
Abbi sempre la volontà di far bene.
E questo, con grande amore».
Davanti alle rose che si arrampicano fino alla cima del grande ciliegio, Lui mi ha detto:
«Tuo padre aveva colto dal prato per te una piccola rosa, e ne eri stata tanto commossa.
Io, ho fatto sbocciare per te tutte le tue splendide aiuole. Amami di più».
11 giugno 1937 – Mentre soffrivo, ho inteso:
«Ora, sei tu che offri».
Per strada.
«Io non vi chiedo di essere degli angeli.
Vi chiedo di essere santi secondo la vostra natura».
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Lo splendore del matrimonio e della famiglia in un fenomenale dialogo di Padre Antonio Sicari con don Luigi Giussani
Vergini come marito e moglie.
di Luigi Giussani - Antonio Sicari
Domenica 22 febbraio ricorre il decimo anniversario della scomparsa di monsignor Luigi Giussani. Per gentile concessione dell’editrice Jaca Book, riproponiamo di seguito ampi stralci della sua “Conversazione sul matrimonio” con il teologo Antonio Maria Sicari. Il dialogo è contenuto in Breve catechesi sul matrimonio (1990), libro firmato dallo stesso Sicari.
Per poter dare a questo mio libro sul matrimonio una conclusione viva, ho chiesto a monsignor Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, di poter rivedere con lui, conversando, almeno le pagine più decisive. Il motivo della scelta è per me ovvio: tra tutti i sacerdoti che conosco, nessuno sa parlare, come lui, della verginità cristiana. (…) Questo amore immediato a Cristo – il saper vedere l’intera creazione e gli uomini tutti come segni di Lui, e amarLo attraversando ogni altro amore ed ogni altra affezione – è la «verginità». (…)
Sicari (S.). Vorrei iniziare la nostra “conversazione sul matrimonio” riprendendo la frase di S. Agostino posta in apertura a questo libro: «Quid tam tuus quam tu? Sed quid tam non tuus quam tu, si alicuius est quod es? – Che cosa è così tuo come te stesso? Ma che cosa è meno tuo di te stesso, se ciò che tu sei appartiene a un altro?». (…) Questo ci porta subito al cuore del problema, al tema della appartenenza nella sua forma più totale e radicale…
Giussani (G.). Sì, questa frase sintetizza, anche per noi uomini, una delle intuizioni più profonde: che il contenuto della propria autocoscienza si svela nella appartenenza a un altro e come appartenenza a un altro. Ciò è evidente soprattutto nel bambino: tutta la coscienza che egli ha di sé è nella appartenenza, sperimentata come un bene, al padre e alla madre. Altrimenti viene impedito lo stesso sviluppo della sua coscienza.
S. Parliamo ora della “appartenenza coniugale”, quella che comincia a realizzarsi fin dal primo innamoramento…
G. Per una persona adulta, anche se molto giovane, l’appartenenza a un altro essere umano non è il primum; per prima cosa viene il sentimento di sé, della propria personalità. Quanto più questo sentimento di sé è profondo e vero, tanto più si è capaci di appartenere a un altro. Ma qui scopriamo il segreto più interessante: che per avere un sentimento di sé che sia dignitoso, consistente, operativo – direi quasi “definitivo” della propria persona – bisogna percepire una appartenenza ancora più originale: quella nei riguardi di Cristo, di Uno che ci redime dalla nostra fragilità, dallo sgomento della precarietà. (…)
S. Torniamo per ora alla fase ancora istintiva, ancora immediata e non riflessa: uno sente il bisogno di appartenere totalmente alla persona di cui si va innamorando; come questa prima evidenza può diventare pedagogia a scoprire o a riscoprire quella più radicale appartenenza di cui parliamo? Qual è il cammino da percorrere?
G. La strada unicamente percorribile mi sembra quella dello stupore. Ecco: se nasce lo stupore dell’incontro fatto, in esso è implicito il senso di una Grazia, di un dono. Infatti si tratta di una appartenenza nuova che nasce da circostanze non programmate, non previste. Ma occorre una certa sensibilità, una certa semplicità di cuore per accorgersene. Anche in tal caso, però, non è possibile scoprire tutto il valore di quel presentimento o di quello stupore, se non si incontra un maestro e una compagnia nei quali sia già viva la coscienza che tutto ci è donato da Dio. (…) Nel frastuono di oggi, quello stupore spesso appena accennato, difficilmente riesce ad approfondirsi. Tutto diventa subito abituale, tutto è dovuto, meccanico. Per questo è sempre necessario un incontro ulteriore, l’imbattersi in una realtà già cosciente delle implicazioni più profonde.
S. Una realtà che educhi: una comunità? Un prete? Un’altra coppia di sposi? Una persona consacrata?
G. La comunità cristiana è certo un luogo dove le implicazioni contenute in quel primo stupore possono essere esplicitate: nelle conversazioni, nei raduni, in qualche esperienza in cui si colgono accenti che spalancano un orizzonte nuovo. Ma resta indispensabile poi un incontro personale: non importa che sia un prete, uno sposato o uno che ha scelto di vivere verginalmente; importante è che si tratti di una persona che abbia fatto una vera esperienza affettiva verso Dio. Certo, un prete o un vergine dovrebbero essere più criticamente consapevoli di questo passaggio.
S. Ma questa persona «criticamente consapevole» che cosa (…) deve far percepire a due ragazzi che provano semplicemente lo stupore, la gratitudine per un incontro d’amore accaduto così naturalmente?
G. Dovrebbe far percepire loro due cose. Anzitutto che la stoffa dell’avvenimento, del loro incontro d’amore, è la Grazia: dono fatto da un Altro a cui appartengono il mondo e le persone tutte, e che, attraverso le sue vie misteriose, ha provocato quell’incontro mobilitando un numero infinito di circostanze apparentemente casuali; e in tal modo Egli ha creato “per te” un momento pieno di senso e di sentimento. In secondo luogo, l’educatore dovrebbe far percepire la profezia contenuta in quello stesso incontro: lo stupore cioè promette una appartenenza e un possesso che diventeranno tanto più forti, tanto più ricchi, quanto più saranno vissuti nella obbedienza al grande Signore, scoperto come origine della Grazia.
S. Tuttavia questa duplice scoperta (della creaturalità stupefatta e della promessa di un compimento sovrabbondante) resta a livello di semplice “senso religioso”. Ma come si può far percepire a due ragazzi innamorati anche il volto personale di Cristo?
G. Vedi, (…) se due ragazzi non solo si incontrano tra loro, ma incontrano anche chi svela il loro senso del loro amore, già fanno una esperienza della incarnazione di Cristo: è infatti Cristo che li raggiunge nel mistero della sua Chiesa, nella presenza del suo “testimone” o ministro.
S. Accade però che i ragazzi ti dicano: noi il nostro amore lo sentiamo molto concretamente, mentre l’amore di Cristo è così vago, così “spirituale”…!
G. Che Cristo faccia sentire la sua concretezza corporea, risorta, anche questo è una sua grazia… una grazia che poi verrà sempre più confermata: negativamente dalla percezione dei limiti dell’amore umano, della fragilità, della precarietà inevitabile eppure dolorosa; e, positivamente, dal fatto che è sempre possibile addentrarsi più profondamente in quel segno, in quel “sacramento” che è l’amore tra uomo e donna.
S. Ogni uomo dunque porta in sé una tale profondità, nella quale l’incontro con Cristo si fa sempre più concreto man mano che uno vi si addentra?
G. È una profondità che viene spalancata dall’amore umano, e che Cristo può usare misericordiosamente per farsi percepire. È come l’albore del giorno escatologico, come anticipo di una appartenenza e di un possesso infiniti. D’altra parte in ogni esperienza stabile di amore, nella vita concreta di ogni famiglia, ci si accorge che il possesso è tanto più potente, profondo e vero quanto più viene attuato in un distacco. (…) Il distacco supremo viene raggiunto là dove lo sguardo d’amore si porta direttamente sul Destino dell’altro. Nella vita della famiglia dapprima il distacco è consigliato e quasi esigito dagli inevitabili limiti e dai pesi conseguenti, che tante volte possono anche generare stanchezza e incapacità a perseverare nel rapporto. Ma proprio per attraversare anche questa stanchezza e queste delusioni, proprio per riscattarle, l’unica modalità razionale è quella di seguire la logica ultima dell’amore che è la passione per il Destino dell’altra persona. (…)
S. Se c’è una evidenza naturale che Dio ci ha donato (nel dono stesso della nascita, del nostro esser stati bambini, del nostro aver avuto una famiglia) è proprio questa: che l’appartenenza è una cosa buona e che è proprio essa a rendere possibile la libertà. Che cosa poi interviene a rovinare questa prima evidenza? L’adulto che dice orgogliosamente: libertà significa “non appartenere”, non dipendere da nessuno; appartenere e dipendere sono soltanto umiliazione, schiavitù… Che cosa gli è accaduto?
G. Potremmo vedervi una prova del peccato originale, inteso come ciò che ha reso possibile una tale distorsione. Ma la ragione più immediata è la ineducazione, anzi la contro-educazione: i doni che ci vengono dalla natura, se non diventano evidenti nelle loro ragioni, restano atrofizzati: vengono usati in modo meschino, fragile, oppure senza nessuna discrezione: subiscono, in ogni caso, violenza. E questo succede inevitabilmente quando la realtà umana non incontra Cristo: la natura senza Cristo viene anchilosata, si obnubila, si altera. (…) È piuttosto un plagio operato dalla mentalità dominante; un plagio che innesta la sua menzogna sulla ineducazione, e quest’ultima tanto più si dilata quanto più retrocede l’influsso della Chiesa. Ciò coincide con l’assenza di ragioni, con l’oscurarsi della coscienza, con la sua restrizione. Su questa restrizione poi la società sviluppa il suo potere.
S. È per questo che oggi il potere ha interesse a distruggere i legami familiari stabili?
G. L’interesse del potere è duplice: prima di tutto, distruggendo questa primordiale unità-compagnia dell’uomo, il potere riesce ad avere davanti a sé un uomo isolato: l’uomo solo è senza forza, è privo del senso del destino, privo del senso della sua ultima responsabilità: e si piega facilmente al dettato delle convenienze.
S. Quindi dietro a tutti i cedimenti sociali a riguardo della famiglia (aborto, divorzio, convivenze, permissivismo sessuale ecc.) c’è sempre uno stesso scopo: quello di far dimenticare che libertà e appartenenza sono la stessa cosa…
G. Certamente, perché così l’uomo resta un pezzo di materia, un cittadino anonimo. La famiglia è attaccata per far sì che l’uomo sia più solo, e non abbia tradizioni in modo che non veicoli responsabilmente qualcosa che possa esser scomodo per il potere o che non nasca dal potere. La seconda ragione, più profonda, è questa: che distruggendo la famiglia si attacca l’ultimo e più forte baluardo che resiste naturalmente alla concezione culturale che il potere introduce, di cui il potere è funzione: vale a dire, intendere la realtà atomisticamente, materialisticamente, una realtà in cui il bene sia l’istinto o il piacere, o meglio ancora il calcolo.
S. Io penso che il problema più grave della Chiesa di oggi stia nel modo in cui molti cristiani concepiscono il rapporto tra natura e soprannatura: o in modo spiritualistico (in cui la fede non c’entra con la vita concreta) o in modo moralistico (la fede c’entra, ma solo come sostegno etico di un progetto naturale). In ambedue i casi si dimentica l’innesto sostanziale con cui Dio ha legato assieme ciò che è naturale e ciò che è soprannaturale, in modo indissolubile, in un unico ordine. Ora a me sembra che proprio per questo motivo il futuro della fede si giochi nella famiglia. Il matrimonio è l’unica realtà naturale che diventa soprannaturale (sacramento) per il solo fatto di essere il gesto di due battezzati. (…) Il matrimonio-sacramento è il punto della storia in cui la realtà naturale e quella soprannaturale più perfettamente si innestano l’una nell’altra senza confondersi, in forza del battesimo, in forza della fede.
G. Vuoi dire che proprio là dove la natura più si esprime, più dimostra di essere stata indissolubilmente legata con la soprannatura…
S. Sì, nella famiglia la natura umana si esprime in tutta la sua concretezza: ogni cosa, anche la più materiale (la casa, il lavoro, il cibo…), tutto viene finalizzato e umanizzato. Per questo credere che il matrimonio è un sacramento suggerisce anche un modo totalizzante di considerare il proprio essere cristiano: impedisce alla radice ogni dualismo, ogni falso spiritualismo. Cosa manca allora nel modo abituale con cui si educano i giovani a capire il sacramento del matrimonio?
G. Manca la fede nella sua vera natura. C’è nel migliore dei casi una preoccupazione morale dignitosa e un vago sentimento di soggezione a Dio. Invece occorrerebbe guardare alla famiglia come all’esempio più impressionante della Incarnazione. (…)
S. Proprio qui io credo che si innesti nel modo più autentico la problematica morale. La morale cristiana non è possibile, non è liberante, se non nasce da uno stupore davanti al dono di Dio, se non è risposta umile e generosa alla grandezza del dono che Dio ci fa. Dunque bisogna prima educare i cristiani allo stupore davanti al miracolo del loro matrimonio. Ma cos’è che fa percepire come buona, percorribile, la concreta legge morale: quella, ad esempio, che governa la vita sessuale?
G. Per amare la morale cristiana e osservarla, bisogna essere coinvolti concretamente nel fatto di Cristo, bisogna che Cristo sia divenuto veramente il Signore di tutti, fino ad amare obbedientemente le leggi che Lui ha messo nella sua creazione. Bisogna che in casa domini Cristo.
S. Eppure è sempre più frequente trovare dei cristiani, anche tra i nostri amici, che sono infastiditi dal fatto che il Papa parli spesso della morale sessuale. Dicono che ormai quelle cose non le capisce più nessuno (…) e non è più possibile partire dall’etica o insistere subito su questo.
G. Io non sono affatto d’accordo. E per due motivi diversi, anche se legati tra loro. Il primo è che il Papa insiste sugli aspetti fondamentali, essenziali per la costruzione di ogni società: il valore della persona, della ragionevolezza, dell’“atto”. Si tratta dell’uomo; è la natura dell’uomo che è in gioco in quei problemi sessuali che sembrerebbero così particolari. Il secondo motivo è che un cristiano, quando riflette sulle indicazioni del Magistero, anche se gli sembra che esso parta da lontano, è costretto subito a ritrovare l’imponenza di Cristo sulla sua vita.
S. Ma è giusto dire che, per una nuova evangelizzazione, è necessario partire non dall’etica ma dall’estetica?
G. Non bisogna semplificare troppo. Proprio questo Papa che spinge alla nuova evangelizzazione parla molto dell’etica sessuale, perché essa tocca ora i punti fondanti, quelli in cui è salvata la dignità stessa della persona umana. E questo è già un fatto profondamente estetico, perché se è salva la santità della persona, allora lo splendore della presenza di Cristo nel mondo colpisce. La morale, quando tocca i fondamenti dell’esistenza, è l’estetica di ciò che è dato, della creazione, del dono. Si tratta di rimettere in gioco lo stupore della creazione, la verità della creazione. La moralità rende la persona sintonica al movimento della creazione in cui essa si trova coinvolta; allora rinasce lo splendore della creazione. Lo splendore è là dove la moralità è salvata.
S. (…) Si dice: bisogna riproporre il fatto di Cristo, non un’etica.
G. Ma se non si giunge a un’etica, non si comprende il fatto di Cristo. Non si è coinvolti nel fatto, se non si entra nel movimento morale che il fatto implica.
S. A volte però si sente dire, anche da persone autorevoli: se fosse per le indicazioni morali, io non starei nel cristianesimo, perché sarebbe solo addossarsi altri pesi. Ci resto perché mi dà gioia, soddisfa le mie esigenze…
G. Io sto nel cristianesimo perché è la verità; perché riconoscere il fatto di Cristo e la sua presenza mi converte, mi sospinge, mi attira a cambiare il mio modo di entrare in rapporto con tutte le cose, mi fa diventare più vero fin nei particolari. Incontrando il fatto cristiano, anche il rapporto affettivo diventa più doloroso e più vero: si accetta una maggiore “dolorosità”, perché lo si vuole più vero. Quando una donna vuole bene ad un uomo, se lui viene mandato dalla sua ditta per sei mesi in America, lei l’attende, è tesa a lui, gli resta unita. Il fatto stupefacente del loro amore, della loro unità è dentro la serietà etica della loro reciproca attesa.
S. Vuoi dire che c’è un livello della questione in cui “etica” ed “estetica” coincidono?
G. Io direi che la vera estetica è quella che nasce da un destino percepito come immanente al movimento della realtà. La vera estetica è sempre etica.
S. È, secondo te, importante predicare anche oggi ai fidanzati la castità prematrimoniale, senza sconti o concessioni di alcun tipo?
G. Ma certo! Perché senza verginità non imparano a possedersi veramente: possedere è amare e, nel gesto, cercare e amare il Destino dell’altro. Il gesto dev’essere determinato dal destino dell’altro. Il gesto si fa se è necessario per adempiere il compito che il Destino assegna.
S. Appunto, ci sono perfino preti che sostengono che i gesti intimi dell’amore sono necessari ai fidanzati, per conoscersi meglio, per prepararsi…
G. È un giudizio squallidamente sentimentale. Il dire che si vogliono bene è un artificio. Voler bene è desiderare il Destino, cioè desiderare che Cristo venga. Ma Cristo viene attraverso le circostanze della vita, integralmente rispettate nella loro natura. E la natura del fidanzamento è la promessa, non l’anticipazione furtiva e limitata. Altrimenti accade proprio quello che dicevamo prima. Dicendo a due fidanzati: «… purché vi vogliate bene!», si separa il Destino dai «fatti». Si sciupa sia il momento estetico che quello etico.
S. Che cosa vuol dire propriamente che «sposarsi significa assumersi la vocazione dell’altro come propria»?
G. Significa che ognuno dei due sposi non può più realizzare il compito che Dio gli ha affidato (cioè, costruire la Chiesa) se non nell’unità con l’altro.
S. Spesso però accade che uno dei due si sottrae volontariamente a questo servizio ecclesiale. Allora l’altro, che pur lo desidera, come può realizzare la sua vocazione?
G. L’unità non è necessariamente corrispondenza. L’unità è la verità del legame con l’altro; è la fedeltà nonostante tutto. Se penso alla fedeltà di certe donne praticamente abbandonate!…
S. Quando a un coniuge succede di esser proprio, fisicamente, abbandonato, di restar solo, che senso ha ancora la fedeltà?
G. Il senso si può trovare solo scoprendo l’aspetto “verginale” della propria vocazione. Nota bene che questo aspetto era presente anche prima, anche quando il rapporto perdurava. Era già l’essenza del rapporto coniugale. Nella drammaticità ingiusta dell’abbandono, l’aspetto verginale emerge con una evidenza dolorosa, ma comunque capace di essere salvifica.
S. Come spiegheresti meglio questo valore a chi sente soltanto la ferita dell’abbandono?
G. La vocazione è un compito a favore della Chiesa, che Dio ci affida attraverso le circostanze della vita. Ci sono due compiti fondamentali: il matrimonio che ha la funzione di generare nuovi esseri (questo è il suo significato profondo, anche se oggi molti lo vogliono far passare in seconda linea) e la verginità che ha invece la funzione di richiamare tutti alla “forma ideale”. Per questo chi vive veramente il matrimonio cristiano ha una grande stima di chi nella Chiesa incarna la vocazione verginale. Tornando al caso del coniuge abbandonato: accade che, attraverso la contingenza terribile dell’abbandono, uno è chiamato ad andare fino in fondo al valore su cui il suo matrimonio era costruito: l’essere funzione di Cristo per costruire la Chiesa. Si tratterà allora di vivere l’attesa, apparentemente sterile, con profonda umiltà, accettando una situazione di verginità, che sembra soltanto imposta, in quanto essa non è solo un “incidente”, ma chiede di scoprire la salda radice. È su questa “verginità radicale” che bisognerà costruire la propria pace, la propria missionarietà, il dono di sé alla Chiesa. (…)
S. Molte nostre famiglie cominciano con un buon impeto ideale, ma poi facilmente scadono nell’abitudine, nella stanchezza, nella noia. Cosa è che impedisce all’ideale del sacramento di diventare esperienza quotidiana?
G. Il fatto che l’impeto ideale spesso non è fondato nella fede. Non accade loro quello che diceva Mounier: «Occorre soffrire perché una verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne».
S. Prova invece a descrivere una famiglia «fondata sulla fede».
G. Una coppia cristiana nasce, come tutte le altre, dalla affezione. Ma per due credenti l’affezione è il suggerimento di Dio che dice: «Vi voglio insieme». Dunque: che Dio voglia che siamo assieme per affrontare la vita e per camminare assieme verso il destino, questa è l’essenza del perché io ti voglio. In tal caso, la scoperta dei limiti, il rischio dell’abitudinarietà, tutto è sottoposto a vigilanza. La rovina o la povertà di tanti matrimoni cristiani dipendono da una duplice causa: la prima è che i due non hanno veramente iniziato nella fede. La fede era una intenzione, non una ascesi, non una “sofferenza” (nel senso di Mounier) che facesse nascere la verità dalla carne. La verità del loro rapporto è partecipare al mistero di Cristo, fare la volontà del Padre celeste: ma queste cose sono state sentite come astratte o addirittura ripugnanti. In secondo luogo, i due hanno continuato a credere che quello che importava era il loro volersi bene. Invece era importante il cambiamento del loro volersi bene: convertire l’esperienza del loro volersi bene, scendendo nella profondità del fenomeno, fino a scorgervi la Grazia che vi inabita, e assorbirla.
S. Qual è per una coppia, per una famiglia il test che indica se questo cambiamento è davvero avvenuto?
G. Il test è semplice: che nella loro vita non esiste più l’“obiezione” e, dunque, l’abitudine non logora.
S. Quindi, se due persone dicono: «Più il tempo passa, più ci vogliamo bene» è segno che è avvenuta la conversione di cui parli?
G. È una indicazione, ma ancora imperfetta: bisogna inoltre vedere come questo loro amore si rapporta con la Chiesa. Devono avere coscienza che la loro unità implica tutte le famiglie del mondo; e questo si manifesta con una passione perché tutte le famiglie del mondo conoscano ed amino Cristo. Devono avere cioè una tensione “comunionale” e “missionaria”.
S. Non penso che il tuo discorso coincida con quello che attualmente si fa parlando di una “famiglia aperta”…
G. Spesso questa è una espressione usata in senso molto moralistico, sociologico, che non tocca la sostanza del rapporto. La sostanza consiste nel fatto che l’apertura sia passione perché il mistero di Cristo faccia diventare una cosa sola tutti gli uomini, tutte le famiglie. È la passione perché Cristo sia conosciuto. È la passione per la Gloria di Cristo. (…)
S. Quali indicazioni pratiche daresti?
G. Io dico sempre due cose: anzitutto che anche nei momenti peggiori, anche se due coniugi si fossero picchiati un momento prima, che dicano sempre una “Ave Maria” alla Madonna, assieme. Anche se si odiano, che la dicano! In secondo luogo: che si richiamino con l’esempio. Se uno vede l’altro che dice il Rosario, anche se lui è stanco e non ha voglia di dirlo, sente tuttavia un richiamo che gli fa bene. Oppure: uno va a far la Comunione e l’altro no, però è un richiamo. Anche se non sembra, c’è qualcosa che ogni volta li lega assieme. È sempre “preghiera comune”, almeno un po’. Anche la preghiera comune “esplicita” è utile, ma non in modo asfissiante. Non bisogna fare come certi fidanzati che “pregano insieme”, però non pregano loro.
S. Parliamo un po’ dei bambini. Incontrando molte coppie, alcune in crisi, io mi sono convinto che una delle carenze più gravi è questa: trattano i problemi della fedeltà, della indissolubilità del loro legame, come se si trattasse solo di “valori” ideali, di “leggi”. Non hanno mai capito che prima di essere delle “idee” sono dei “fatti”: i figli sono l’indissolubilità vivente della coppia, la fedeltà fatta carne. (…) Il bambino “giudica” tutte le ideologie, tutti i cedimenti che si fanno sul matrimonio. La fatica ad accogliere i figli, la voglia di averne il meno possibile dipende forse anche dalla incapacità dei coniugi di stare fino in fondo di fronte al mistero e al significato della propria unità.
G. La difficoltà ad accogliere i figli nasce dal calcolo: se io sono la misura di tutto, allora è giusto misurare anche i figli (non solo nella quantità, ma perfino nella qualità). La fede invece ci dice proprio il contrario: che io non sono mio, ma di un Altro. Solo da questa persuasione è resa possibile una procreazione responsabile, nella quale entra anche il calcolo, perché la ragione è anche questo. Ma non in modo egoistico. Piuttosto come voglia di “rispondere” nel modo più vero e giusto possibile alle attese di Colui al quale appartengo e per il quale metto al mondo i figli. Il dialogo dei due coniugi è per dare questa risposta: offrono a Dio la loro unità “creativa”, “generosa” (c’entra la parola “generare”) e ricevono il figlio che incarna questa stessa unità. Nel figlio saranno uniti per tutta l’eternità in un modo nuovo, irripetibile, diverso da ogni altro; come dicevi tu: una unità fatta carne, fatta persona. (…)
S. Cosa suggeriresti a due cristiani che si ritrovano con un matrimonio rovinato, per loro stessa colpa?
G. Cercherei prima di tutto di prenderli separatamente e di coinvolgerli in una realtà in cui ritrovino il respiro per l’ideale: in una comunità, in una compagnia. La possibilità di rimetterli assieme è tutta nel farli crescere in una fede viva e operosa: se crescono nella fede, si accorgeranno anche dei sacrifici da fare per riscattare il loro sacramento e cominceranno a desiderarlo, anche se fanno fatica. Altrimenti è un moralismo insopportabile. Una possibilità di ricostruire c’è sempre, se ambedue accettano, in qualunque modo, di crescere. Ma non ci si può abbandonare al caso, sperando che cambino i sentimenti. (…)
S. Capita mai, a te che sei affascinato dal mistero della verginità cristiana, di invidiare qualche coppia ben riuscita di coniugi?
G. Sarei tentato di dire: mai. Ma questo non è giusto. Deve avvenire che un vergine provi una santa invidia davanti a certe coppie di sposi. (Come gli sposi devono prima o poi avere nostalgia della verginità cristiana). Ma l’unica cosa che mi farebbe “invidia” in due coniugi sarebbe una unità splendidamente espressa dal loro rapporto: veder significata con più evidenza quella unità totale con Dio, con Cristo, con tutte le persone, a cui tutti tendiamo con infinito desiderio.
S. Quindi, se tu vedessi due persone molto unite tra loro, questo ti…
G. … Questo si tradurrebbe in un impeto di desiderio di essere io più vero in quello che sono. (…
sabato 21 febbraio 2015
Teresa di Gesù, Caterina da Siena e Teresa di Lisieux
Consigli
di 3 grandi sante della Chiesa per voi
All'inizio
di ogni tappa, le persone in genere si prefissano alcuni obiettivi da
raggiungere nel corso del periodo. Per la vita spirituale, proponiamo
anche una meta, e a questo scopo non c'è niente di meglio che
prendere come modello tre consigli di tre grandi sante della Chiesa:
Santa Teresa
di Gesù, Santa Caterina da Siena e Santa Teresa
di Lisieux, seguendo le indicazioni tratte
dall'opera Doctoras de la Iglesia di padre Antonio
Royo Marín.
Il primo consiglio viene da Santa Teresa d'Avila, che è riuscita a progredire spiritualmente in modo straordinario pur non avendo direttori spirituali soddisfacenti. All'epoca in cui visse si credeva che quando la persona cresceva spiritualmente dovesse mettere da parte la riflessione sull'umanità di Cristo, la sua Passione e quanto Egli ci ha amati; insomma, la meditazione concreta sul Vangelo. L'idea era che quanto più alto era il livello di vita mistica, maggiore doveva essere la contemplazione della Trinità.
Santa Teresa di Gesù, come grande Dottore, ha notato l'errore insito in questo tipo di pensiero. Per lei, in tutte le tappe del cammino spirituale è imprescindibile la meditazione sull'umanità di Cristo. Egli è la Via. Nella sua opera Cammino di Perfezione, insegna alle monache a utilizzare le immagini di Cristo crocifisso, piagato, e a partire dall'immagine a meditare sul grande amore che Dio ha per l'umanità.
Il primo punto, quindi, è guardare alla Passione di Cristo, guardare all'Amore incarnato, concreto, reale, storico con cui Dio ha amato gli uomini e su questo basare il proprio edificio spirituale, come insegna San Giovanni: “In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10). La morte di Cristo sulla Croce è la realtà concreta dell'amore di Dio.
L'edificio spirituale di molte persone crolla perché dimenticano questo primo punto: Dio ha amato l'umanità e ciascuno per primo. E questo amore non è una teoria, ma una realtà che si è fatta carne nell'umanità di Cristo. Il primo passo è quindi fare il fermo proposito di avere la croce di Cristo davanti agli occhi in ogni momento. “Gesù, amore incarnato, piagato per me”, appropriandosi di questa certezza: “Io sono stato amato di amore infinito, senza difetto. Non sono più una vittima, non ho bisogno di mendicare l'amore altrui”.
Il secondo punto viene da Santa Teresina del Bambin Gesù. Si tratta di come rispondere all'amore di Dio. Di fronte ai grandi santi, alcuni reagiscono con scoraggiamento, perché queste grandi anime rendono irraggiungibile l'ideale della santità; altri fanno di questi santi dei modelli e cercano di imitarli, desiderando una santità uguale alla loro.
La Piccola ha avuto la sua intuizione fondamentale percependo che esistono anime, grandi santi, grandi uomini e donne scelti da Dio, un'élite spirituale che la stragrande maggioranza dell'umanità non riuscirà mai ad imitare. A suo avviso, esiste però anche un'altra famiglia: quella delle Piccole Anime, nella quale ella si vedeva inclusa pur essendo una grande anima.
Nella sua dottrina, la santa afferma che anche le piccole anime possono amare Dio: non nel modo eroico in cui lo fanno i grandi santi, ma in modo ordinario, comune. Tutti sono chiamati a trasformare ciascuno dei piccoli atti della vita in amore per Dio. Offrire TUTTO a Gesù, il bene e il male, la gioia e la tristezza, la soddisfazione o la frustrazione, tutto per amore di Gesù. Santa Teresina ha trasformato tutti i piccoli atti ordinari della sua vita in amore, e per questo è stata straordinaria nell'ordinarietà in cui ha vissuto l'amore per Gesù.
Questo è il secondo punto: ricambiare colui che ha amato per primo. Questo insegnamento ha il grande vantaggio di portare la religione nella vita quotidiana, di modo che nessun abbia più bisogno di aspettare la data del martirio per compiere qualsiasi atto eroico di amore per Dio. Tutti possiamo amarlo da ora, subito. È per questo che Santa Teresina, pur avendo sofferto molto per la malattia del padre e per la propria, ha dimostrato di essere una donna dalla grande maturità spirituale pur avendo solo 24 anni. Il suo cammino spirituale è stato impressionante: da bambina coccolata, immatura e vittimista è stata trasformata da Dio in una grande santa. Ricambiare l'amore di Colui che ci ha amati per primo.
Il terzo punto viene da Santa Caterina da Siena, laica terziaria che non ha mai vissuto in un convento; era nubile ma non monaca nel senso tecnico della parola. Pur se analfabeta, scrisse molte lettere al papa, che si trovava ad Avignone, convincendolo a riprendere il suo posto nella Chiesa, e quindi in un certo senso ha cambiato il destino della Chiesa stessa.
Con i suoi gesti, la santa ci insegna una cosa molto importante: la conversione dei peccatori deve essere cercata da tutti, il che ci rende tutti apostoli. In lei si comprende ciò che insegna San Tommaso d'Aquino, secondo il quale l'amore può avere vari oggetti. L'oggetto materiale dell'amore può essere Dio, la propria persona o perfino i miliardi di persone della Terra, i santi, gli angeli, ecc. Tutti possono essere amati. La carità, l'amore, ha tuttavia un solo oggetto formale: Dio. Amare Dio per Dio, amare il prossimo per amore di Dio, amare se stessi per amore di Dio. Egli è la modalità con la quale si deve amare. La vita di apostolato, il sacrificio, la predicazione, la richiesta di conversione per i peccatori deve avere quindi come punto centrale l'amore per Dio. Solo così avrà senso.
Avere sempre davanti agli occhi l'amore di Dio incarnato e la croce di Cristo, ricordandosi del fatto che Egli ci ha amati per primo, è dunque il primo obiettivo. Il secondo è rispondere a questo amore nei piccoli gesti e negli atti ordinari quotidiani, il terzo è essere missionari portando altri a Dio, spinti a dare maggior gloria a Dio, facendo come un atto d'amore nei suoi confronti, riportando i suoi figli a casa. Ecco i passi che si possono dedurre dalle lezioni dei tre grandi Dottori che ci offrono un progetto spirituale.
Chi accetta la sfida?
[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]
Il primo consiglio viene da Santa Teresa d'Avila, che è riuscita a progredire spiritualmente in modo straordinario pur non avendo direttori spirituali soddisfacenti. All'epoca in cui visse si credeva che quando la persona cresceva spiritualmente dovesse mettere da parte la riflessione sull'umanità di Cristo, la sua Passione e quanto Egli ci ha amati; insomma, la meditazione concreta sul Vangelo. L'idea era che quanto più alto era il livello di vita mistica, maggiore doveva essere la contemplazione della Trinità.
Santa Teresa di Gesù, come grande Dottore, ha notato l'errore insito in questo tipo di pensiero. Per lei, in tutte le tappe del cammino spirituale è imprescindibile la meditazione sull'umanità di Cristo. Egli è la Via. Nella sua opera Cammino di Perfezione, insegna alle monache a utilizzare le immagini di Cristo crocifisso, piagato, e a partire dall'immagine a meditare sul grande amore che Dio ha per l'umanità.
Il primo punto, quindi, è guardare alla Passione di Cristo, guardare all'Amore incarnato, concreto, reale, storico con cui Dio ha amato gli uomini e su questo basare il proprio edificio spirituale, come insegna San Giovanni: “In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10). La morte di Cristo sulla Croce è la realtà concreta dell'amore di Dio.
L'edificio spirituale di molte persone crolla perché dimenticano questo primo punto: Dio ha amato l'umanità e ciascuno per primo. E questo amore non è una teoria, ma una realtà che si è fatta carne nell'umanità di Cristo. Il primo passo è quindi fare il fermo proposito di avere la croce di Cristo davanti agli occhi in ogni momento. “Gesù, amore incarnato, piagato per me”, appropriandosi di questa certezza: “Io sono stato amato di amore infinito, senza difetto. Non sono più una vittima, non ho bisogno di mendicare l'amore altrui”.
Il secondo punto viene da Santa Teresina del Bambin Gesù. Si tratta di come rispondere all'amore di Dio. Di fronte ai grandi santi, alcuni reagiscono con scoraggiamento, perché queste grandi anime rendono irraggiungibile l'ideale della santità; altri fanno di questi santi dei modelli e cercano di imitarli, desiderando una santità uguale alla loro.
La Piccola ha avuto la sua intuizione fondamentale percependo che esistono anime, grandi santi, grandi uomini e donne scelti da Dio, un'élite spirituale che la stragrande maggioranza dell'umanità non riuscirà mai ad imitare. A suo avviso, esiste però anche un'altra famiglia: quella delle Piccole Anime, nella quale ella si vedeva inclusa pur essendo una grande anima.
Nella sua dottrina, la santa afferma che anche le piccole anime possono amare Dio: non nel modo eroico in cui lo fanno i grandi santi, ma in modo ordinario, comune. Tutti sono chiamati a trasformare ciascuno dei piccoli atti della vita in amore per Dio. Offrire TUTTO a Gesù, il bene e il male, la gioia e la tristezza, la soddisfazione o la frustrazione, tutto per amore di Gesù. Santa Teresina ha trasformato tutti i piccoli atti ordinari della sua vita in amore, e per questo è stata straordinaria nell'ordinarietà in cui ha vissuto l'amore per Gesù.
Questo è il secondo punto: ricambiare colui che ha amato per primo. Questo insegnamento ha il grande vantaggio di portare la religione nella vita quotidiana, di modo che nessun abbia più bisogno di aspettare la data del martirio per compiere qualsiasi atto eroico di amore per Dio. Tutti possiamo amarlo da ora, subito. È per questo che Santa Teresina, pur avendo sofferto molto per la malattia del padre e per la propria, ha dimostrato di essere una donna dalla grande maturità spirituale pur avendo solo 24 anni. Il suo cammino spirituale è stato impressionante: da bambina coccolata, immatura e vittimista è stata trasformata da Dio in una grande santa. Ricambiare l'amore di Colui che ci ha amati per primo.
Il terzo punto viene da Santa Caterina da Siena, laica terziaria che non ha mai vissuto in un convento; era nubile ma non monaca nel senso tecnico della parola. Pur se analfabeta, scrisse molte lettere al papa, che si trovava ad Avignone, convincendolo a riprendere il suo posto nella Chiesa, e quindi in un certo senso ha cambiato il destino della Chiesa stessa.
Con i suoi gesti, la santa ci insegna una cosa molto importante: la conversione dei peccatori deve essere cercata da tutti, il che ci rende tutti apostoli. In lei si comprende ciò che insegna San Tommaso d'Aquino, secondo il quale l'amore può avere vari oggetti. L'oggetto materiale dell'amore può essere Dio, la propria persona o perfino i miliardi di persone della Terra, i santi, gli angeli, ecc. Tutti possono essere amati. La carità, l'amore, ha tuttavia un solo oggetto formale: Dio. Amare Dio per Dio, amare il prossimo per amore di Dio, amare se stessi per amore di Dio. Egli è la modalità con la quale si deve amare. La vita di apostolato, il sacrificio, la predicazione, la richiesta di conversione per i peccatori deve avere quindi come punto centrale l'amore per Dio. Solo così avrà senso.
Avere sempre davanti agli occhi l'amore di Dio incarnato e la croce di Cristo, ricordandosi del fatto che Egli ci ha amati per primo, è dunque il primo obiettivo. Il secondo è rispondere a questo amore nei piccoli gesti e negli atti ordinari quotidiani, il terzo è essere missionari portando altri a Dio, spinti a dare maggior gloria a Dio, facendo come un atto d'amore nei suoi confronti, riportando i suoi figli a casa. Ecco i passi che si possono dedurre dalle lezioni dei tre grandi Dottori che ci offrono un progetto spirituale.
Chi accetta la sfida?
[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]
sabato 14 febbraio 2015
Il libretto di Pavel Florenskij intitolato L’amicizia (Castelvecchi, 2013)......" Contemplazione di se stessi attraverso l’Amico in Dio"
Pavel Florenskij e l’amicizia come essenza dell’io
marzo 3, 2014
Giovanni Maddalena
L’essere
amici non è un’aggiunta al proprio io isolato e atomico. L’amicizia è
l’essenza dell’io, che è un insieme di relazioni dense e profonde, tanto
che «non si può dire se la persona sia prima della comunicazione o se
la comunicazione sia prima della persona». L’amicizia in questo senso è
più dell’amore, ne è la sua realizzazione più vera, perché reciproca.
Il libretto di Pavel Florenskij intitolato L’amicizia (Castelvecchi, 2013) è un inno a un nuovo principio di conoscenza, di azione, di vita sociale.
Come farà Benedetto XVI in Deus caritas est, Florenskij esalta la continuità e la transizione tra i verbi e i sostantivi greci dell’amore, fra eros, storghé, philia, agape. Nell’autore russo è la filia a essere esaltata come l’amore interiore che si vede dall’esteriore segno del baciarsi (philema), che nell’ortodossia è centro di un rito di affratellamento. Senza paura di moralismo e seguendo la suggestione di una verità più profonda di quella che il razionalismo può cogliere, Florenskij indica nell’amicizia il luogo e il vertice della comunione spirituale.
I greci avevano detto che l’amico è un “altro io” ma alla fine consideravano la famiglia come cellula della società, per la stabilità che essa permette. Il cristianesimo di Florenskij pone l’amicizia come la paradossale condizione per essere se stessi e il vertice dello stesso amore sponsale, che nell’amicizia si avvicina alla verginità, cioè all’unità perfetta. È «la molecola comunitaria, la coppia di amici che è il principio dell’azione, come la famiglia era la molecola della comunità pagana». Una famiglia è molecola della società solo se l’amore che vive è amicizia.
In che cosa consiste allora quest’amicizia? Nella contemplazione di se stessi attraverso l’Amico in Dio, dove uno vede se stesso nel modo in cui Dio stesso lo guarda. È un dono, una preferenza (intorno a Cristo ci sono le masse, l’entourage, i discepoli, gli amici segreti, i settanta, i dodici, i tre), che crea un nuovo essere fatto di un’anima in due corpi, nel quale ciascuno dà tutta la propria anima per portare la croce dell’altro, dove ciascuno viene ammesso e accettato «nella struttura dell’amante alla quale non riesce estraneo e dalla quale non viene respinto».
Non è un attributo tanto spiritualista, se è vero che Gesù consigliava di acquistarla con la disonesta ricchezza e i Padri dicono che è uno stringersi che abbatte il potere del demonio e del peccato (Teodoro, starec di Svirskij). «Si tratta di un detto straordinariamente interessante – commenta Florenskij – perché non dice di non malignare, di non adirarsi, di non litigare, ma raccomanda di stare insieme esteriormente, corporalmente, empiricamente».
Senza amicizia non ci sono gioia e sofferenza intense e non si può conoscere la verità di sé, degli altri e del mondo. Cosicché, dice il Crisostomo: «L’incomprensione dell’amicizia ha prodotto le eresie». Che cosa fa finire l’amicizia? Non la gelosia, che come tutto ciò che è autenticamente umano aiuta a conservarla, ma il tradimento della verità, l’andare contro ciò per cui l’amicizia esiste, per tornaconto o per comodità. La delazione è il primo e il definitivo segno della fine: «Chi svela segreti perde ogni speranza».
Il libretto di Pavel Florenskij intitolato L’amicizia (Castelvecchi, 2013) è un inno a un nuovo principio di conoscenza, di azione, di vita sociale.
Come farà Benedetto XVI in Deus caritas est, Florenskij esalta la continuità e la transizione tra i verbi e i sostantivi greci dell’amore, fra eros, storghé, philia, agape. Nell’autore russo è la filia a essere esaltata come l’amore interiore che si vede dall’esteriore segno del baciarsi (philema), che nell’ortodossia è centro di un rito di affratellamento. Senza paura di moralismo e seguendo la suggestione di una verità più profonda di quella che il razionalismo può cogliere, Florenskij indica nell’amicizia il luogo e il vertice della comunione spirituale.
I greci avevano detto che l’amico è un “altro io” ma alla fine consideravano la famiglia come cellula della società, per la stabilità che essa permette. Il cristianesimo di Florenskij pone l’amicizia come la paradossale condizione per essere se stessi e il vertice dello stesso amore sponsale, che nell’amicizia si avvicina alla verginità, cioè all’unità perfetta. È «la molecola comunitaria, la coppia di amici che è il principio dell’azione, come la famiglia era la molecola della comunità pagana». Una famiglia è molecola della società solo se l’amore che vive è amicizia.
In che cosa consiste allora quest’amicizia? Nella contemplazione di se stessi attraverso l’Amico in Dio, dove uno vede se stesso nel modo in cui Dio stesso lo guarda. È un dono, una preferenza (intorno a Cristo ci sono le masse, l’entourage, i discepoli, gli amici segreti, i settanta, i dodici, i tre), che crea un nuovo essere fatto di un’anima in due corpi, nel quale ciascuno dà tutta la propria anima per portare la croce dell’altro, dove ciascuno viene ammesso e accettato «nella struttura dell’amante alla quale non riesce estraneo e dalla quale non viene respinto».
Non è un attributo tanto spiritualista, se è vero che Gesù consigliava di acquistarla con la disonesta ricchezza e i Padri dicono che è uno stringersi che abbatte il potere del demonio e del peccato (Teodoro, starec di Svirskij). «Si tratta di un detto straordinariamente interessante – commenta Florenskij – perché non dice di non malignare, di non adirarsi, di non litigare, ma raccomanda di stare insieme esteriormente, corporalmente, empiricamente».
Senza amicizia non ci sono gioia e sofferenza intense e non si può conoscere la verità di sé, degli altri e del mondo. Cosicché, dice il Crisostomo: «L’incomprensione dell’amicizia ha prodotto le eresie». Che cosa fa finire l’amicizia? Non la gelosia, che come tutto ciò che è autenticamente umano aiuta a conservarla, ma il tradimento della verità, l’andare contro ciò per cui l’amicizia esiste, per tornaconto o per comodità. La delazione è il primo e il definitivo segno della fine: «Chi svela segreti perde ogni speranza».
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Accoglietevi gli uni gli altri (Chiara Lubich)
Roma (Città Nuova), 10 novembre 1992
Commento alla Parola di vita:Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio(Rm 15,7)Queste parole sono una delle raccomandazioni finali rivolte da san Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma. Questa comunità, come del resto tante altre sparse nel mondo greco-romano, era formata da credenti che provenivano in parte dal paganesimo ed in parte dal giudaismo, quindi con mentalità, formazione culturale e sensibilità spirituale molto diverse. Questa diversità dava adito a giudizi, prevenzioni, discriminazioni ed intolleranze degli uni verso gli altri, che certamente non si accordavano con quella accoglienza reciproca che Dio avrebbe voluto da loro.
Per aiutarli a superare tali difficoltà l'Apostolo non trova mezzo più efficace che farli riflettere sulla grazia della loro conversione. Il fatto che Gesù li avesse chiamati alla fede, comunicando loro il dono del suo Spirito, era la prova tangibile dell'amore con cui Gesù aveva accolto ciascuno di loro. Nonostante il loro passato e diversità di provenienza, Gesù li aveva accolti per formare un solo corpo.
Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi, per la gloria di DioQueste parole di san Paolo ci richiamano uno degli aspetti più toccanti dell'amore di Gesù. E' l'amore con cui Gesù durante la sua vita terrena ha sempre accolto tutti, in modo particolare i più emarginati, i più bisognosi, i più lontani. E' l'amore con cui Gesù ha offerto a tutti la sua fiducia, la sua confidenza, la sua amicizia, abbattendo ad una ad una le barriere che l'orgoglio e l'egoismo umano avevano eretto nella società del suo tempo. Gesù è stato la manifestazione dell'amore pienamente accogliente del Padre celeste verso ciascuno di noi e dell'amore che, di conseguenza, noi dovremmo avere gli uni verso gli altri. E' questa la prima volontà del Padre su di noi; per cui non potremmo rendere al Padre una gloria più grande di quella che gli rendiamo quando cerchiamo di accoglierci gli uni gli altri a quel modo con cui Gesù ha accolto noi.
Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi, per la gloria di DioCome vivremo allora la Parola di vita di questo mese? Essa richiama la nostra attenzione su uno degli aspetti del nostro egoismo più frequenti e, diciamo pure, più difficile da superare: la tendenza ad isolarci, a discriminare, ad emarginare, ad escludere l'altro in quanto è diverso da noi e potrebbe disturbare la nostra tranquillità.
Cercheremo allora di vivere questa Parola di vita innanzitutto all'interno delle nostre famiglie, associazioni, comunità, gruppi di lavoro, eliminando in noi i giudizi, le discriminazioni, le prevenzioni, i risentimenti, le intolleranze verso questo o quel prossimo, così facili e così frequenti, che tanto raffreddano e compromettono i rapporti umani ed impediscono, bloccando come una ruggine, l'amore vicendevole.
E poi nella vita sociale in genere, proponendoci di testimoniare l'amore accogliente di Gesù verso qualsiasi prossimo il Signore ci metta accanto, specialmente quelli che l'egoismo sociale tende più facilmente ad escludere o ad emarginare.
L'accoglienza dell'altro, del diverso da noi, sta alla base dell'amore cristiano. E' il punto di partenza, il primo gradino per la costruzione di quella civiltà dell'amore, di quella cultura di comunione, alla quale Gesù ci chiama soprattutto oggi.
Chiara Lubich
sabato 7 febbraio 2015
IL SENSO DELLA CARITATIVA (Don Giussani)...mettere in comune noi stessi
SCOPO
I
Innanzitutto
la natura nostra ci dà l'esigenza
di
interessarci degli altri.
Quando
c'è qualcosa di bello in
noi,
noi ci sentiamo spinti a comunicarlo
agli altri.
Quando si vedono altri che stanno peggio di noi,
Quando si vedono altri che stanno peggio di noi,
ci
sentiamo spinti ad aiutarli
in
qualcosa di nostro. Tale esigenza
è talmente originale, talmente naturale,
che
è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e
noi
la chiamiamo giustamente legge dell'esistenza.
Noi
andiamo in «caritativa» per soddisfare
questa esigenza.
II
Quanto
più noi viviamo questa esigenza e questo
dovere, tanto più realizziamo noi stessi;
comunicare
agli altri ci dà proprio
l'esperienza
di completare noi stessi.
Tanto è vero che, se non
Tanto è vero che, se non
riusciamo
a dare, ci sentiamo diminuiti.
Interessarci
degli altri, comunicarci
agli altri, ci fa
compiere
il supremo, anzi
unico, dovere della vita,
che è realizzare noi stessi, compiere noi stessi.
che è realizzare noi stessi, compiere noi stessi.
Noi
andiamo in «caritativa» per imparare
a compiere questo dovere.
III
Ma
Cristo ci ha fatto capire il perché
profondo di tutto ciò svelandoci
la legge ultima dell'essere edella
vita: la carità. La legge suprema,
cioè, del nostro essere è condividere
l'essere degli altri, è mettere
in comune se stessi.
Solo
Gesù Cristo ci dice tutto questo, perché Egli
sa
cos'è ogni cosa, che cos'è Dio da cui nasciamo,
che
cos'è l'Essere.
Tutta
la parola «carità» riesco a spiegarmela quando
penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci hamandato
le sue ricchezze come avrebbe potuto fare
,
rivoluzionando la nostra
situazione, ma si è
fatto
misero come noi, ha «condiviso» la nostra nullità.
Noi
andiamo in «caritativa» per imparare a vivere come Cristo.
CONSEGUENZE
I
La
carità è legge dell'essere e viene prima di ogni
simpatia
e di ogni commozione. Perciò il fare per
gli
altri è nudo e può essere privo
di entusiasmo. Potrebbe beni
ssimo
non esserci nessun risultato
cosiddetto
«concreto» - per noi l'unico
atteggiamento «concreto» è
l'attenzione
alla persona, la considerazione
della persona, cioè l'amore
.
Tutto
il resto può venire di conseguenza: come Gesù che
dopo fece
i miracoli e sfamò
la gente.
per
la nostra apertura agli altri
noi dobbiamo notare:
1.
Sovvenire
ai bisogni altrui.
È
un punto di partenza ancora incompleto!
Qual
è il bisogno altrui?
Questa
impostazione è ambigua, dipende da cosa noi
crediamo
che sia il bisogno
altrui: e se ciò che
io
porto non è veramente quello di cui essi ha
nno
bisogno? Ciò di cui hanno veramente bisogno
non
lo so io, non lo misuro io, non ce l'ho io. È una misura che non
possiedo io: è una misura chesta
in Dio. Perciò le «leggi» e le
«giustizia»
possono schiacciare,
se dimenticassero o pretendessero
sostituirlo,
l'unico «concreto» che ci sia:
la
persona, e l'amore alla persona.
2.
L'amicizia.
Anche
cominciare puntando sull'amicizia, con tutta
l'ambiguità che ci può comportare, èi ncompleto.
L'amicizia
è una corrispondenza che si può trovare
o no, un avvenimento non essenziale per la nostra
azione di oggi, anche se essenziale
per il nostro destino finale.
II
L'andare
agli altri liberamente, il condividere un po'
della loro vita e il mettere
in comune un po' della
nostra, ci fa scoprire una cosa sublime
e misteriosa (sì capisce facendo!).
È
la scoperta del fatto che proprio perché li amiamo,
non
siamo noi a farli contenti;
e
che neppure la
più perfetta società, l'organismo legalmente
più
saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute
più di ferro, la bellezza più pura, la civiltà
più educata li potrà mai fare contenti.
È
un Altro che li può fare contenti. - Chi è la ragione
di tutto? Chi ha
fatto tutto? Dio.
Allora
Gesù non rimane più soltanto
colui che mi annuncia la parola
più vera, che mi spiega la legge
della mia realtà, non è più la luce della mia
mente
soltanto: io scopro che Cristo è il senso
della
mia vita.
È
bellissima la testimonianza di chi ha sperimentato
questo valore: «Io continuo ad andare incaritativa
perché tutta la mia e
la
loro sofferenza hanno un senso».
Sperando
in Cristo, tuttoha
un senso, Cristo.
Questo
scopro, finalmente, nell'ambito dove vado
in
«caritativa», proprio attraverso
l'impotenza
finale
del mio amore: ed è l'esperienza in cui
l'intelligenza
affonda nella saggezza, nella cultura
vera.
III
Ma
il Cristo è presente adesso: non «è stato», non
«è
nato», ma «c'è», «nasce» oggi: è la Chiesa. La
Chiesa
è il Cristo, presente adesso,
come Lui ha voluto.
Perciò
la speranza ci sostiene; Dio stesso
è tra noi, è presente tra noi.
Uno
di noi, in una discussione ha detto: «Continuo
ad
andare a .... perché ci siete
voi». È verissimo:
proprio
il senso del nostro essere insieme, della comunità
ecclesiale, ci fa tirare
avanti oggi fra gli handicappati,
negli ospizi, con chiunque è bisognoso
e, domani, nella fabbrica, nella città, in Europa,
nel Mondo che è così grande e Lo aspetta.
DIRETTIVE
1.
Sapere
perché.
Finché
non sapremo bene, con chiarezza e
semplicità
il
perché ultimo, lo scopo del nostro fare, fino
allora
non bisognerà mai stare quieti.
Il nostro scopo è tirar fuori da quel che facciamo il senso,
l'idea, per la quale esclusivamente potremo riuscire ad essere fedeli,
quando non saremo più entusiasti o non provassimo più gusto.
Il nostro scopo è tirar fuori da quel che facciamo il senso,
l'idea, per la quale esclusivamente potremo riuscire ad essere fedeli,
quando non saremo più entusiasti o non provassimo più gusto.
Occorrerà
quindi dialogare nellenostre
assemblee, a gruppetti, con
i responsabili della comunità,con
le persone più mature e vive.
Soprattutto revisionarsi ogni tanto attraverso contatti «centrali».
Soprattutto revisionarsi ogni tanto attraverso contatti «centrali».
2.
Fare
per comprendere.
Per
capire non basta sapere,occorre
fare, con quel coraggio,
della libertà, che è aderire all'essere
della libertà, che è aderire all'essere
che
si vede, cioè alla verità.
Se
la legge dell'esistenza è mette
re
in comune se stessi, noi dovremmo
condividere tutto, ogni istante.
Questa
è la maturità suprema, che si chiama umanità
o
santità. Per educarci a
questo ideale, l'esserci
costretti
dalle circostanze (il «dovere» nel senso
solito) serve molto più difficoltosamente.
È
il piccolo tempo libero che mi educa; ciò che dà l'esatta
misura della mia disponibilità agli altri è,l'uso
di quel tempo che è solo mio, in cui posso fare «ciò che ho
voglia». Ci formiamo così una mentalità,
un
modo quasi istintivo di concepire la
vita tutta come un condividere.
Il
piccolo tempo libero redime tutto il resto. E, adagio
adagio, andando in «caritativa» si incomincia a
capire di più il compagno di banco, il papà
e la mamma, il collega di lavoro.
È
soprattutto l'età della giovinezza il momento
unico in cui possiamo con agilità, almeno normalmente,
assimilare questa mentalità. Ed è
solo cominciando a fare, a donare del tempo libero come
integrale gesto di libertà, che la carità
cristiana
diventerà mentalità, convinzione,
dimensione
L’amicizia è un’anima sola che vive in due corpi. Aristotele
A ciascuno è affidato il compito di vegliare sulla solitudine dell’altro.
L'amicizia cristiana secondo Don Giussani
L’elogio
dell’amicizia è virtù di chi lo esprime. Grande virtù.
Riverbero sulla
faccia e nel cuore umani del Mistero di Dio, come s’è fatto conoscere a
coloro che il Padre ha prescelti, attraverso il Figlio per il dono dello
Spirito.
Virtù
che può accendersi dovunque, nel mondo; col suo presentimento di unità,
con la sua capacità di ascolto e volontà di dedizione.
Ma su suolo
cristiano essa può attecchire solida e ampia, eterna e comprensiva: non
coerenza, -non invadenza, ma imitazione del Mistero di Dio cui lo
Spirito discretamente e fortemente richiama.
Al di fuori di questa terra
benedetta. resta impeto nobile e triste, inquieto nella consapevolezza
della sua precarietà
Signore, fammi buono amico di tutti
SIGNORE,
AIUTAMI
Signore, fammi buono amico
di tutti,
fa' che la mia persona
ispiri fiducia
a chi soffre e si
lamenta,
a chi cerca luce lontano da Te,
a chi vorrebbe incominciare e non sa
come,
a chi vorrebbe confidarsi e non se ne
sente capace.
Signore aiutami
perchè non passi accanto a nessuno
con il volto indifferente,
con il cuore
chiuso,
con il passo affrettato.
Signore aiutami ad accorgermi subito
di quelli che mi stanno accanto,
di quelli che sono preoccupati e
disorientati,
di quelli che si sentono isolati senza
volerlo.
Signore, dammi una
sensibilità
che sappia andare incontro ai
cuori.
Signore, liberami dall'egoismo
perchè Ti possa servire,
perchè Ti possa amare,
perchè Ti possa ascoltare
in ogni fratello
che mi fai incontrare.
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