D..La domanda che Le pongo: come è
possibile in questa società, con una Chiesa che si auspica di crescita e
di sviluppo, in questa società in una evoluzione dinamica e
conflittuale e molto spesso lontana dai valori del Vangelo di Cristo,
noi siamo una Chiesa molto spesso in ritardo. La Sua rivoluzione
linguistica, semantica, culturale, di testimonianza evangelica sta
suscitando nelle coscienze certamente una crisi esistenziale per noi
sacerdoti. Come Lei suggerisce a noi delle vie, fantasiose e creative,
per superare o quanto meno per attutire questa crisi che noi avvertiamo?
Grazie.
R. (Santo Padre)
Ecco.
Come è possibile, con la Chiesa in crescita e sviluppo, andare
avanti? Lei diceva alcune cose: equilibrio, apertura dialogica… Ma, come
è possibile andare? Lei ha detto una parola che mi piace tanto: è una
parola divina, se è umana è perché è un dono di Dio: creatività. E’ il comandamento che Dio ha dato ad Adamo: “Va e fa crescere la Terra. Sii
creativo”.
È anche il comandamento che Gesù ha dato ai suoi, mediante lo Spirito
Santo, per esempio la creatività della prima Chiesa nei rapporti con
l’ebraismo: Paolo è stato un creativo; Pietro, quel giorno quando è
andato da Cornelio, aveva una paura di quelle, perché stava facendo una
cosa nuova, una cosa creativa. Ma lui è andato là. Creatività è la
parola.
E come si può trovare questa creatività? Prima di tutto – e
questa è la condizione se noi vogliamo essere creativi nello
Spirito, cioè nello Spirito del Signore Gesù – non c’è altra strada che
la preghiera. Un Vescovo che non prega, un prete che non prega ha chiuso
la porta, ha chiuso la strada della creatività. E’ proprio nella
preghiera, quando lo Spirito ti fa sentire una cosa, viene il diavolo e
te ne fa sentire un’altra; ma nella preghiera è la condizione per andare
avanti. Anche se la preghiera tante volte può sembrare noiosa. La
preghiera è tanto importante. Non solo la preghiera dell’Ufficio divino,
ma la liturgia della Messa, tranquilla, ben fatta con devozione, la
preghiera personale con il Signore. Se noi non preghiamo, saremo forse
buoni imprenditori pastorali e spirituali, ma la Chiesa senza preghiera
diviene una ONG, non ha quella
unctio Spiritu Sancti. La
preghiera è il primo passo, perché è aprirsi al Signore per potersi
aprire agli altri. E’ il Signore che dice: “Vai qua, vai di là, fai
questo …”, ti suscita quella creatività che a tanti Santi è costata
molto. Pensate al Beato Antonio Rosmini, colui che ha scritto
Le cinque piaghe della Chiesa,
è stato proprio un critico creativo, perché pregava. Ha scritto ciò che
lo Spirito gli ha fatto sentire, per questo è andato nel carcere
spirituale, cioè a casa sua: non poteva parlare, non poteva insegnare,
non poteva scrivere, i suoi libri erano all’indice. Oggi è Beato! Tante
volte la creatività ti porta alla croce. Ma quando viene dalla
preghiera, porta frutto. Non la creatività un po’ alla
sans façon
e rivoluzionaria, perché oggi è di moda fare il rivoluzionario; no
questa non è dello Spirito. Ma quando la creatività viene dallo Spirito e
nasce nella preghiera. ti può portare problemi.
La creatività che viene
dalla preghiera ha una dimensione antropologica di trascendenza, perché
mediante la preghiera tu ti apri alla trascendenza, a Dio. Ma c’è anche
l’altra trascendenza: aprirsi agli altri, al prossimo. Non bisogna
essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa
autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere. È
importante la trascendenza duplice: verso Dio e verso il prossimo.
Uscire da sé non è un’avventura, è un cammino, è il cammino che Dio ha
indicato agli uomini, al popolo fin dal primo momento quando disse ad
Abramo: “Vattene dalla tua terra”. Uscire da sé. E quando io esco da me,
incontro Dio e incontro gli altri. Come li incontro gli altri? Da
lontano o da vicino? Occorre incontrarli da vicino, la vicinanza.
Creatività, trascendenza e vicinanza. Vicinanza è una parola chiave:
essere vicino. Non spaventarsi di niente. Essere vicino. L’uomo di Dio
non si spaventa. Lo stesso Paolo, quando ha visto tanti idoli ad Atene,
non si è spaventato, ha detto a quella gente: “Voi siete religiosi,
tanti idoli … ma, io vi parlerò di un altro”. Non si è spaventato e si è
avvicinato a loro, ha citato anche i loro poeti: “Come dicono i vostri
poeti …”. Si tratta di vicinanza a una cultura, vicinanza alle persone,
al loro modo di pensare, ai loro dolori, ai loro risentimenti. Tante
volte questa della vicinanza è proprio una penitenza, perché dobbiamo
sentire cose noiose, cose offensive. Due anni fa, un sacerdote che è
andato missionario in Argentina - era della diocesi di Buenos Aires ed è
andato in una diocesi al Sud, in una zona dove da anni non avevano
prete, ed erano arrivati gli evangelici – mi raccontava che andò da una
donna che era stata la maestra del popolo e poi la direttrice della
scuola del paese.
Questa signora lo fece sedere e incominciò a
insultarlo, non con parolacce, ma insultarlo con forza: “Voi ci avete
abbandonati, ci avete lasciati soli, e io che ho bisogno della Parola di
Dio sono dovuta andare al culto protestante e mi sono fatta
protestante”. Questo sacerdote giovane, che è un mite, è uno che prega,
quando la donna finì la cataratta, disse: “Signora, soltanto una
parola: perdono. Perdonaci, perdonaci. Abbiamo abbandonato il gregge”. E
il tono di quella donna è cambiato. Tuttavia rimase protestante e il
prete non andò sull’argomento di quale fosse la vera religione: in quel
momento non si poteva fare questo. Alla fine, la signora incominciò a
sorridere e disse: “Padre vuole un caffè?” – “Sì, prendiamo il caffè”. E
quando il sacerdote stava per uscire, disse: “Si fermi padre, venga”, e
lo ha portato in camera da letto, ha aperto l’armadio e c’era
l’immagine della Madonna: “Lei deve sapere che mai l’ho abbandonata.
L’ho nascosta a causa del pastore, ma in casa c’è!”. E’ un aneddoto che
insegna come la vicinanza, la mitezza hanno fatto sì che questa donna si
riconciliasse con la Chiesa, perché si sentiva abbandonata dalla
Chiesa. E io ho fatto una domanda che non si deve fare mai: “E poi,
com’è finita? Com’è finita la cosa?”. Ma il prete mi ha corretto: “Ah,
no, io non ho chiesto niente: lei continua ad andare al culto
protestante, ma si vede che è una donna che prega: faccia il Signore
Gesù”. E non è andato oltre, non ha invitato a tornare alla Chiesa
cattolica. E’ quella vicinanza prudente, che sa fino a dove si deve
arrivare. Ma, vicinanza significa pure dialogo; bisogna leggere nella
Ecclesiam Suam,
la dottrina sul dialogo, poi ripetuta dagli altri Papi. Il dialogo è
tanto importante, ma per dialogare sono necessarie due cose: la propria
identità come punto di partenza e l’empatia con gli altri. Se io non
sono sicuro della mia identità e vado a dialogare, finisco per barattare
la mia fede. Non si può dialogare se non partendo dalla propria
identità, e l’empatia, cioè non condannare a priori. Ogni uomo, ogni
donna ha qualcosa di proprio da donarci; ogni uomo, ogni donna, ha la
propria storia, la propria situazione e dobbiamo ascoltarla. Poi la
prudenza dello Spirito Santo ci dirà come rispondervi. Partire dalla
propria identità per dialogare, ma il dialogo, non è fare l’apologetica,
anche se alcune volte si deve fare, quando ci vengono poste delle
domande che richiedono una spiegazione. Il dialogo è cosa umana, sono i
cuori, le anime che dialogano, e questo è tanto importante! Non avere
paura di dialogare con nessuno.
Si diceva di un santo, un po’ scherzando
– non ricordo, credo fosse San Filippo Neri, ma non sono sicuro – che
fosse capace di dialogare anche con il diavolo. Perché? Perché aveva
quella libertà di ascoltare tutte le persone, ma partendo dalla propria
identità. Era tanto sicuro, ma essere sicuro della propria identità non
significa fare proselitismo. Il proselitismo è una trappola, che anche
Gesù un po’ condanna, en passant, quando parla ai farisei e
sadducei: “Voi che fate il giro del mondo per trovare un proselito e poi
vi ricordate di quello …” Ma, è una trappola. E Papa Benedetto ha
un’espressione tanto bella, l’ha fatta ad Aparecida ma credo che l’abbia
ripetuta in altra parte: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per
attrazione”. E cosa è l’attrazione? È questa empatia umana che poi
viene guidata dallo Spirito Santo. Pertanto come sarà il profilo del
prete di questo secolo così secolarizzato? Un uomo di creatività, che
segue il comandamento di Dio – “creare le cose” -; un uomo di
trascendenza, sia con Dio nella preghiera, sia con gli altri, sempre; un
uomo di vicinanza che si avvicina alla gente. Allontanare la gente non è
sacerdotale e di questo atteggiamento la gente a volte è stufa, eppure
viene da noi lo stesso. Ma chi accoglie la gente ed è vicino ad essa,
dialoga con essa lo fa perché si sente sicuro della propria identità,
che lo spinge ad avere il cuore aperto all’empatia. Questo è quello che
mi viene di dire a lei, alla sua domanda..........
Contemplativo, ma non come uno che è nella Certosa, non intendo
questa contemplatività. Il sacerdote deve avere una contemplatività, una
capacità di contemplazione sia verso Dio sia verso gli uomini. E’ un
uomo che guarda, che riempie i suoi occhi e il suo cuore di questa
contemplazione: con il Vangelo davanti a Dio, e con i problemi umani
davanti agli uomini. In questo senso deve essere un contemplativo. Non
bisogna fare confusione: il monaco è un’altra cosa. ................................................................................
........... Una volta
mi diceva un sacerdote, qui a Roma: “Ma, io vedo che tante volte noi
siamo una Chiesa di arrabbiati, sempre arrabbiati uno contro l’altro;
abbiamo sempre qualcosa per arrabbiarci”. Questo porta la tristezza e
l’amarezza: non c’è la gioia. Quando troviamo in una Diocesi un
sacerdote che vive così arrabbiato e con questa tensione, pensiamo: ma
quest’uomo al mattino per colazione prende l’aceto. Poi, a pranzo, le
verdure sott’aceto, e poi alla sera una bella spremuta di limone. Così
la sua vita non va, perché è l’immagine di una Chiesa degli arrabbiati.
Invece la gioia è il segno che va bene. Uno può arrabbiarsi: è anche
sano arrabbiarsi una volta. Ma lo stato di arrabbiamento non è del
Signore e porta alla tristezza e alla disunione. E alla fine, lei ha
detto “la fedeltà a Dio e all’uomo”. E’ lo stesso che abbiamo detto
prima. E’ la doppia fedeltà e la doppia trascendenza: essere fedeli a
Dio è cercarlo, aprirsi a Lui nella preghiera, ricordando che Lui è il
fedele, Lui non può rinnegare se stesso, è sempre fedele. E poi aprirsi
all’uomo; è quell’empatia, quel rispetto, quel sentirlo, e dire la
parola giusta con la pazienza.........