Suor Marta racconta a tempi.it
cosa significa vivere con «i cecchini appostati sui tetti». Le violenze,
la povertà, le armi. «Non ce ne andiamo: è il nostro popolo, il nostro
paese»
Quattro suore trappiste in terra musulmana. Un monastero cistercense di stretta osservanza appollaiato su una collina mentre tutt’intorno infuria la guerra. È la storia di suor Marta e altre tre monache italiane che otto anni fa hanno deciso di fondare un monastero in Siria, in un villaggio maronita al confine col Libano, fra Homs e Tartous. Le quattro sorelle si sono mischiate ai sunniti e agli alawiti «per seguire l’esperienza dei nostri fratelli di Tibhirine», i monaci uccisi in Algeria da terroristi islamici la cui storia è stata anche raccontata dal film Uomini di Dio.
A tempi.it suor Marta racconta cosa significa «vivere in un contesto in cui i cristiani sono minoranza» e perché non se ne sono andate da «una guerra assurda e atroce» che «distrugge la maggioranza della Siria», con «i cecchini appostati sui tetti» e i proiettili che non risparmiano neanche il loro monastero.
Suor Marta, che cosa significa seguire l’esperienza dei monaci di Tibhirine?
Il cuore dell’esperienza dei nostri fratelli era ciò che loro stessi esprimevano, cioè sentirsi come degli “oranti in mezzo ad altri oranti”. Si percepivano così: uomini di preghiera, che entravano in dialogo con i loro vicini musulmani proprio attraverso la preghiera. Cioè lo stare, come uomini, di fronte a Dio.
Perché avete deciso di ripetere la loro esperienza?
Ci siamo sentite interpellate da questa eredità, da questa “proposta” di vita: in un contesto in cui i cristiani sono minoranza, riscegliere la nostra vocazione monastica – nulla anteporre a Cristo – diventa allo stesso tempo un invito alla radicalità e un’apertura all’altro.
Perché proprio la Siria?
La scelta della Siria è dovuta a un cammino “provvidenziale”, di segno in segno. Non sapevamo nulla, allora, di questo paese. Pensare all’Algeria, soprattutto come donne, era impossibile. In Marocco c’è già una comunità di fratelli, fra cui i sopravvissuti di Tibhirine, e i vescovi in quel momento desideravano un profilo basso, niente comunità nuove. Allora abbiamo girato lo sguardo dal Maghreb al Mashreq e con l’aiuto di religiosi amici abbiamo fatto il primo viaggio sul posto, incontrando alcuni vescovi. Tutti ci hanno accolto bene, il vicario latino monsignor Nazzaro ci ha offerto un appartamento ad Aleppo, accanto ad altre suore, dove alloggiare il tempo necessario per cercare un terreno dove costruire il monastero. Il dado era tratto.
Che differenza c’è tra l’Algeria e la Siria?
La scelta del Medio Oriente ha aggiunto alla realtà del vivere in un paese a maggioranza islamica anche quella di trovarci immerse nella vita e nelle tradizioni delle Chiese orientali, che sono tutte presenti in Siria, ad eccezione di quella Copta.
Come avete individuato il luogo dove costruire il monastero?
Siamo rimaste ad Aleppo più di cinque anni, nel frattempo abbiamo trovato un terreno rurale presso un villaggio maronita al confine col Libano, fra Homs e Tartous. Nella nostra zona ci sono due piccoli villaggi cristiani, e poi villaggi sunniti e alawiti. Ci è piaciuta subito questa convivenza fra diversi, che del resto avevamo trovato in tutta la Siria, ed anche la semplicità e la bellezza naturale della zona, adatte a fare del Monastero un luogo di pace, di ascolto profondo.
Come siete state accolte dalla popolazione siriana?
Sia ad Aleppo sia nel luogo dove ci siamo trasferite per costruire il Monastero siamo state sempre accolte da tutti con calore, con simpatia.
Nessuna diffidenza?
No, nessuna. Anzi, siamo state molto aiutate dai cristiani e dai musulmani. In Siria si vive insieme, i rapporti sono quotidiani, continui. E soprattutto c’è molto rispetto per ciò che è “religioso”, per la preghiera, per la fede in Dio. È questo che ci ha fatto sempre sentire a casa. A volte, quando ritorniamo in Italia, ci sentiamo molto più “estranee” a Roma. Certo c’era curiosità, perché l’ambiente non è cristiano. La gente aveva il desiderio di capire chi eravamo, anche perché non siamo infermiere o insegnanti.
La vostra zona è stata colpita dalla guerra civile?
Nella nostra zona l’instabilità è cominciata da subito, molto prima che ad Aleppo, ad esempio, ma grazie a Dio non ha raggiunto la gravità e l’atrocità che ora colpisce la maggioranza della Siria. Ci sono stati scontri a fuoco, più volte anche sul nostro terreno, ma non c’è mai stata una volontà distruttiva verso di noi o verso il villaggio da nessuna delle parti in causa, anche se più volte i proiettili sono arrivati vicini e abbiamo avuto qualche danno agli edifici. Noi siamo vicine al confine con il Libano, quindi molto spesso la notte ci sono bande armate di ribelli che cercano di entrare in Siria, trasportando armi e accompagnando nuovi combattenti. Cercano di aprirsi un varco nella zona, per poi andare a Homs e nelle parti dove si combatte di più.
Quali sono state le immediate conseguenze della guerra?
Per noi, come per tutti, è stata ed è una cosa logorante. Da subito nella zona si sono guastati i rapporti di convivenza tra sunniti e alawiti, e presto si è arrivati alla violenza. Ci sono state uccisioni di civili, cecchini sui tetti, una vera tristezza. Prima vivevamo tutti insieme, i ragazzi andavano nelle stesse scuole, i negozi erano uno accanto all’altro.
Perché avete deciso di restare, potendo riparare in Italia fino alla fine del conflitto?
Non ci sembrava possibile, e neanche lo desideravamo, fare diversamente. È il nostro popolo, il nostro Paese ormai. La nostra comunità in Italia ci sostiene e poi siamo col villaggio, viviamo tutto questo con loro. Nonostante la paura che proviamo quando i colpi arrivano troppo vicini al Monastero, per Grazia, siamo molto serene. Di fatto, senza averlo previsto, siamo anche nella sola zona della Siria, quella di Tartous, rimasta ancora “vivibile”.
E se la vostra zona fosse presa dai ribelli? Non vi spaventa la possibilità di rapimenti come avvenuto a due sacerdoti e due vescovi?
La paura della gente, qui, è che si possa fare del nostro villaggio qualcosa di simile a Quseyr, o altre zone di confine: una postazione fissa dei jihadisti, che costringerebbero i cristiani alla fuga e ucciderebbero tutti quelli che non si uniscono ai salafiti. La paura più forte è la pressione che può venire dal confine col Libano.
La Siria è spaccata in due, pro e contro Assad?
La popolazione è stanca, sfinita dalle violenze atroci, da una parte e dall’altra, e dalla morte di tante, tantissime persone, soprattutto giovani. Poi le sanzioni internazionali, un vero giogo iniquo che pesa quasi esclusivamente sui poveri e sui più poveri fra i poveri.
Perché?
Il costo della vita è salito alle stelle, tanta gente soffre la fame e non ha più casa. È difficile però parlare di due fazioni. Diciamo che le fazioni erano molto diversificate all’inizio; ma tutto ciò che poteva essere la realtà interna della Siria è stata fin da subito spazzata via dal gioco di interessi esterni che proprio niente hanno a che vedere con la libertà e la dignità dei siriani. Poi, col protrarsi di questa assurda guerra, si è arrivati all’esasperazione del conflitto fra sunniti e sciiti. Ma se questo è il gioco “esterno”, “storico”, all’interno non è sempre così vero: in fondo, all’interno della Siria sempre più ci si divide tra chi accetta questa logica di morte e chi la rifiuta. Tra chi accetta che una visione fondamentalista possa prendere il governo del paese e chi la rifiuta totalmente. E tra questi ci sono anche molti sunniti. È questa la vera speranza della Siria: la gente stessa, sperando che la maggioranza avrà il coraggio di rifiutare la logica del più forte.
L’Occidente è spaccato tra chi pensa che sarebbe meglio armare i ribelli e chi crede che il dialogo e la trattativa siano l’unica soluzione percorribile.
Nessun dubbio. Non c’è altra strada se non quella del dialogo, di una soluzione politica che rispetti veramente la volontà dei siriani. Tutti i siriani, però, non solo i più mediatici. Perché di questi ultimi si parla tanto, ma nella realtà hanno ben poca voce. In Siria ormai c’è un arsenale di armi spaventoso, messo in mano persino a ragazzini. Non si può essere ingenui: purtroppo c’è chi vuole tutto questo. Ma chi si chiede davvero dove sia il bene, basta che guardi attorno e pensi alla storia di questi ultimi decenni: c’è una sola situazione in cui le armi non abbiano portato morte, distruzione, avvilimento delle persone, annientamento delle culture? Mi sembra che la voce della Chiesa sia molto chiara, a cominciare dal Papa. Basterebbe ascoltarla.
Avete ancora speranza per il futuro della Siria?
Ci dà speranza soprattutto la gente, la loro capacità di portare questa situazione mettendosi nelle mani di Dio. Questa è una vera forza per un popolo. Noi, poi, siamo cristiane e la speranza che ci fa vivere è più profonda e più forte di qualunque atrocità, di qualunque devastazione. Noi speriamo nel Dio della vita. E siccome speriamo in Dio, possiamo anche sperare nell’uomo, aldilà di tutto, anche se forse ci sarà ancora molto da patire. E poi ci sarà tanto “lavoro” dopo, bisognerà ricostruire. Non solo gli edifici, ma soprattutto l’integrità delle coscienze, il perdono reciproco, il rispetto. C’è speranza perché Cristo è davvero risorto, attraverso tutte le nostre morti.
Leone Grotti
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