Stefano Zamagni (Rimini, 1943) è un economista italiano, presidente dell'Agenzia per le Onlus.
Si è laureato nel 1966 in Economia e Commercio presso Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dopo aver vinto una borsa di studio per il Collegio Augustinianum.
Dal 1985 al 2007 ha insegnato Storia dell'analisi economica alla Bocconi di Milano, mentre negli anni ha lavorato anche per la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, sede di Bologna.
Per l'Università di Bologna ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di Economia, impegnandosi negli anni soprattutto negli studi sul mondo del No profit, arrivanto all'attivazione di uno specifico corso di Laurea ("Economia delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni Non Profit")
In quanto consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, fra il 2007 ed il 2009 è tra principali collaboratori di Papa Benedetto XVI per la stesura del testo dell'Enciclica Caritas in veritatePer l'Università di Bologna ha ricoperto numerosi ruoli, tra cui la presidenza della Facoltà di Economia, impegnandosi negli anni soprattutto negli studi sul mondo del No profit, arrivanto all'attivazione di uno specifico corso di Laurea ("Economia delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni Non Profit")
..........alcuni brani dell'intervista......pubblicata sulla rivista del MEC "Dialoghi Carmelitani"(dialoghi@mec-carmel.org)
In questo momento sono molti quelli che vanno riscoprendo il fondamento e il valore della Dottrina Sociale della Chiesa, molto più che in passato. Richiamando ancora per un attimo la parabola del figlio prodigo possiamo dire che quando ci si accorge non solo di non avere più soldi, ma neanche il cibo garantito ai maiali (!), a quel punto ci si ravvede dalla follia precedente e si può ritornare sui propri passi.
Negli anni passati molti economisti si erano impegnati a sbeffeggiare la Dottrina Sociale della Chiesa come un discorso adatto solo a sottosviluppati dal punto di vista culturale; oggi c’è crisi, invece, e una crisi di tali proporzioni che molti si stanno ricredendo. Infatti, ci si accorge che o l’attività economica tornerà ad essere quello che dovrebbe essere, cioè un’attività finalizzata al bene comune, oppure non ci saranno sbocchi diversi da queste crisi, anche in futuro. Ma perché questo accada è necessaria una svolta culturale decisiva, e cioè il ritorno al matrimonio tra etica ed economia.
In secondo luogo, va detto che la crisi è una situazione che apre spazi nuovi di impegno e di accoglienza per la Dottrina Sociale della Chiesa, che normalmente sono più ristretti, mentre tutto sembra andare bene e mentre tutti sono ubriachi di una spasmodica ricerca del denaro facile.
Tuttavia, questo implica una responsabilità nuova per la Chiesa e per tutti i soggetti ecclesiali, perché non basta essere convinti del valore della propria dottrina di fede e di quella sociale, ma occorrerà che questa convinzione giunga a delle opere concrete, che incarnino quei valori creduti. E questo non sarà, non è, il campo d’azione di parroci e religiosi, ma è quello privilegiato dei laici cattolici. I laici devono assumersi la loro parte di responsabilità, per mostrare che la Chiesa non è solo una realtà da associare a sacrestie e pratiche di pietà, che pure conservano tutto il loro valore, ma è una realtà dinamica, espressione di una religione che si fonda sul mistero dell’Incarnazione di Dio. E la traduzione in opere di questa fede può essere paradossalmente più immediata in circostanze di crisi, perché suscitano in tutti un’attenzione diversa.
Un’ultima domanda: nella nostra esperienza ecclesiale, quella del Movimento Ecclesiale Carmelitano, abbiamo riflettuto a lungo sulle dimensioni del dono e della comunione; queste nozioni hanno anche una rilevanza economica?
Sì, perché già all’inizio, cioè circa 700 anni fa, quando nacque l’economia di mercato – e non va dimenticato che essa nacque per impulso del movimento francescano, che può essere considerato il primo grande costruttore dell’economia moderna! – tra gli obiettivi principali c’era quello di dare concretezza al principio del dono. La finanza di allora (si pensi ai “Monti di pietà”) doveva creare lavoro, sviluppo, ma anche assolvere a finalità caritative. Si capiva, infatti, che il dono non poteva essere limitato solo alla sfera dei rapporti familiari o della vita associata, ma bisognava che entrasse anche nella dimensione socio-economica. Ed in effetti, quando l’economia smarrisce il riferimento a questo principio, poi le sue dinamiche tendono a degenerare, come sta accadendo nella crisi attuale.
Ma cosa significa applicare all’economia il principio del dono? Significa parlare della sua traduzione
pratica, cioè del principio pratico della reciprocità. Nella sfera economica del mercato, infatti, accanto al principio di equivalenza nello scambio, che tutti conoscono benissimo (cioè uno scambio di beni di equivalente valore) c’è spazio per l’applicazione di una reciprocità economica: c’è spazio, cioè, per quelle forme di azione economica – e sottolineo economica – per le quali lo scopo consiste nella soddisfazione di bisogni autenticamente umani di tipo relazionale. Sono queste le forme d’azione economica che caratterizzano l’operare delle banche etiche, del microcredito, di un’economia di comunione (come quella pensata dal Movimento dei Focolari), del commercio equo-solidale (che, ricordiamolo, nacque per iniziativa di un sacerdote messicano circa 30 anni fa), di cooperative sociali di vario genere.
Queste forme d’azione economica, già operanti nella nostra economia di mercato, hanno come caratteristica comune quella di non avere come fine la massimizzazione del profitto/guadagno, ma il soddisfacimento di bisogni umani relazionali, per soddisfare i quali occorre applicare il principio di reciprocità. Dono e comunione allora, oggi più che nel passato - e in particolare a fronte della crisi attuale - si mostrano come due categorie di assoluto valore, per un modo giusto, completo e umano di gestire le risorse economiche. Una società che eliminasse il dono dal proprio orizzonte, culturale e pratico, sarebbe una società senza futuro.
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