San Giuseppe Moscati
Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
Verso la fine di ottobre del 1987 si chiudeva a Roma il Sinodo generale dei Vescovi che per quasi due mesi avevano discusso sul tema della «vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo».
Il problema era stato molto dibattuto, anche al di fuori del Sinodo, e non erano mancate certe dure polemiche perché esso faceva emergere con radicalità una questione grave e urgente, quella della «identità cristiana»: che cosa vuol dire oggi essere cristiani, senza aggettivi o ruoli specifici, collocati esattamente là dove tutti gli altri uomini vivono e costruiscono la storia?
Prima che i Vescovi se ne partissero da Roma — nonostante che le conclusioni del dibattito non fossero state ancora tratte — il Papa decise di intervenire, in modo indiretto ma denso di significato, offrendo come esempio la figura e l’esperienza di un cristiano, laico appunto.
Procedette dunque a una canonizzazione, introducendola così:
«L’uomo che oggi invocheremo come Santo della Chiesa universale si presenta a noi come un’attuazione concreta dell’ideale del cristiano laico: Giuseppe Moscati, medico primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica….».
Non molti, a dire il vero, conoscevano Moscati: la maggior parte, tra Vescovi e fedeli, si accontentò di veder confermato un punto essenziale dell’insegnamento conciliare: che anche i laici, cioè, sono chiamati alla santità e possono realizzarla nel mondo, nell’esercizio della loro professione secolare.
Qualcuno sapeva qualcosa di più e poteva predicare a lungo sulle particolari virtù di questo nuovo santo, soprattutto quelle oggi più apprezzate: amore ai poveri, disinteresse a tutta prova, coerenza evangelica, sacrificio di sé...
Pochissimi però — anche tra gli esperti — sono stati disposti a confrontarsi con un dato irriducibile e particolarmente urtante: la concezione di «laicità» vissuta e difesa da Moscati.
Diciamolo subito a chiare lettere: dal punto di vista «laicale» Moscati si comportò nel modo esattamente opposto a quello insegnato da tutti coloro che si affannano a descrivere esattamente i limiti entro i quali un laico deve restare: Moscati non ebbe limiti, non rispettò distinzioni.
Gli intellettuali cattolici oggi amano molto l’imprecisa formula maritainiana che insegna a «distinguere per unire». Altri suggeriscono più correttamente di «distinguere (piuttosto) nell’unito». E tutti intendono dire che bisogna saper collegare assieme con prudenza ciò che appartiene alla fede e ciò che appartiene alla scienza, ciò che appartiene alla «Chiesa» e ciò che appartiene al «mondo», ciò che è dovuto alla propria professione cristiana e ciò che è dovuto alla propria professione sociale.
Ebbene, noi non vogliamo dire che questi problemi non siano veri o non siano importanti.
Diciamo semplicemente che se Moscati ebbe un carisma e un compito nella Chiesa, esso fu quello di mostrare una tale unità tra i vari campi (prima e oltre ogni possibile distinzione) da rasentare l’incredibile: nessuno oggi oserebbe imitarlo nel modo con cui egli intrecciava insieme scienza e fede, professione umana e professione cristiana, cura del corpo e cura dell’anima. Anzi, questi aspetti della sua vita vengono raccontati con disagio, vengono minimizzati dai biografi. Insomma, inserire veramente l’esempio di Moscati nell’attuale dibattito sulla laicità si rivela come una operazione dirompente e non priva di umorismo.
Ma iniziamo pure da quel che è più ovvio: la conferma della vocazione universale dei cristiani alla santità: tutti possono diventare santi.
Giovanni Paolo II, canonizzando Moscati, non ha detto ai laici di imparare in primo luogo le sue virtù morali, ma di imparare a riflettere sulla propria vocazione: «La Chiesa, ponendo davanti ai nostri occhi la figura di Uno elevato alla gloria degli altari..., dice a tutti i laici: “considerate la vostra vocazione!”».
Anche noi comunque cominceremo raccontando gli esempi morali che il Santo ci ha lasciato, ma lo faremo ricordando costantemente che i suoi atteggiamenti virtuosi sono come le annotazioni scritte sulla sua carta d’identità: servono a identificarlo, ma non sono la sua identità. L’identità emergerà piuttosto da questo volto personale, da quel cuore, in cui si evidenzierà il suo modo di considerare il rapporto medico-malato come evento integrale di salvezza cristiana.
Giuseppe Moscati nasce nel 1880, a Benevento. Ha appena un anno di vita quando il papà, magistrato, viene trasferito ad Ancona e poi (quando Peppino ha solo 4 anni) alla Corte d’Appello di Napoli.
Napoli sarà dunque la sua città: dove riceve la prima Comunione, si iscrive al ginnasio, dà la maturità classica e si laurea in medicina nel 1903.
Una infanzia e una giovinezza assolutamente normali, in una f amiglia veramente cristiana, nella quale non mancano le sventure: il papà muore improvvisamente quando Peppino si è appena iscritto all’università; qualche anno dopo, in seguito a lunga malattia, gli muore un fratello che ha solo 32 anni. La carriera medica di Giuseppe Moscati durerà 24 anni, poiché egli muore nel 1927, ad appena quarantasette anni di età.
Vince il concorso per Aiuto straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli nel 1903. Durante l’eruzione del Vesuvio gli è affidata la responsabilità dell’ospedale di Torre del Greco, da cui porta in salvo i malati a rischio della sua stessa vita.
Nel 1908 è Assistente ordinario nell’Istituto di Chimica fisiologica.
Nel 1911 diventa Aiuto ordinario negli Ospedali Riuniti, vincendo un concorso a cui partecipano i più colti medici e docenti del Mezzogiorno, dato che è un concorso atteso da trent’anni. Moscati è il più giovane e vince superando ben due futuri direttori di clinica universitaria. E nominato socio della Regia Accademia Medico-chirurgica. Nello stesso anno ottiene la Libera Docenza in chimica fisiologica e praticherà l’insegnamento in ospedale per più di 12 anni.
Nel 1919 è nominato Primario della tu Sala degli Incurabili.
Nel 1922 una Commissione appositamente nominata dal ministero della Pubblica Istruzione gli conferisce anche la Libera Docenza per titoli in clinica medica generale.
Nel 1923 è inviato quale rappresentante del Governo italiano al Congresso internazionale di fisiologia, a Edimburgo.
Abbiamo voluto rileggere in modo scarno e ridotto il curriculum della sua carriera professionale proprio per far percepire — col semplice scandire date, titoli e specializzazioni — una vita tesa intelligentemente a ciò che qualunque studente di medicina sogna per sé, anche se in forme e indirizzi diversi. Aggiungiamo solo che — se Moscati l’avesse soltanto voluto — la Facoltà di Medicina di Napoli era pronta ad offrirgli la cattedra in Chimica fisiologica.
Una esposizione simile potremmo fare elencando i titoli delle sue pubblicazioni scientifiche: dalla tesi di laurea, giudicata degna di pubblicazione, che aveva a tema «L’ureogenesi epatica», agli ultimi due articoli scritti per la Riforma medica (rivista di cui era redattore per le lingue inglese, tedesca, francese e spagnola): un articolo «Sul cosiddetto antagonismo tra surrenale e pancreas» e uno su «Le vie linfatiche dall’intestino ai polmoni».
Ma in che cosa dunque Moscati, che seppe percorrere così brillantemente e velocemente la sua carriera professionale, maturò una particolare santità?
Dobbiamo anzitutto ripensare al tempo in cui egli visse. Scrive giustamente un suo biografo: «La figura di Moscati deve essere inquadrata nel clima culturale dominato dal positivismo che dilaga negli ultimi anni dell’800 e nei primi del ‘900. Egli fece parte del gruppo di laici che, nonostante la tendenza del momento, contribuirono in modo determinante a far riscoprire nel mondo la vitalità e la perenne giovinezza della Chiesa».
Il documento che introduce la sua causa di beatificazione (durante la quale furono raccolte tutte le testimonianze che lo riguardano) inizia con una osservazione interessante, soprattutto perché risale all’immediato dopoguerra: «Il Servo di Dio visse in questo nostro tempo in cui per colpa del laicismo, come si usa dire, la massa della gente è stata strappata dalla Chiesa, la fede è stata separata e messa in opposizione alla scienza, la professione della fede cristiana è stata separata dalla professione delle arti liberali e dagli impegni civili ed è stata relegata nel chiuso degli invisibili confini della coscienza. Contro tale nefastissimo laicismo la Divina Provvidenza suscitò laici esimi che, dotati di spirito apostolico, in qualche modo potessero esercitare e aiutare il sacerdozio (sacerdotalia munera), esimi dottori che in se stessi mostrassero mirabilmente l’unione di fede e scienza, esimi cittadini che nella propria professione, professando ognuno apertamente la fede, eccellessero tra tutti per probità, e fossero di sommo giovamento alla società».
Il merito di questa impostazione — che i successivi biografi ebbero il torto di trascurare — è quello di individuare bene il cuore della testimonianza di Moscati, evitando di presentarlo subito, e astoricamente, come il «medico santo» solo per il suo comportamento disinteressato, per la sua modestia, per la sua sobrietà, o per l’essersi messo a servizio gratuito dei più diseredati.
Certo, anche questi aspetti furono splendidi e commoventi e non vanno affatto trascurati, ma, a insistere su di essi, si rischia di osservare e amare il colore e la forma dei fiori senza prendersi cura della radice che li nutre.
Cominciamo pure, comunque, da questi ricordi più immediatamente affascinanti.
Celebre era, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per il denaro. Ecco la significativa testimonianza di un medico che spesso lo osservò nell’esercizio della professione: «Egli, che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente.
Se visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto, ma la sua preoccupazione — davanti a se stesso e davanti a Dio — restava tuttavia quella di non essere mai un approfittatore».
Ecco una lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io prenderei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la gioia della guarigione di vostro marito. E fate che costui non si allontani da Dio e frequenti la fonte della salute (la santa Comunione). Vi saluto. G. Moscati».
Un giorno venne chiamato ripetutamente al capezzale di un ragazzo quindicenne di cui egli si prese cura fino alla completa guarigione. Quando tutto fu finito ricevette una busta con l’onorario. La aprì mentre tornava a casa e si accorse che conteneva una somma allora notevole: mille lire. Lo videro tornare bruscamente indietro, salire agitato le scale e tendere nervosamente la busta con queste parole: «O voi siete pazzi o mi avete preso per un ladro».
I parenti pensarono che il celebre professore fosse scontento d’aver ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo, impacciato, gli tese un altro biglietto da mille. Ma il professore non solo scartò con impazienza quella nuova offerta, ma, aprendo il portafoglio, restituì ottocento lire affermando che duecento erano più che sufficienti. Poi se ne andò tutto contento, lasciando esterrefatti gli astanti.
Se dunque i ricchi se lo contendevano per la sua fama di diagnostico, i poveri gli si riversavano addosso perché sapevano che non sarebbe stato chiesto loro nulla, o addirittura ci avrebbero guadagnato. Nei casi più dolorosi infatti Moscati giungeva fino a mettere lui qualche banconota in mezzo alla ricetta, o sotto il cuscino del paziente di cui intuiva le condizioni disagiate, soprattutto quando s’accorgeva che la malattia era provocata o aggravata dalla denutrizione.
A volte provvedeva lui stesso all’acquisto delle medicine che aveva prescritto o a pagare la retta dell’ospedale per chi non ne avrebbe avuto la possibilità.
Un giorno un collega che l’aveva accompagnato per una visita gli fece osservare, a nome della categoria, che il suo disinteresse per il denaro li metteva tutti in difficoltà, ma la risposta che ne ebbe — nel quasi dialetto napoletano che Moscati normalmente usava — fu assai espressiva: «Peppì, scusate: ‘lla ce sta ‘na mamma che piange per la salute del figlio e vuie me venite a parla’ ‘e solde!».
Lo si poteva chiamare nei quartieri più malfamati, nei vicoli bui dove era pericoloso anche solo avventurarsi, in quegli androni fatiscenti dove era costretto a farsi luce con un cerino, ed egli non rifiutava mai di recarvisi. Se lo si metteva in guardia rispondeva: «Non si può avere paura, quando si va a fare del bene».
Lo incontrò un amico di sera, al Vomero, in piazza Vanvitelli, lontano dal solito giro. Gli chiese cosa stesse facendo da quelle parti:
«Sai — disse Moscati ridendo — vengo ogni giorno a fare da sputacchiera per un povero studente».
Si trattava di un giovane che viveva solo in una camera d’affitto, malato di TBC, anche se non in fase contagiosa. Se i padroni l’avessero saputo, l’avrebbero cacciato sulla strada, e allora Moscati veniva ogni sera a portar via i fazzoletti pieni di catarro per bruciarli, e ne lasciava di puliti.
In casa Moscati, la sorella che lo assisteva riceveva tutti i suoi guadagni e li amministrava con l’impegno di trattenere il necessario per vivere decorosamente e di destinare il resto ai bisognosi. Lo stesso professore tornava dalle visite portando con sé gli indirizzi delle famiglie povere che aveva incontrato, li passava alla sorella e le diceva di provvedere.
Un episodio tra tutti è di una tenerezza e di una bontà senza pari.
C’era un vecchietto povero e solo, che un tempo era stato compositore di canzoni (in quegli anni a Napoli furono composte le più celebri melodie!): le sue condizioni erano critiche anche se non disperate e il male poteva aggravarsi improvvisamente. Avrebbe avuto
bisogno di controlli quotidiani, ma Moscati non glieli poteva garantire, assorbito com’era dal lavoro in ospedale. Si misero d’accordo così: tutte le mattine il vecchietto si faceva trovare in un caffè, lungo la strada che Moscati percorreva per recarsi in ospedale e lì consumava (a spese del Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il Professore passava, metteva dentro la testa, controllava che egli fosse presente, gli sorrideva e se ne andava in fretta. Se qualche mattina non lo vedeva, allora sapeva di doverlo raggiungere al più presto nel suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.
I racconti si potrebbero moltiplicare, ma non devono far dimenticare che la carità di Moscati non era quella di un tranquillo bene-fattore, ma quella di un medico di prestigio alle prese con una professione stressante, lacerato da richieste molteplici: come studioso doveva aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazioni scientifiche; come medico la sua presenza era necessaria sia all’ospedale, sia nelle case dei privati che gli inviavano continue richieste e sollecitazioni; come libero docente doveva preparare lezioni, insegnare, seguire il lavoro dei discepoli e — in tutto questo e al di là di tutto questo — c’era la sua decisione «cristiana» di non sottrarsi mai alle richieste dei più poveri.
Alla sua morte prematura gli amici parleranno della sua «fatica quotidiana, a tutte le ore, senza riposo, senza tregua, senza respiro». A chi gli chiedeva come facesse a resistere, rispondeva semplicemente: «Chi fa la Comunione tutte le mattine ha con sé un’energia che non viene mai meno».
A testimonianza delle sue capacità mediche possiamo ricordare il suo incontro col celebre tenore Enrico Caruso. Questi tornava nella sua Napoli dopo che a New York durante un concerto era stato stroncato da una emorragia. Aveva consultato, in America, i più illustri clinici; lo stesso aveva fatto a Roma, e nessuno era riuscito a fargli una diagnosi utile. Finalmente era giunto da Moscati. Era ormai troppo tardi e gli restavano solo due mesi di vita, ma l’intuito del medico napoletano diagnosticò subito che si trattava di un ascesso subfrenico.
Tutti dovettero poi dargli ragione, anche se era una scienza ormai inutile per il quarantottenne tenore che era partito povero da Napoli e vi ritornava nel 1921 con un patrimonio valutato più di cinquanta milioni d’allora.
Non gli servì la scienza di Moscati, ma gli servì la sua fede. Egli infatti non esitò a dire a Caruso «che aveva consultato tutti i medici, ma non aveva consultato Gesù Cristo».
E il tenore rispose: «Professore, fate quello che volete».
Ed egli si preoccupò che gli portassero in tempo gli ultimi sacramenti, assistendolo fraternamente fino alla fine.
Torniamo per ora alla sua fama di medico.
«Giungeva — testimoniò un suo collega — a sfumature diagnostiche che sbalordivano discepoli e maestri».
Basterà dire che colui che allora era considerato da tutti il Maestro dei maestri — quell’Antonio Cardarelli che era divenuto in Italia una istituzione — considerava Moscati come suo discepolo prediletto («il migliore che ho avuto in sessant’anni», diceva), lo aveva scelto come suo medico personale e a volte si commuoveva fino alle lacrime quando lo osservava nell’esercizio dell’arte medica.
A parte le visite ai malati e l’enorme clientela che giungeva da tutto il meridione e letteralmente lo soffocava, il suo ininterrotto lavoro aveva luogo nelle corsie dell’ospedale, che egli percorreva attorniato dai suoi discepoli, ai quali insegnava medicina direttamente dalla osservazione dei malati («trattava anche gli studenti del primo anno come ‘colleghi’ e non mancava mai di chiedere la loro opinione»).
Soleva dire: «Vicino all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per apprendere: direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il letto dell’infermo, perché l’ammalato rappresenta il libro della natura».
La lezione continuava poi nell’anfiteatro anatomico.
L’istituto anatomo-patologico era allora in decadenza: nessuno voleva occuparsene e Moscati aveva accettato di curarne a titolo gratuito «la riorganizzazione e il razionale funzionamento». Sulla parete d’ingresso c’era un vecchio motto scelto dal fondatore, a cui nessuno prestava più molta attenzione. Diceva: «Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitam», «questo è il luogo in cui la morte è lieta di poter soccorrere la vita».
Moscati cominciò col far appendere a quelle spoglie pareti un bel crocifisso e, sotto, la scritta: «O mors, ero mors tua», «O morte, io sarò la tua morte!». Con questa promessa del Risorto, Moscati riscattava quel luogo definito da tutti «malsano, disadorno, gretto, opprimente».
Quando il gruppo entrava e si disponeva attorno al professore, egli guardava un attimo la croce e tutti si accorgevano che stava silenziosamente pregando; poi cominciava a sezionare iniziando sempre con qualche richiamo breve ma assai esplicito: «Qui finisce la superbia dell’uomo! Ecco che cosa siamo! Come è istruttiva la morte!». Oppure, indicando il cadavere, diceva: «Mentre l’altro giorno costui era un nostro paziente, oggi vediamo alcuni organi che gli appartennero... Se voi giovani faceste di tanto in tanto la considerazione della morte, sareste molto più buoni».
Così quell’istituto, che era — come egli amava sempre ripetere — «il luogo in cui noi medici controlliamo le nostre diagnosi e i nostri errori», nonostante la modestia dei locali e l’insufficienza dei mezzi tecnici, raggiunse a detta di tutti «il suo massimo splendore dal punto di vista scientifico».
I discepoli che seguivano quotidianamente Moscati letteralmente lo veneravano e molti lo accompagnavano fino a casa, continuando per via a discutere con lui e a interrogano. Uno di loro rievoca commosso la scena divenuta familiare a Napoli: «Lo portavamo in processione come se fosse un santo». E quasi tutti finivano, dopo il giro domenicale nelle corsie, per accompagnarlo a Messa.
Il professore stesso scriveva in una lettera: «Ho formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto sentimentali! Iddio ci guida. Ho creduto che tutti i giovani [...] avessero il diritto di perfezionarsi leggendo un libro che non fu stampato in caratteri, nero su bianco, ma che ha per copertina i letti ospedalieri e le sale di laboratorio, per contenuto la dolorante carne degli uomini e il materiale scientifico, libro che deve essere letto con infinito amore e con grande sacrificio per il prossimo» (11 settembre 1923).
E aggiungeva: «Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i giovani aborrendo dall’andazzo di tenere misterioso gelosamente il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».
Questa concezione quasi monastica della propria vocazione e della comunità ospedaliera ci rimanda a un’altra caratteristica della laicità di Moscati, ad una novità.
In un tempo in cui le vocazioni si dividevano in forma piuttosto netta (o matrimonio o convento), Moscati scelse di restare nel mondo, completamente laico — senza particolari appartenenze a istituti religiosi, nemmeno come «terzlario» — ma scegliendo coscientemente la condizione verginale.
In un biglietto che la sorella raccolse dal cestino della carta straccia leggiamo una specie di confessione che egli scrisse per se stesso:
«Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le creature, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza».
Trattare Gesù come una persona cara, alla quale ci si rivolge con le parole più affettuose e con la quale si esperimenta una intimità bruciante, sembra ridicolo ai nazionalisti di tutti i tempi e sembra anche a molti cristiani un’esperienza possibile solo nella penombra mistica dei monasteri.
Ma che questo possa accadere nel mondo, là dove il lavoro diventa per molti l’unico dio e dove le preoccupazioni scientifiche e materiali sembrano invadere anche lo spirito, questo è per il mondo un interrogativo che si apre direttamente sul mistero del Figlio di Dio, divenuto «nostro prossimo»: al quale cioè possiamo dare con somma verità tutti i nomi più familiari.
Racconta un sacerdote che ascoltava spesso la sua confessione:
«Richiesto da me che cosa avesse pensato in una tramvia affollatissima dove c’eravamo trovati insieme e aveva anche pagato per me il biglietto, mi rispose: “A Dio, padre, al cielo”».
«Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa era la massima che identificava assieme sia la sua missione di
medico cristiano, sia lo sguardo con cui osservava i malati. Eppure i tempi, allora, e l’ambiente non erano per nulla facili.
Ecco alcune testimonianze tratte dai processi di beatificazione:
«Il servo di Dio subiva la lotta di tutti i medici iscritti alla massoneria per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli che vedevano in lui un competitore valentissimo, benché di giovane età».
Questo odio massonico contro Moscati aveva dunque un risvolto inconfessabile («la gelosia e l’invidia di chi non sapeva tollerare la superiorità scientifica di lui») e un motivo ufficialmente sbandierato con acre insistenza.
Dice un testimone: «Era disprezzato, motteggiato da quelli che non vedevano bene la sua franca, schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo chiamavano maniaco, isterico, esaltato, fanatico».
Altre ingiurie che gli gettavano addosso (e qualche collega più arrabbiato faceva in modo che gli giungessero all’orecchio, quando passava) erano quelle di «fanatico, iettatore, pazzo da manicomio, medico di preti e suore».
Moscati viveva, dunque, in un ambiente frequentato da medici di dichiarata appartenenza massonica e di aperta professione materialista, ed egli lo sapeva benissimo. Anzi quando era in gioco la verità e la giustizia ne parlava senza mezzi termini.
«Io — scriveva in una lettera — sono una stella di infima grandezza in mezzo a tanti astri brillanti e sarò contento di eclissarmi, se però saranno gli astri illuminati a sorgere e non alcune fiacche nebulose..
Nei concorsi chiedeva che non ci fossero «né compromessi, né manovre traverse..., ma solo riconoscimento del valore assoluto all’infuori di età, di scuola, di sette».
In una lettera da lui indirizzata a Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione, Moscati caldeggiava la nomina alla Cattedra di Igiene di un collega da lui ritenuto il più idoneo e non ebbe paura di scrivergli: «So che un pezzo altissimo della Massoneria vuol venire a ingrossare il numero dei ‘fratelli’ nella Facoltà che è divenuta per questi ultimi una casa grande».
Certi testimoni dicono esplicitamente e senza mezzi termini sull’atteggiamento che la setta aveva verso Moscati: «volevano distruggerlo, annientarlo».
Ma notavano anche che la lotta non lo scalfiva neppure: «Tutti sapevano — dice un testimone — che il Professor Moscati era come un sacerdote, e la lotta fattagli dai massoni medici e dagli altri colleghi materialisti non l’ha mai abbattuto... Soleva dirmi: “Che cosa m’importa degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio”».
Del resto vedremo tra breve che la professione di fede del Moscati era pubblica in modo quasi intollerabile, tanto che oggi verrebbe forse criticata anche dai credenti più pii e integristi.
Nei processi canonici, durante i quali i suoi atteggiamenti sono stati minuziosamente analizzati e giudicati, la domanda ricorrente del giudice ecclesiastico (nemmeno tanto velata) è questa: «Moscati era un maniaco religioso?». «No rispondono tutti i testimoni — era equilibrato, attento, rispettoso». E tuttavia aveva della sua professione medica un’idea — e conseguentemente una prassi — certo non usuale.
Il problema consisteva in questo: Moscati era assolutamente convinto «che il medico non deve guardare solamente la salute del corpo dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del malato e della sua famiglia, sotto qualunque aspetto si potesse considerare il bisogno».
Perciò egli si era imposto quell’ atteggiamento caritatevole verso tutti i bisognosi di cui abbiamo parlato. Ma con la stessa inesorabile logica egli considerava come prioritario il bisogno spirituale dei pazienti e la cura delle loro anime.
Esprimiamoci con assoluta chiarezza. Dice un testimone: «I malati sapevano che per essere curati da Moscati bisognava frequentare i Sacramenti». E ancora: «A tutti i malati domandava se erano in grazia di Dio, se frequentavano i Sacramenti, se erano in regola con la loro coscienza. Insomma, curava prima l’anima e poi il corpo degli infermi che andavano da lui».
Moscati sosteneva tranquillamente che nell’ospedale «missione di tutti» — suore, infermieri, medici — era «collaborare alla misericordia di Dio».
La suora del suo reparto doveva anzitutto interessarsi della situazione spirituale del paziente in modo da poterne avvertire il professore: il quale, mentre esercitava la sua arte medica con tutta la bravura e la dedizione possibile, riusciva a far percepire al malato la globalità del suo problema, l’integralità del suo bisogno, e quasi sempre riusciva a portarlo con ferma dolcezza a un desiderio di guarigione intesa davvero come «salvezza».
Espressioni come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «accostatevi al Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della vita e della morte» entravano o prima o poi nelle indicazioni «sanitarie» che Moscati dava ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorgeva che la loro vita era in pericolo e in pericolo era il loro destino eterno. Il fatto è che, quando le usava, gli volevano già così bene che quasi sempre le accettavano con riconoscenza, e molti gli obbedivano.
A un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo stato di malattia, consegnò una lettera in cui gli indicava il nome di un prete della sua città «perché si mettesse in pace con Dio, siccome da anni se ne era allontanato, altrimenti non avrebbe potuto curargli il corpo».
A un altro che, dopo un mese di cura, non sembrava reagire alla terapia, disse candidamente: «Voi non vi siete confessato, perciò non guarite. Iddio così ve lo ricorda».
A chi si meravigliava del suo stile spiegava così: «E mia abitudine di parlare agli infermi di altre cose oltre il corpo, perché essi hanno anche un’anima... La cosiddetta psicanalisi di Freud è una cura; che cosa è la psicanalisi? È la confessione fatta al medico per scardinare le idee fisse. Ma questo va bene per i paesi protestanti dove non c’è la confessione: presso di noi c’è la confessione cattolica».
A un giovane, la cui più grave malattia sembrava l’assoluta mancanza di spina dorsale, diede una ricetta su cui c’era scritto: «Cura di Eucaristia».
È difficile per noi immaginare come Moscati coniugasse la cura dello spirito con quella del corpo (da notare che egli introduceva il problema, poi rimandava i «malati d’anima» a qualche prete di sua conoscenza, e si interessava personalmente che l’incontro avesse luogo).
In una lettera a un collega Moscati scrive: «Beati noi medici se ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi. Lì è la soddisfazione e non nel sentirci proclamare risanatori di un male fisico» (E aggiungeva con un pizzico di ironia: «Soprattutto quando la coscienza ci ammonisce che il male fisico guarisce da sé!»).
«È il medico dei corpi e delle anime», diceva di lui Bartolo Longo — il costruttore del Santuario di Pompei, anch’egli oggi Beato— quando si faceva visitare.
In molte lettere si vede come il Professore inculcasse questi principi nei suoi allievi: «Abbiate, nella missione affidatavi dalla Provvidenza, vivissimo il senso del dovere: pensate cioè che i vostri infermi hanno soprattutto un’anima a cui dovete sapervi avvicinare, e che dovete avvicinare a Dio; pensate che vi incombe l’obbligo di amore allo studio, perché solo così potete adempiere il grande mandato di soccorrere l’infelicità. Scienza e fede!» (16 luglio 1926).
«Ricordatevi che non solo del corpo vi dovete preoccupare, ma delle anime gementi che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio e ricorrendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista» (1923).
A un paziente raccomandava: «Vi prego di ricordarvi dei giorni vostri d’infanzia e dei sentimenti che vi tramandarono i vostri cari, la vostra mamma; tornate all’osservanza e vi giuro che, oltre il vostro spirito, ne sarà nutrita la vostra carne: guarirete con l’anima e con il corpo, perché avrete preso la prima medicina, l’infinito amore» (23 giugno 1923).
Ma bisogna insistere nel ricordare che Moscati non faceva il guaritore o il santone: faceva il medico e lo faceva alla perfezione, ma era parimenti convinto d’avere davanti soprattutto un’anima immortale.
Mai tuttavia deviava nello spiritualistico, trascurando il corpo. A una suora che lo voleva trascinare a una sacra funzione durante l’orario di lavoro rispose brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando».
E a una pia signora, che rifiutava di curarsi perché diceva che le
bastava pregare, ribatté: «Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione per la vostra malattia che dire molte preghiere».
La personalità integrale di Moscati emerse, sotto gli occhi di tutti i suoi colleghi, anche di quelli dei suoi nemici, in un episodio che restò celebre negli annali di Napoli.
Era il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla faceva allora prevedere). Veniva a Napoli, per parlare a un congresso medico, il celebre professor Leonardo Bianchi: era stato titolare della cattedra di Psichiatria e Neurochirurgia, prima a Palermo, poi a Napoli. Era stato Ministro della Pubblica Istruzione, poi Ministro della Difesa e Vicepresidente della Camera dei Deputati. A 75 anni aveva pubblicato il libro La meccanica del cervello. Inoltre era uno tra i più noti massoni che appena qualche anno prima aveva tenuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo.
Il settantanovenne professore parlò davanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano gli applausi, egli si accascia al suolo. C’erano presenti medici specialisti per ogni urgenza e tutti si accostarono, compreso Moscati. Ma ascoltiamo direttamente la testimonianza del santo: «Non volevo andare a quella conferenza essendomi da lungo tempo allontanato dall’ambiente dell’Università, ma quel giorno una forza sovrumana, alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello che dice la parabola del Vangelo che i chiamati all’undicesima ora avranno la stessa ricompensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno. Sento ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che cercava me tra tanti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva bene i miei sentimenti religiosi, conoscendomi fin da quando io ero studente. Gli corsi vicino, gli suggerii parole di pentimento e di fiducia, mentre egli mi stringeva la mano, non potendo parlare...».
Proviamo a immaginare, in quel tempio della Massoneria che era allora l’Università di Napoli, non solo l’inaudito ingresso di un prete con i Sacramenti (fatto chiamare da Moscati), ma la scena del vecchio massone morente fra le braccia del più santo dei medici mentre costui recita a voce chiara l’atto di dolore e il Credo.
Questi era Moscati.
E potremmo riportare la testimonianza scossa, sconvolta quasi, di altri notissimi esponenti della cultura e della medicina che, frequentando questo insolito tipo di cristiano (da notare che con Moscati si poteva parlare di filosofia, di arte, di letteratura, di musica, di teologia, di urbanistica, e sempre con profitto e godimento intellettuale), divennero pensosi sulla propria identità e sul proprio destino.
Un altro celebre medico napoletano, il Castellino, non «credente», disse di lui: «Era una delle creature più care, che amava vivere nel colloquio continuo con Cristo che forza i sepolcri e vince la morte».
Un altro medico disse: «Fu la più perfetta incarnazione che io abbia mai conosciuto della carità di cui parla san Paolo nella lettera ai Corinzi».
Tutti sanno quale sia stata la posizione di Benedetto Croce. Ebbene, il filosofo abitava in un’alta mansarda da cui tutte le mattine vedeva passare Moscati che frettolosamente si recava in ospedale. Spesso i due si incontravano e chiacchieravano assieme. A volte non c’era tempo e allora il filosofo dal balcone lo chiamava da buon napoletano:
«Don Peppino non te capisco, perché corri tanto? Dove vai? Che speri di raggiungere...? Tutto viene a tempo».
E poi, rientrando, alla sua domestica diceva: «Fossero tutti così i cattolici.., tutti come don Peppino!».
Chi era dunque quest’uomo che a se stesso, nelle pagine del suo diario diceva: «Ama la verità, mostrati quale sei e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa persecuzione, e tu accettala; e se (ti costa) il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio».
Giungiamo così a quel problema fondamentale da cui siamo partiti senza volerlo risolvere in anticipo: che cos’è la laicità cristiana? Quest’uomo, che la Chiesa ha posto sugli altari, l’ha compresa in un modo, con uno stile, che oggi, in un ospedale, non usa più neanche il cappellano deputato all’assistenza dei malati. Era un vero laico? O
era un laico che assumeva indebitamente il ruolo del prete? Il suo voler «curare anche l’anima» era una pretesa assurda e integrista o era una profezia? In che senso lo si può oggi proporre come esempio di laicità cristiana?
Noi non possiamo qui affrontare il problema dal punto di vista di una completa riflessione teologica, richiamando i necessari principi e conducendo le opportune analisi.
Possiamo dare per ammesso che c’è in Moscati anche qualcosa di unico e irripetibile: non è copiando i suoi modi di fare (atteggiamenti, indicazioni, espressioni) che lo si può imitare, ma comprendendo anzitutto il lavoro che la grazia di Dio ha operato in lui: un lavoro di «unificazione», di «integrazione» a cui la creatura si rende totalmente disponibile: questo lavoro bisogna anzitutto desiderare per sé, ad esso bisogna anzitutto disporsi con grande umiltà e ascesi.
Viviamo in un’epoca in cui noi cristiani siamo diventati abilissimi a «distinguere»: natura e soprannatura, chiesa e mondo, fede e ragione, rivelazione e scienza, evangelizzazione e promozione umana, unità e pluralismo, ecc. Ma queste attente distinzioni dovrebbero essere applicate da un soggetto, da un «io» così totalmente appartenente a Cristo, così organicamente innestato nella Chiesa che le distinzioni gli servono ad esprimere solo i diversi metodi secondo cui fluisce e si dilata e si applica una stessa e identica carità. Invece troppo spesso le distinzioni servono come alibi intellettualistico per nascondere e giustificare una identità incompiuta o timida o faticosamente aggiustata, se non addirittura disgregata.
E così ogni tanto Dio decide di offrirci delle «forme» integrali, dei modelli cristiani talmente integri che si vorrebbe quasi accusarli di integrismo, se non fosse che l’unità della «forma cristiana» irraggia da ogni parte. Qui possiamo solo delineare per punti successivi la «forma compiuta» a cui Moscati si lasciò condurre ed educare.
1. Essere chiamati all’esistenza ed essere chiamati a una missione dovrebbero per il cristiano diventare una sola cosa, come lo fu per Gesù, il cui «io» consisteva totalmente nel «lasciarsi mandare» dal Padre, nel fare totalmente la sua volontà. Spesso invece queste due «vocazioni» (all’esistenza e alla missione) restano due mondi separati che cercano faticosamente di restare almeno allacciati tra loro.
Moscati ebbe la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come totalmente espressiva del senso e dello scopo della sua esistenza, ed essa ricoprì tutto il suo essere ed esistere.
Ancora diciassettenne, alla madre che gli prospettava le difficoltà e i pericoli della professione medica rispondeva: «Che dite, mamma, io so no pronto a coricarmi nel letto stesso del malato!».
E la madre che lo conosceva bene aveva commentato, come per un presagio: «Per alleviare le sofferenze dei malati diventerà lui stesso un martire!».
Le biografie di Moscati testimoniano concordemente che egli considerò la professione medica come una vocazione e una missione che dovevano «esaurirlo» anche fisicamente, perché soltanto così il progetto di Dio avrebbe potuto compiersi. E perciò egli accettava semplicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da ogni parte che a volte, con un umorismo non privo di sofferenza, egli chiamava il «mastodontico groviglio di guai in cui mi trovo da mille parti ingrovigliato».
Confessava ad un amico: «Mi riduco a notte inoltrata per scrivervi. Vi assicuro che non ho nemmeno il tempo di mettermi le mani nei capelli. Ospedale, laboratori, lezioni ufficiali, lezione mia di semeiotica e di clinica, baraonda di malati gravi, impressionati, mi tengono tutto per loro e mi inibiscono per altre cose» (gennaio 1919).
E, per quanto disponibile fosse il professore, doveva lottare quotidianamente con un carattere nervoso, pronto a scattare e a diventare insofferente verso ogni contrattempo: ma sempre pronto a riprendersi, a lasciarsi «limare», «rifinire», quasi, dalle circostanze sempre più catturanti. Morì, improvvisamente, nella piena maturità, appena terminata una visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo di conforto e di aiuto.
È un giudizio su tutte quelle situazioni in cui i cristiani si ritraggono dal fare la volontà di Dio, dal lasciarsi «usare come servi inutili» proprio perché percepiscono la loro missione nella Chiesa e nel
mondo come qualcosa di «informe», di aggiunto quasi alla loro esistenza, alla loro persona, e perciò restano ultimamente incerti, nostalgici di altre possibilità, dubbiosi della validità del loro stato (vergini che vorrebbero essere coniugati, coniugati che vorrebbero essere «diversamente» sposati o addirittura vergini, chierici che vorrebbero essere laici e laici che vorrebbero essere chierici, professionisti che sognano una situazione a loro più confacente e dove potersi finalmente esprimere, e molte altre cose simili): un giudizio su tutte quelle esistenze che non si versano totalmente sulla missione loro affidata, e su tutte le pretese «missioni» scelte come fuga dai propri disagi esistenziali.
2. Esistenza e missione del cristiano sono anzitutto affezione a Cristo, calda adesione personale a Lui come persona vivente (non come idea le o come «causa a cui rifarsi»). Soprattutto di ciò la condizione verginale è segno bruciante nel mondo.
Ogni amore per il prossimo deve essere riflesso di questa prima «prossimità» offerta da e a Cristo Signore. Per un cristiano l’amore dei prossimo o ha una radice «verginale» (nasce tutto dalla appartenenza personale a Cristo) o è solo un tentativo psicologico di rintracciare Cristo, affaticando moralisticamente la propria affettività.
Moscati, a questa nostra epoca (per la quale la carità sociale sembra essere addirittura un’obiezione a Cristo), viene a ricordare che la carità cristiana ha un’origine e una identità esplicita: è la carità di Cristo, che deve struggere il cuore dei suo discepolo, come diceva san Paolo.
Nessuno, guardando la vita e le opere di Moscati, poteva dubitare che egli amasse personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi rifiutava il Signore Gesù, Moscati appariva come un maniaco da combattere e da eliminare. Ma se uno «riconosceva» Cristo (anche timidamente) e ancora lo «ricordava» (anche tra le nebbie di una fede un tempo posseduta), allora Moscati con le sue «opere di carità» glielo raffigurava in modo bruciante, persuasivo, convincente. E nessuno poteva sbagliarsi, nemmeno per un attimo, pensando che si trattasse di una fortunata naturale bontà dei professore.
L’impegno ascetico-caritativo era per Moscati il presupposto, la
carta di credito, il «titolo» che gli dava occasione di annuncio integrale a favore dei suo Signore Gesù: si staccava dai denaro per poter parlare di tutto senza ambiguità, si faceva tutto a tutti per poter indicare Colui che era «tutto», lasciava che gli «consumassero questa vita» per avere il diritto di parlare della vita eterna. Arrivava fino a chiedere al malato che invece dei soldi gli desse il regalo di accostarsi alla Eucaristia, di tornare alla fede perduta.
«Gli chiesi una volta perché avesse rinunciato all’onorario offertogli da un ammalato facoltoso, che versava in gravissime condizioni e che era un gran peccatore, ed egli mi rispose: ‘Lo convertirò’ ».
Moscati ha insegnato con una evidenza abbagliante che — contrariamente a quanto oggi si pensa e si insegna — l’amore dei prossimo è vero solo quando è tutto teso, da ogni direzione, a un esplicito amore di Cristo (Dio-fatto-prossimo).
L’impegno professionale-ascetico-caritativo o è per un laico il modo con cui egli «fonda» il suo annuncio integrale a favore di Cristo (dare tutto Cristo a tutti gli uomini), oppure perfino le sue opere buone verranno risucchiate via, consumate da coloro che ne approfittano per lasciarsi ancor più cullare nella loro spirituale pigrizia e indifferenza.
Se chi opera per Cristo pensa di poterlo fare anonimamente, tanto più sarà lecito restare anonimo a chi riceve il frutto di questa stessa opera. Da ciò può derivare l’attuale paradosso di una Chiesa e di un laicato che sviluppano un grande potenziale di impegno professionale e caritativo e del fatto che tuttavia la fede viene progressivamente meno proprio là dove i cristiani sembrano più vivere e operare.
Secondo Moscati: bisogna compiere «opere e opere» di carità per potersi permettere di essere integri neii’annuncio di Cristo, e bisogna essere integri nell’annuncio di Cristo perché le opere di carità non anneghino in una vaga filantropia di cui si serve anzitutto con scaltrezza proprio chi vuoi rassodare se stesso e il mondo nei rifiuto di Cristo.
3. Quanto più la carità è veramente cristiana (nei senso in cui
l’abbiamo descritta) tanto più essa tende a unificare dall’interno la coscienza dell’uomo, manifestando così una forza onniavvolgente: fa emergere legami impensati, rivela possibilità quasi sconosciute, produce energie a tutto campo. I diversi «piani» della realtà non vengono integristicamente negati, ma ha luogo una inattesa fluidità, per cui il naturale si versa «naturalmente» nel soprannaturale e il soprannaturale «soprannaturalmente» si apre al naturale.
Nella vita di Moscati tale fluidità si manifesta in varie direzioni, alle quali possiamo solo accennare.
a. Dal punto di vista dell’arte medica possiamo dire che le sue capacità professionali vennero incredibilmente potenziare. E ciò in due sensi. Da un lato sembrava che la fede (il modo cristiano di osservare il malato) acuisse le sue già notevolissime doti diagnostiche: dava persino l’impressione di «indovinare», di «vedere» le malattie del corpo, di percepirle da segni impercettibili che stupivano i colleghi. Dall’altro lato tale intuizione penetrante scendeva a una tale profondità che egli diagnosticava spesso anchè le malattie dell’anima.
Egli stesso confessò: «È tale l’intuito chiaro che mi concede il Signore che non mi sembra possibile trattenerlo, e non rare volte vedo anche le deformità delle loro anime».
Accadevano episodi che a volte spaventavano lui stesso. Un giorno tornò a casa turbato e raccontò alla sorella: «Sai cosa mi è accaduto oggi? E venuta da me una signora con la figlia. La signorina poteva avere ventiquattro o venticinque anni. Guardandola le ho detto:
‘Signorina, lei non ha ancora fatto la prima Comunione!’. Da alcune lacrime mi sono accorto che la cosa era vera. Poi ho fissato la signora e le ho detto: “Signora, lei convive con un sacerdote apostata”. Sai, era tutto vero e non riesco a spiegarmi come ho fatto!».
La sorella dovette consolarlo e dirgli che si trattava certamente di un caso, come a volte ne accadono.
Sia per quanto riguarda la malattia fisica che per quanto riguarda la malattia spirituale, egli sembra dunque dotato di un di più (analogo a quello che il Vangelo racconta di Cristo!). Ma occorre intenderci bene: in Moscati questo di più non appariva tanto come qualcosa di miracolistico, di meccanicamente aggiunto alle normali capacità mediche: appariva invece come una sorta di miracolo di unificazione. Per spiegare: era come se la sua persona, dopo aver percorso tutto il campo della scienza (il cui studio era continuo e indefesso) e dopo aver percorso anche tutto il campo della maturazione spirituale che gli era possibile, si trovasse collocata nel punto di innesto di questo duplice itinerario: là dove il suo sguardo poteva ugualmente spaziare in ambedue le direzioni, e farne una sintesi.
A un certo punto della vita, in Moscati, scienza e fede mostrarono non solo la loro non-contrarietà ma la loro identica struttura di carità: il loro essere aspetti diversi di quell’unica intelligenza di amore che ci ha assieme creati e redenti.
Quando si fu ben collocato nella «carità», Moscati si trovò ad essere sia un grande medico anche in forza della sua fede, sia un grande credente anche in forza della sua scienza.
Dal punto di vista del paziente l’unificazione operata dalla carità fece percepire a Moscati il binomio malattia-guarigione come relativo a tutto l’essere umano, anticipando tutte le più recenti acquisizioni della scienza. Ha detto Giovanni Paolo ti nel discorso di canonizzazione che egli fu «anticipatore e protagonista di quella umanizzazione della medicina avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata attenzione e assistenza a chi soffre».
Certo, negli ultimi decenni, molti medici sono diventati sempre più perplessi sulle possibilità di curare un uomo come se fosse solo «una malattia» o un organo malfunzionante. Ci si è anche dedicati alla cura della psiche, sviluppandola purtroppo solo in forme parallele e per tentativi, «per scuole», che spesso trattano anche la psiche come una parte malata (da raggiungere spesso a costo di incredibili manipolazioni e amputazioni).
La «carità» di Moscati gli fece intravedere tale unità del paziente e nel paziente e lo rese duro nel rivendicare la dignità del malato.
Quando si parlò della clinicizzazione degli ospedali, voluta da Gentile, egli scrisse una lettera all’amico Benedetto Croce per protestare contro «i decreti che dispongono della carne umana come di mercanzia» e da cui gli «ammalati sono sbattuti come titoli in borsa».
Scrive in una recensione: «Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».
Eppure anche qui bisogna fare un passo ulteriore: Moscati non era preoccupato solo dell’unità somatico-spirituale dell’uomo, e di una visione integralmente umana della malattia, ma ciò gli sembrava il minimo indispensabile per un ulteriore affondo sull’integrum dell’uomo. La cura dell’unità psico-fisica doveva spingersi fino alle ultime profondità spirituali, fino all’ultima sofferenza dell’anima, fino all’ultima esigenza di felicità, con un deciso orientamento ultraterreno.
Dal punto di vista della medicina il problema malattia-guarigione doveva essere considerato percependo sia l’unità del «male» (fino al male-peccato), sia l’unità della salute (fino alla salute-salvezza), sia l’unità tra chi opera nei diversi campi (unità, non semplice distribuzione dei ruoli), sia infine l’unità delle strutture in cui il bisogno di guarigione viene accolto e trattato.
Moscati non solo percepì la sua professione in stretta connessione con quella del sacerdote, ma, nella situazione del suo tempo, tentò di coprire misericordiosamente e intelligentemente tutto lo spazio che conduceva fino al ministro del perdono di Dio e della vita soprannaturale. Ciò che egli fece da solo, in una situazione e in un tempo in cui l’istituzione si disinteressava totalmente della profonda identità dei pazienti, può oggi essere riproposto a livello di progetto.
Alla lettera piena di gratitudine di un discepolo medico che lo lasciava per un primo incarico, Moscati rispondeva lasciandogli in eredità questo ricordo: «Non la scienza ma la carità ha trasformato il mondo... Ho sempre vivo nel cuore il rammarico di sapervi lontano e solo mi conforta che abbiate conservato in voi qualcosa di me; non perché io valga nulla, ma per quel contenuto spirituale che mi sforzo di trattenere e di diffondere intorno. Io vi tengo presente, siatene sicuro. Vi bacio in Cristo!».
la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo la Chiesa potrà farlo solo se i suoi laici impareranno a far risplendere quotidianamente tale luce sul loro volto.
Mentre, il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente, un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’androne di casa Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».
Forse adesso capiamo perché il cardinale Roncalli, quando lesse la vita di Moscati, lo definì Lumen ecclesiae, luce della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, da lui voluto, avrebbe detto poi che il compito della Chiesa è «riflettere nel mondo quella Luce delle Genti (Lumen Gentium) che è Cristo».
Ebbene, questo la Chiesa potrà farlo solo se i suoi laici impareranno a far risplendere quotidianamente tale luce sul loro volto.
Mentre, il giovedì santo del 1927, il corteo funebre si snodava per le vie di Napoli, con un immenso seguito di docenti, di studenti e di umile gente, un vecchietto si avvicinò al tavolino posto nell’androne di casa Moscati e sul registro delle condoglianze scrisse con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».
Nessun commento:
Posta un commento