Un pranzo condiviso
Alla fine di luglio due giovani sposi della città turca di Kilis, vicinissima ai confini con la Siria, hanno invitato al loro pranzo di matrimonio ben 4000 persone e, si badi bene, non certo per manie di grandeur. Queste 4000 persone erano e sono una piccolissima porzione del milione e mezzo di profughi siriani che vivono nei campi allestiti entro i confini turchi. L’idea di condividere la loro gioia con altri meno fortunati è venuta al padre dello sposo. «Ho pensato, ha esclamato, che consumare una cena deliziosa con i nostri amici e con la nostra famiglia non era necessario, soprattutto sapendo che ci sono tante persone bisognose vicino a noi». Da lì il passo è stato breve perché è bastato contattare una organizzazione turca che si occupa di assistere i profughi e donarle i risparmi raccolti per la festa di matrimonio. La generosità degli sposi non si è fermata all’atto della donazione del denaro. Le fotografie li mostrano in eleganti abiti nuziali mentre dietro a un camion-bar distribuiscono il cibo ai profughi. «È stato il momento più bello della mia vita, ha commentato il giovane sposo. Vedere la felicita negli occhi dei bambini siriani è stato impagabile. Abbiamo cominciato il nostro viaggio verso la felicità rendendo felici altre persone». La sposa, dopo una prima fredda reazione alla proposta che veniva dalla famiglia del marito, ha cambiato parere e ha detto che quel pranzo condiviso è stata «un’esperienza meravigliosa». Ma i motivi per cui gioire non finiscono qui. Gli amici dello sposo hanno aggiunto che quel gesto di condivisione ha fatto nascere il desiderio di «organizzare una festa simile per il loro matrimonio».
Perché non confessarlo: anche se gli sposi probabilmente non lo sanno, il fatto accaduto ha, per chi lo vuol vedere, un sapore evangelico, e perciò umano, che non può non interrogarci. Tutti ricordiamo le parole di Gesù: «Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”» (Lc 14,12). Chi tra gli sposi di casa nostra farebbe qualcosa di simile a quello che hanno fatto i due giovani sposi turchi? Chi accetterebbe di condividere un momento di gioia così intimo e personale con molti sconosciuti? Non era più facile dirsi: «A che titolo questi profughi dovrebbero aver parte alla mia festa? Porterò a loro la mia generosità in un altro momento».
La vera felicità
Meglio di tante parole, la risposta a questi interrogativi ci pare ben espressa da una pagina de Il Dottor Zivago di Boris Pasternak. Dopo un lungo periodo di assenza da Mosca, Zivago vi fa ritorno mentre la città, lacerata dagli sconvolgimenti rivoluzionari, è in preda alla fame. Riabbracciati la moglie Tonja e il figlio Saša, alcuni giorni dopo, con i vecchi amici organizza un pranzo. La fortuna aveva voluto che prima di scendere dal treno che lo riportava a casa qualcuno gli regalasse un’anitra. Ecco allora le riflessioni di Pasternak attorno a quel pranzo un po’ speciale e ai suoi commensali:
«La grassa anitra era un lusso inaudito per quei tempi già di fame, ma mancava il pane, così che risultava assurda, addirittura irritante, la suntuosità di quel pranzo». Poi prosegue con queste parole: «Ma la cosa più triste era che tutti [i partecipanti al pranzo] sentivano quella serata come una stonatura di contro le condizioni generali di quel tempo. Era impensabile, infatti, che nelle case dall’altra parte dei vicolo si bevesse e mangiasse, in quel momento, allo stesso modo. Fuori della finestra si stendeva Mosca, oscura, muta e affamata. I suoi negozi erano vuoti e la gente aveva dimenticato persino l’esistenza di cose come la selvaggina e la vodka».
Lo scrittore russo conclude la sua intelligente riflessione su quel pranzo così: «Si accorsero allora che solo la vita simile alla vita di chi ci circonda, la vita che si immerge nella vita senza lasciar segno, è vera vita, che la felicità isolata non è vera felicità, tanto che un’anitra e l’alcool, se unici nella città, non sembrano più nemmeno anitra e alcool. Era questo che amareggiava più di ogni altra cosa».
Non sappiamo se i due giovani sposi turchi conoscevano il romanzo di Pasternak. Sappiamo solo che quando gli uomini ascoltano il senso religioso che abita nel loro cuore, seppur per strade e tradizioni diverse, ma non per questo contrarie, arrivano a vibrare per la stessa verità che «tutti ci domina e tutti ci libera» e capiscono che «la verità è vicina, molto vicina all’amore» (Paolo VI). A Mosca ieri, a Kilis oggi, nel romanzo e nella realtà, ciò che rende felice la vita è sempre la stessa verità: la felicità e la gioia vere hanno sempre il sapore della condivisione.
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