Come difendersi dal deserto che avanza
Uno tsunami di chiacchiere, un’alluvione di sciocchezze e pure
idiozie, una tracimazione di banali o ridicoli “secondo me” che
pretenziosi sentenziano su tutto e tutti…
Come difendersi da questo assordante assedio di tv, internet e altri media che ci fanno perdere di vista la realtà e perfino la cognizione di noi stessi (e che forse proprio per far perdere la cognizione del dolore vengono fatti dilagare)?
Queste formidabili armi di “distrazione” di massa riescono a far credere ad alcuni miliardi di abitanti del pianeta, per giorni, che il matrimonio di due bamboccioni di buona famiglia a Londra sia “la” notizia da diffondere in mondovisione per ore e che debba elettrizzare l’umanità, che sia la notizia importante per la nostra vita.
Assai più delle tragedie del mondo (perlopiù oscurate) e pure della nostra esistenza concreta, delle nostre difficoltà, delle nostre intime e brucianti domande, della nostra personale ricerca del senso della vita.
“Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta,/ forse po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).
Tutto cospira a cancellare la domanda “per cosa vale la pena vivere?” o “chi sono io?”, tutti si rassegnano al pensiero dominante, a ripetere quel che “si dice”, a vivere all’esterno di se stessi.
E così “tutti quelli che mi hanno incontrato è come se non m’avessero veduto” (Rimbaud).
Così ci lasciamo convincere addirittura che è bene non essere se stessi, che l’inautentico è un’opportunità, che tante maschere possano sostituire un volto assente.
Lo proclama un personaggio di Philip Roth nel romanzo ‘La controvita’:
“Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io.
Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio.
Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro”.
Così siamo divenuti una dimora disabitata, estranea a noi stessi. Per questo la nostra generazione trova così arduo accompagnare i propri figli in quella fondamentale avventura che è la conoscenza di sé e l’esplorazione del mistero dell’esistenza.
E siccome però esplode da ogni fibra del nostro essere il bisogno di ritrovarci, di scoprire la nostra anima, siccome non possiamo sfuggire alla “nostalgia del totalmente altro”, allora l’industria delle parole ci rifila sui suoi scaffali i “prodotti spirituali”, i Mancuso, i Galimberti e perfino gli Scalfari…
Come se si potesse mai placare l’atavica sete di acqua fresca di un morente nel deserto, con un diluvio di confuse chiacchiere sull’acqua.
Converrebbe piuttosto scoprire guide autentiche, per farci accompagnare alla decifrazione della nostra condizione umana e verso sorgenti di acqua zampillante…
Ci sono due testimoni, due grandi anime, apparentemente molto diverse e lontane: Franz Kafka e santa Teresa d’Avila. Cos’hanno in comune lo scrittore praghese e la mistica spagnola?
Intanto nascono entrambi nella storia e nella sensibilità ebraica e poi hanno scritto due libri – a distanza di tre secoli e mezzo – con un titolo quasi identico: “Il Castello”, nel caso di Kafka e “Il castello interiore” nel caso di Teresa d’Avila.
Per entrambi il “castello” è la metafora della misteriosa fortezza dell’anima, dell’autenticità. E’ stato Antonio Sicari ad accostare, in un suo piccolo volume – “Fortezze accessibili” (edizioni Ocd) – questi due grandi e i loro due libri.
Il “Castello” di Kafka racconta – secondo la sintesi di Sicari – di “un impiegato che giunge nel villaggio situato ai piedi del Castello da cui è stato ufficialmente convocato per assumervi il posto di agrimensore (geometra)”.
Quella “convocazione” del protagonista, identificato come “K.”, è la chiamata ad esistere (dal nulla) e al grande compito della vita.
“Ma nel Castello egli non riesce ad entrare a causa di mille difficoltà e mille intralci burocratici.. Il suo contratto d’assunzione è regolare e non può essere sciolto, ma è stato fatto nell’epoca in cui al Castello c’era veramente bisogno di un geometra, poi la pratica è andata smarrita per anni, quando finalmente è stata ritrovata e spedita già non c’era più bisogno di lui”.
Lo “spaesamento” del protagonista, ci avverte Sicari, è quello dell’uomo moderno: “gettato in un mondo dove non è atteso, dove è di troppo, dove nessuno ha bisogno di lui”.
Infatti l’ostessa del villaggio dice a K. : “lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla”.
A dire il vero c’è stata un’occasione in cui K. poteva entrare finalmente nel Castello: “di fatto c’è un istante notturno in cui sembra che gli venga offerta una qualche possibilità, ma, proprio in quel momento, K. è intontito dal sonno e non ha la forza di rendersene conto”.
Quante volte un avvenimento, un incontro, un fatto, un volto ti fa intuire o ti spalanca la possibilità di ritrovare te stesso, ma poi quella possibilità di una vita diversa non fiorisce, non diventa una storia, viene perduta nella distrazione, a causa del nostro torpore, sprecata dalla nostra mancata adesione, dalle nebbie della sonnolenta esistenza “fuori” di noi.
Cosa ci sia dentro il Castello, cioè cosa si perde a starne fuori, lo racconta Il Castello interiore: “Anche Teresa” spiega Sicari “parla di un uomo ‘estraneo’ al Castello e ne parla in termini ancora più radicali (dato che, nella sua opera, l’uomo esiliato diventa sempre più simile alle bestie), ma ella ha anche insegnato la possibilità, e perfino il dovere, di ‘entrare’ nel Castello, di ‘abbellire e abitare’ progressivamente tutte le sue dimore e perfino di raggiungere l’appartamento regale dove si è amorevolmente attesi”.
Dal tempo di Teresa all’epoca moderna cosa è accaduto? E’ diventato più difficile incontrare delle “guide” che aprano le porte del Castello e ti accompagnino a gustarne le delizie.
Infatti K. non trova intermediari, non trova chi lo aiuti: “è alla spasmodica ricerca di un qualche amico, anche miserabile” nota Sicari, ma “non c’è mediatore alcuno, non c’è Messia”.
Il nostro è il tempo della povertà, quello in cui è più difficile incontrare i santi, gli amici del Salvatore, è più difficile riconoscerli e seguirli.
Eppure Dio ci raggiunge comunque attraverso il “divino drappello” dei suoi santi che è la Chiesa.
E’ proprio la “detestata” (dal mondo) Chiesa che può accompagnare l’uomo nel Castello in cui è stato chiamato a regnare.
Un po’ come lo “stalker” dell’omonimo film di Tarkovskij (un ex detenuto del lager, uno che a un certo punto mette sulla testa una corona di spine) accompagna chi lo chiede nella “zona” dove si trova la misteriosa “stanza dei desideri”.
Scrive Wittgenstein “Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che ‘Dio’ non mi visiti”.
Il Re dei Cieli ci visita e noi non ce ne accorgiamo, pieni di sonno, storditi dalle chiacchiere e dal frastuono della vita esteriore (fuori dal Castello) che non ci fa accorgere della sua voce che ci chiama.
Cosicché Eliot poteva scrivere: “Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio/ Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo/…/ Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?/ Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 8 maggio 2011
Come difendersi da questo assordante assedio di tv, internet e altri media che ci fanno perdere di vista la realtà e perfino la cognizione di noi stessi (e che forse proprio per far perdere la cognizione del dolore vengono fatti dilagare)?
Queste formidabili armi di “distrazione” di massa riescono a far credere ad alcuni miliardi di abitanti del pianeta, per giorni, che il matrimonio di due bamboccioni di buona famiglia a Londra sia “la” notizia da diffondere in mondovisione per ore e che debba elettrizzare l’umanità, che sia la notizia importante per la nostra vita.
Assai più delle tragedie del mondo (perlopiù oscurate) e pure della nostra esistenza concreta, delle nostre difficoltà, delle nostre intime e brucianti domande, della nostra personale ricerca del senso della vita.
“Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta,/ forse po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).
Tutto cospira a cancellare la domanda “per cosa vale la pena vivere?” o “chi sono io?”, tutti si rassegnano al pensiero dominante, a ripetere quel che “si dice”, a vivere all’esterno di se stessi.
E così “tutti quelli che mi hanno incontrato è come se non m’avessero veduto” (Rimbaud).
Così ci lasciamo convincere addirittura che è bene non essere se stessi, che l’inautentico è un’opportunità, che tante maschere possano sostituire un volto assente.
Lo proclama un personaggio di Philip Roth nel romanzo ‘La controvita’:
“Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io.
Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio.
Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro”.
Così siamo divenuti una dimora disabitata, estranea a noi stessi. Per questo la nostra generazione trova così arduo accompagnare i propri figli in quella fondamentale avventura che è la conoscenza di sé e l’esplorazione del mistero dell’esistenza.
E siccome però esplode da ogni fibra del nostro essere il bisogno di ritrovarci, di scoprire la nostra anima, siccome non possiamo sfuggire alla “nostalgia del totalmente altro”, allora l’industria delle parole ci rifila sui suoi scaffali i “prodotti spirituali”, i Mancuso, i Galimberti e perfino gli Scalfari…
Come se si potesse mai placare l’atavica sete di acqua fresca di un morente nel deserto, con un diluvio di confuse chiacchiere sull’acqua.
Converrebbe piuttosto scoprire guide autentiche, per farci accompagnare alla decifrazione della nostra condizione umana e verso sorgenti di acqua zampillante…
Ci sono due testimoni, due grandi anime, apparentemente molto diverse e lontane: Franz Kafka e santa Teresa d’Avila. Cos’hanno in comune lo scrittore praghese e la mistica spagnola?
Intanto nascono entrambi nella storia e nella sensibilità ebraica e poi hanno scritto due libri – a distanza di tre secoli e mezzo – con un titolo quasi identico: “Il Castello”, nel caso di Kafka e “Il castello interiore” nel caso di Teresa d’Avila.
Per entrambi il “castello” è la metafora della misteriosa fortezza dell’anima, dell’autenticità. E’ stato Antonio Sicari ad accostare, in un suo piccolo volume – “Fortezze accessibili” (edizioni Ocd) – questi due grandi e i loro due libri.
Il “Castello” di Kafka racconta – secondo la sintesi di Sicari – di “un impiegato che giunge nel villaggio situato ai piedi del Castello da cui è stato ufficialmente convocato per assumervi il posto di agrimensore (geometra)”.
Quella “convocazione” del protagonista, identificato come “K.”, è la chiamata ad esistere (dal nulla) e al grande compito della vita.
“Ma nel Castello egli non riesce ad entrare a causa di mille difficoltà e mille intralci burocratici.. Il suo contratto d’assunzione è regolare e non può essere sciolto, ma è stato fatto nell’epoca in cui al Castello c’era veramente bisogno di un geometra, poi la pratica è andata smarrita per anni, quando finalmente è stata ritrovata e spedita già non c’era più bisogno di lui”.
Lo “spaesamento” del protagonista, ci avverte Sicari, è quello dell’uomo moderno: “gettato in un mondo dove non è atteso, dove è di troppo, dove nessuno ha bisogno di lui”.
Infatti l’ostessa del villaggio dice a K. : “lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla”.
A dire il vero c’è stata un’occasione in cui K. poteva entrare finalmente nel Castello: “di fatto c’è un istante notturno in cui sembra che gli venga offerta una qualche possibilità, ma, proprio in quel momento, K. è intontito dal sonno e non ha la forza di rendersene conto”.
Quante volte un avvenimento, un incontro, un fatto, un volto ti fa intuire o ti spalanca la possibilità di ritrovare te stesso, ma poi quella possibilità di una vita diversa non fiorisce, non diventa una storia, viene perduta nella distrazione, a causa del nostro torpore, sprecata dalla nostra mancata adesione, dalle nebbie della sonnolenta esistenza “fuori” di noi.
Cosa ci sia dentro il Castello, cioè cosa si perde a starne fuori, lo racconta Il Castello interiore: “Anche Teresa” spiega Sicari “parla di un uomo ‘estraneo’ al Castello e ne parla in termini ancora più radicali (dato che, nella sua opera, l’uomo esiliato diventa sempre più simile alle bestie), ma ella ha anche insegnato la possibilità, e perfino il dovere, di ‘entrare’ nel Castello, di ‘abbellire e abitare’ progressivamente tutte le sue dimore e perfino di raggiungere l’appartamento regale dove si è amorevolmente attesi”.
Dal tempo di Teresa all’epoca moderna cosa è accaduto? E’ diventato più difficile incontrare delle “guide” che aprano le porte del Castello e ti accompagnino a gustarne le delizie.
Infatti K. non trova intermediari, non trova chi lo aiuti: “è alla spasmodica ricerca di un qualche amico, anche miserabile” nota Sicari, ma “non c’è mediatore alcuno, non c’è Messia”.
Il nostro è il tempo della povertà, quello in cui è più difficile incontrare i santi, gli amici del Salvatore, è più difficile riconoscerli e seguirli.
Eppure Dio ci raggiunge comunque attraverso il “divino drappello” dei suoi santi che è la Chiesa.
E’ proprio la “detestata” (dal mondo) Chiesa che può accompagnare l’uomo nel Castello in cui è stato chiamato a regnare.
Un po’ come lo “stalker” dell’omonimo film di Tarkovskij (un ex detenuto del lager, uno che a un certo punto mette sulla testa una corona di spine) accompagna chi lo chiede nella “zona” dove si trova la misteriosa “stanza dei desideri”.
Scrive Wittgenstein “Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che ‘Dio’ non mi visiti”.
Il Re dei Cieli ci visita e noi non ce ne accorgiamo, pieni di sonno, storditi dalle chiacchiere e dal frastuono della vita esteriore (fuori dal Castello) che non ci fa accorgere della sua voce che ci chiama.
Cosicché Eliot poteva scrivere: “Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio/ Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo/…/ Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?/ Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”.
Antonio Socci
Da “Libero”, 8 maggio 2011
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