SANTA TERESA D'AVILA
Dottore della Chiesa
La mia vita era una vita tra le più penose che
si possa immaginare perché non godevo di Dio, nè trovavo felicità nel mondo...
Anelavo a vivere, giacché mi rendevo conto di non stare vivendo, bensì lottando
contro un’ombra di morte... Oramai la mia anima si sentiva stanca e, sebbene lo
volesse, le sue antiche abitudini non le permettevano assolutamente di
riposare... (Autobiografia 8,2.12; 9,1).
La donna che parla così di se stessa, colta in
un momento di disperante stanchezza spirituale, è Teresa d’Avila, a circa
quarant’anni
di età, quando non si era ancora arresa
totalmente a Dio, anche se era già monaca carmelitana da vent’anni.
Di questo primo periodo monastico, ella scrive:
Trascorsi quasi vent’anni in questo procelloso
mare, cadendo e rialzandomi, ma rialzandomi male perché tornavo sempre a cadere
(8,2):
una vicenda così meschina, per cui bramerei che
i miei lettori mi aborrissero, vedendo descritta un’anima tanto ostinata e
misconoscente verso Colui che le ha accordato tante grazie (8,1).
Che cosa accadeva dunque dietro le mura di quel
Monastero dell’Incarnazione, ad Avila, in cui Teresa de Ahumada viveva ormai da
due lunghi decenni?
- Io sono la più debole e misera creatura
dell’intera umanità» (7, 22)—ella confessa—, e noi abbiamo ragione a immaginate
un dramma interiore di estrema gravità e violenza.
Eppure si tratta di un dramma alla cui qualità
noi non siamo certo abituati; noi immaginiamo facilmente tentazioni, cadute e
pentimenti secondo schemi corposi e in fondo banali, ma ci è difficile
immaginare l’esistenza di drammi spirituali che si sviluppano più duramente di
una battaglia, ma su un terreno in cui si tratta esclusivamente dell’amore
dovuto a Dio.
Teresa parla della sua « vita disgraziata» di
allora, della sua
«
vita rovinosa », ma noi resteremmo molto sorpresi se ci
mettessimo a cercare quelli che siamo soliti chiamare « peccati gravi». Lei
stessa ce ne avverte:
Malata io nell’anima... – scrive - invischiata
com’ero in tanta vanità, eppure non al punto di trovarmi consapevolmente in
peccato mortae, neppure al tempo della mia massima dissipazione... infatti
qualora la coscienza mi avesse avvertito di una cosa del genere, non sarei
assolutamente rimasta in tale stato (7,14).
C’è quindi nella sua vita qualcosa che non si
può neppure chiamare « peccato» (anzi, alcuni confessori la tranquillizzavano
dicendole che col suo comportamento faceva del bene al prossimo), eppure era per
lei talmente grave che Teresa diceva di sè: « ero come una che si porta addosso
la sua perdizione».
Ce n’è abbastanza per acuire la nostra curiosità
e, ancor più, per far vibrate la nostra coscienza che così facilmente si adagia
nell’abitudine, fino a diventare inerte e opaca.
Per capire di quale dramma si tratti, dobbiamo
tornare all’infanzia di Teresa.
Agli inizi di quel secolo XVI in cui nasce ad
Avila Teresa de Ahumada, nel 1315, la Castiglia si apriva al mondo: non era più
una semplice contea e neppure solo un regno. Ma era diventata improvvisamente
(con Carlo v) il centro di un impero su cui non tramontava mai il sole. Teresa
non aveva ancora 16 anni che la sua piccola città di Avila, splendida come un
castello, si apriva per accogliere l’imperatrice che veniva a passare l’estate
col piccolo Filippo II, di quattro anni: trecento coppie di fanciulle
della nobiltà (tra le quali certamente Teresa) avevano danzato per festeggiare
l’arrivo delle loro imperiali maestà. Qualche anno dopo lo stesso Carlo v (che
nel 1330 aveva ricevuto dal Papa a S. Petronio di Bologna la corona d’oro
d’imperatore) entrava trionfalmente ad Avila inaugurando una di quelle feste per
le quali era capace di spendere quanto sarebbe bastato per armare un esercito.
Nella casa di D. Alfonso de Cepeda y Ahumada
vivevano sei maschi e tre femmine, la madre era morta quando Teresa aveva appena
dodici anni. Uno alla volta i maschi partivano per il nuovo mondo scoperto da
Cristoforo Colombo, al di là dell’Oceano, spinti da un impulso che stava a metà
strada tra il desiderio di carriera e di conquista e la coscienza d’avere una
missione cristiana da compiere.
Restavano a casa le tre femmine, delle quali la
più impetuosa era certamente Teresa.
A sei anni era già capace—in quel tempo!—di
leggere da sola e il libro che la affascinava era il Flos sanctorum che
raccoglieva assieme la vita di Cristo e quella « eroica» di alcuni santi
(martiri, eremiti e sante vergini).
Durante le lunghe sere lo si leggeva insieme in
famiglia, ma poi Teresa si prendeva il volume per suo conto e ne ragionava col
fratellino Rodrigo di otto anni.
Tra i due nasceva una specie di « gioco»
spirituale: « C’è una vita che è per sempre, per sempre, per sempre! ,—diceva
Teresa.
E Rodrigo doveva rispondere esattamente: « Sì,
Teresa, per sempre, per sempre, per sempre».
Poi quella minuscola bambina riprendeva
implacabile: e c’è una pena che è per sempre, per sempre, per sempre».
E Rodrigo obbediente: « Sì, Teresa, per sempre,
per sempre, per sempre». E i due bimbi restavano li, assieme, a gustare—un po’
atterriti e un po’ deliziati—il brivido dell’eternità.
Il « gioco» divenne così serio che un mattino,
assai presto, i due piccoli fuggirono di casa: volevano andare in una
imprecisata terra dei mori» (la Spagna era stata liberata dal dominio arabo solo
da poco), in modo da farsi uccidere per la fede, come i martiri, e così poter
entrare in quella « vita eterna» che tanto li affascinava.
Allo zio che riuscì a rintracciarli (quando
ormai quasi li piangevano morti, pensandoli caduti in uno dei numerosi pozzi
aperti nelle campagne), e poi anche alla mamma che li rimproverava inquieta,
Rodrigo rispondeva piangendo d’aver fatto quello che aveva voluto Teresa, ma
Teresa, con la voce e gli occhi pieni di desiderio e di sfida, aveva insistito:
« Io voglio andare a vedere Dio».
Nella autobiografia, scriverà poi con tenerezza
e humor: « La difficoltà più grave per mettere in atto i nostri progetti era
quella di avere dei genitori».
La piccola comunque non disarmò: se non potevano
diventare martiri, potevano almeno vivere come eremiti (era la seconda categoria
di santi che conoscevano), e così convinse il fratellino a costruire assieme,
nel giardino di casa, una specie di celletta in muratura, ma...
« accatastavamo piccoli sassi che finivano per
cadere quasi subito».
Certo noi possiamo sorridere di questi ardori
infantili, eppure Teresa, divenuta ormai una grande mistica e rileggendo questi
primi episodi, scrive:
Suscita in me una devota tenerezza constatare
come Dio mi abbia concesso subito, fin da principio, ciò che poi ho perduto per
mia colpa.
In fondo è quello che ognuno di noi dovrebbe
dire, anche solo pensando al suo battesimo.
La Santa sottolineerà molto l’importanza di quei
primi episodi, spiegandoli con una formula un po’ strana ma molto
significativa:
Piacque al Signore che mi restasse impresso
nell’anima, fin dalla più tenera infanzia, il cammino della verità (1,4).
Anche se ella spinge la sua analisi fino a
sottolineare con tale sincerità, una certa radice non del tutto sana che
avrebbe avuto poi conseguenze negative nella sua vita spirituale.
Dice:
...desideravo molto di morire così (cioè, da
martire), sebbene non perché avessi per Dio un vero amore, ma piuttosto per
andare a godere assai alla svelta e a buon mercato di quei beni che leggevo
esserci in cielo (1,4).
Come è esigente Teresa con se stessa bambina!
eppure è proprio in questa prima radice che si nasconde il problema esistenziale
che travaglierà a lungo la sua vita: allora l’attraeva più il « gioco» del
paradiso che l’amore di Dio.
Ed ecco che man mano che Teresa entra nello
splendore della sua adolescenza e poi della giovinezza, scopre sì d’amare Dio
così come si ama la bellezza, la felicità, l’eternità, ma scopre anche di amare
la vita, il suo corpo, il fascino degli affetti e delle avventure umane.
Comincia ad amare assieme, per così dire, il
cielo e la terra, e non sa bene come le due cose si possano conciliare.
Come a sei anni aveva letto ripetutamente il
Flos .sanctorum, così ora, nella prima adolescenza, Teresa legge di
nascosto, quei romanzi di cavalleria che allora riempivano la Spagna, con i
quali la madre malaticcia si distrae nelle lunghe ore di degenza...
Vi consuma « tante ore del giorno e della notte
»—bene attenta a che il papà non la scopra, e se ne imbeve talmente che—sempre
col fratello Rodrigo—ne scrive uno a due mani: un romanzo cavalleresco che di
nascosto i fratelli e i cugini si passano di mano in mano. E pare sia stato
molto apprezzato.
Intanto fiorisce la squisita femminilità di
questa fanciulla che per tutta la vita riuscirà sempre ad affascinare chiunque
le si accosti.
Dissero di lei: « Teresa aveva le proprietà
della seta dorata che si accorda bene con ogni tipo di tessuto e con ogni
gradazione di colore ».
E lei stessa ammette semplicemente:
Il Signore mi ha fatto trovare affetto
dappertutto, e sempre.
Iniziò a coltivare esageratamente—per l’età e
l’ambiente in cui viveva—la sua persona:
Cominciai a vestirmi con ricercatezza e a
desiderare di comparire. Avevo somma cura delle mani e dei capelli. Usavo profumi
e ogni altra possibile vanità: tutte cose che per essere io molto raffinata,
non mi bastavano mai.
Contemporaneamente, nel gruppo dei cugini e dei
parenti, diventa lei la confidente di tutte le piccole avventure amorose, e il
centro dove s’intrecciano le fila di tutte le affezioni. Lo fa con ingenuità e
innata signorilità, ma è nell’età più pericolosa e ciò che osserva e ascolta le
si imprime dentro profondamente.
Si va così costruendo quel dramma che abbiamo
annunciato all’inizio e che meriterebbe una più profonda analisi psicologica e
teologica assieme. Qui possiamo solo accennarvi.
Da un lato resta inestirpabile in lei la
persuasione dei valori eterni, definitivi ai quali occorre consacrare
interamente la vita (e questo—soprattutto nella mentalità di quel tempo—voleva
dire: vocazione monastica), dall’altro si sviluppa in lei il fascino di tutto
ciò che nel mondo è bello, desiderabile, cavalleresco, raffinato, amabile.
A volte il pensiero del chiostro la affascina
col suo radicalismo, e a volte ne prova « fortissima avversione ». E d’altra
parte anche il matrimonio le sembra limitare la sua passione per il tutto.
Ma è una hidalga spagnola, i cui fratelli si
preparano a partire per conquistare il nuovo mondo.
Così Teresa a vent’anni decide di rischiare
tutto: sfida il padre che non vuole neppure sentir parlare di vocazione
monastica e, all’alba del 2 novembre 1535, fugge di casa, e si presenta
al monastero carmelitano dell’Incarnazione.
Tra parentesi—poiché è sempre la Teresa di un
tempo—ha convinto uno dei fratelli a fare lo stesso e a presentarsi
contemporaneamente al convento dei domenicani.
Scrive poi:
Rammento, e credo di dire proprio la verità, che
quando lasciai la casa di mio padre provai un dolore così lancinante da farmi
pensare che non se ne provi uno maggiore neppure quando si sta per morire:
sembrava che le ossa mi si slogassero ad una ad una (4,1).
Nella sua bella e quasi intraducibile lingua
spagnola dice:
no créo serà mas el sentimiento cuando me muera:
non credo che proverò maggior struggimento
quando morrò.
Decise dunque, per così dire, a favore di Dio, «
facendosi forza».
La sua acuta sensibilità alla dimensione «
eterna » della vita (vita è quella che dura per sempre) la orientò con
determinazione e generosità a preferire comunque la vita monastica, ma la
considerò un purgatorio, un passaggio di necessaria sofferenza, per poter
giungere al cielo, un tempo di dura attesa.
In convento, a dire il vero, si trovò bene e
iniziò subito un impegnativo lavoro ascetico su se stessa, dando prova di
grande generosità e virtù: ma forse perché quella vita era troppo impegnativa e
diversa da ciò a cui era abituata, forse perché lo sforzo psicologico era stato
eccessivo, ne subì il contraccolpo fisico. Cadde in una strana malattia che non
si sapeva come curare: « dalla testa ai piedi—dice Teresa—ero tutta una spasimo
». I rimedi sbagliati e debilitanti fecero il resto e si aggravò talmente da
giungere in punto di morte. Anzi, per qualche giorno la credettero morta
addirittura.
Si riebbe infine, ma era completamente
paralizzata e, soprattutto, le era rimasta addosso una terribile paura di
morire.
Chi ha voluto leggere in questa malattia un
insieme di fenomeni isterici si è sempre scontrato con l’evidenza di tutte le
testimonianze che parlano di una Teresa equilibrata, affascinante, buona, capace
di sorreggere gli altri, paziente e umanissima pur dentro le più acute
sofferenze. D’altra porte questo sarà il segreto e la situazione di tutta la
sua vita: un anima ardente in un corpo fragile che sembra non saper reggere
all’urto interiore, e che pure Teresa piegherà fino a chiedergli prove (viaggi,
fatiche, preoccupazioni) non indifferenti.
Pian piano si riprese: era diventata una monaca
saggia, matura, che aveva imparato a pregare: era amata e ricercata, dentro e
fuori il monastero, soprattutto da chi voleva percorrere le vie della santità.
Lo stesso papà di Teresa veniva da lei per farsi guidare spiritualmente, e
divenne così maturo da morire come un santo.
Attorno a quella monaca di Avila si creò ben
presto una cerchia di amici, affascinati dalla sua forte dolcezza e dolce
severità.
Dobbiamo ricordare che ella viveva in un tempo
in cui i problemi spirituali destavano comunque attenzione anche in gente
ingolfata nelle preoccupazioni e nelle vanità del mondo. Di preghiera e di vita
interiore si parlava allora anche nei salotti delle duchesse.
Così l’antico problema di Teresa si ripresentò
con più matura violenza.
Avevo—ella scrive—un difetto gravissimo da cui
mi sono venuti molti mali, ed era questo: che appena m‘accorgevo che una
persona mi voleva bene e mi era simpatica, mi affezionavo ad essa così da averla
sempre in mente. Intendiamoci, non già che io volessi offendere Dio in nulla, ma
gioivo nel vederla, nel pensare a lei e alle buone qualità che possedeva, al
punto di farmi rischiare seriamente di perdere l’anima (37,4).
Prima di proseguire dobbiamo comprendere bene il
livello in cui questi sentimenti erano vissuti: non si trattava per lei di
quelle amicizie un po’ ambigue, un po’ morbose alle quali a volte si lasciano
andare anche le persone consacrate quando restano insicure e indecise nella
loro vocazione. I rapporti che Teresa instaurava erano di vera e profonda
amicizia spirituale (molti anni dopo, a una sua novizia che la interrogava su
certi turbamenti sessuali, Teresa rispondeva candidamente di non sapere che cosa
fossero), e tuttavia ella si sentiva
« indegna di Dio
»,
indegna di pregare.
Quando vuole spiegare questo suo dramma, da un
lato dice che non faceva nulla di male (e su questo i suoi confessori non solo
erano d’accordo, ma la spingevano a continuare nel suo « apostolato »),
dall’altro dice che si stava « dannando » e spiega:
non ero intera, mi sentivo impastoiata
davanti alla determinazione di darmi totalmente a Dio, non riuscivo a
rinchiudermi in me stessa (per pregare), senza trascinarmi dietro anche
l’ammasso delle mie vanità.
Insomma: messa davanti ai due grandi
comandamenti, quello di amare Dio con
tutto
il cuore e quello di amare il prossimo,
Teresa capisce che giunge un momento d’intensità spirituale in cui bisogna saper
mettere Dio non al primo posto, ma all’unico posto (‘tutto’ il
cuore), rinunciando ad ogni attaccamento, ad ogni altro amore, per ricevere poi
nuovamente tutto, anche il prossimo da amare, dalle Sue mani.
Teresa intuì questa richiesta (che Dio fa quando
si matura davvero nella fede), ma aveva paura ad abbandonare tutto, non riusciva
ancora a credere completamente che l’amore di Dio solo potesse colmarle il
cuore. Perché non riusciva a fidarsi?
L’episodio risolutivo che le accadde ci aiuterà
a comprenderlo.
Un giorno, tornando da uno di quei colloqui
spirituali che ormai la turbavano e la impoverivano, si trovò a passare davanti
a un’immagine di Cristo piagato che occasionalmente era stato portato in
convento per una certa celebrazione che vi si doveva tenere.
Ecco il racconto:
...appena lo guardai... fu così grande il dolore
che provai, la pena dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore, che
mi parve che il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime
e lo supplicai di darmi la grazia di non offenderlo più (9, 1).
Quasi contemporaneamente Teresa incontrò un
giovane sacerdote che, confessandola, l’aiutò a giudicarsi non dal punto di
vista del male che faceva o non faceva, ma dal punto di vista del bene che ella
poteva impedire opponendosi alla ricca invasione della grazia di Dio.
Fu come una nuova nascita; Teresa ne parla come
dell’inizio di una « nuova vita ».
Era accaduta una conversione profonda, difficile
da descrivere, ma che, detta con semplici parole, consisteva in questo: quella
antica tensione che lei provava tra il mondo di Dio e il mondo degli uomini,
tra l’eternità e il tempo, tra l’amore dovuto al Signore e quello dovuto al
prossimo, si scioglieva improvvisamente davanti alla percezione immediata, viva
(come se un velo cadesse dagli occhi) del fatto che Cristo è assieme il nostro
Dio e il nostro prossimo, l’eterno che è entrato nel tempo, l’amico con cui si
può vivere, parlare, stare come e più di quanto si fa con ogni altro amico.
Non solo, ma Cristo è il centro in cui tutto può
e deve essere nuovamente raccolto.
Da allora si dedicò con passione assoluta alla
preghiera percepita secondo un metodo particolare: fare compagnia a Cristo nei
misteri della sua vita terrena, attraverso il massimo realismo
possibile: quello delle immagini, quello dell’Eucaristia soprattutto.
E fu una inondazione di visioni, di esperienze,
come se si fosse appunto lacerato quel velo che sempre ci separa un po’ da
Cristo, che sempre ci tenta di considerarLo come una idea, un sentimento, un
personaggio.
Mi sembrava—scrisse Teresa—che Gesù mi
camminasse sempre a fianco... sentivo chiaramente che mi stava sempre al lato
destro, testimone di ciò che facevo e mai potevo dimenticare—se appena mi
raccoglievo un pochino o non ero molto distratta—che Lui era accanto a me (27,
1).
« D’ora in poi—le disse un giorno Gesù—non
voglio che tu parli più con gli uomini » , e Teresa obbedì; ma non nel
senso di entrare in uno spiritualistico mutismo (che anzi la sua vita si
riempirà come non mai di contatti umani, di dialoghi, di affari perfino),
piuttosto nel senso di un ultimo, profondo silenzio: quello di chi (qualunque
cosa dica o faccia) ormai ricorda sempre ciò che gli è accaduto... « e il
ricordo lo riempie di silenzio » (Laurentius l’eremita).
Tutto dunque può essere nuovamente «
detto », e tutto può essere nuovamente « amato », ma «
in
Lui ».
Teresa ha ormai quarantacinque anni e una nuova
pagina della sua vita sta per essere voltata.
Attraverso circostanze apparentemente casuali le
è chiesto di ripensare alla sua vocazione: come ricorderete, era entrata in un
monastero carmelitano per purificarsi come si entra in un purgatorio. Ora
l’amorevole vicinanza di Cristo le fa comprendere una antichissima verità: che
in terra bisogna invece saper anticipare il cielo, quel « centuplo » che Gesù
stesso ha promesso a chi lo segue.
Teresa vive in un monastero dove sono radunate
quasi duecento monache; i problemi pratici, economici, disciplinari non mancano
(e anche questo faceva pensare a un « purgatorio »), eppure ella
dirà che quel gran numero di suore non la disturbavano nel suo rapporto con Dio
« più che se fosse stata sola ».
Tuttavia ascolta qualche amica che le fa
balenare dinanzi il progetto di un piccolo, povero convento, con poche suore
(dodici come il collegio degli apostoli), che nel profondo silenzio e in vera
povertà, sia come « un angolino di cielo ».
Dopo molte traversie Teresa lo realizza,
accogliendovi alcune ragazze di Avila a cui fa da Madre nelle vie dello
spirito, e là vive convinta d’aver toccato il porto della sua vita, felice
soprattutto di quella sintesi finalmente accaduta tra l’eterno e il tempo, tra
l’amore di un Dio sommamente amato e l’amore altrettanto pieno e caldo per
quelle creature che Lui stesso le affida.
Lei, Teresa, è tutta felice, non certo della sua
propria santità a cui non pensa, ma di vivere con quelle anime così sante e pure la cui brama era solo
quella di servire e lodare il Signore... (Egli) ci provvedeva del necessario
senza che lo chiedessimo e quando ce lo lasciava mancare—ciò che avveniva assai
di rado—la gioia era ancora più grande.
Sono le prime parole del Libro delle
Fondazioni: nei primi capitoli Teresa raccoglie i « Fioretti »
carmelitani, assai simili a quelli dell’esperienza francescana.
Tutto sembra concluso, e invece tutto sta per
cominciare, per ora Teresa « muore di non morire », vive cioè, come dice
lei stessa, sobbalzando di gioia ogni volta che l’orologio scandisce le ore,
pensando che l’incontro definitivo con Cristo si è ancora un po’ avvicinato.
Questa casa—scriveva finalmente Teresa—.è un
cielo, se ce ne può essere uno sulla terra.
Ma ormai appartiene totalmente a Cristo ed è
disponibile a tutto.
A volte veramente ha l’intuizione che qualcosa
non sia ancora compiuto.
Scrive:
Mi
veniva spesso da pensare che Dio nel ricolmare
quelle anime (parla delle sue compagne) di tante ricchezze, doveva avere una
qualche grande finalità.
Sente d’altronde crescere in sè il desiderio di
comunicare ad altri quel bene che esperimenta
…parendomi molte volte di essere come una
persona in possesso di un grande tesoro e desiderosa di farne parte a tutti...
(Fond. 1, 6).
Ciò che sta per accadere lo possiamo anticipare
così: fino ad ora Teresa ha vissuto il dramma del suo rapporto personale con
Cristo, la sua dolorosa e gloriosa vicenda con Lui, ora Cristo
decide di immergere ulteriormente tutta l’esperienza di Teresa nel dramma vivo
della Chiesa del suo tempo.
Per una qualsiasi monaca spagnola di allora, la
Chiesa era una realtà di cui si viveva pacificamente: il mondo era un mondo
cristiano in cui tutto trovava un posto armonico: sia il papa come l’imperatore,
sia la cultura sacra come quella profana. Anche se l’unità di questo mondo
cristiano è già stata spezzata da Lutero, Teresa non ne sa nulla, e la Spagna è
allora la nazione più protetta.
Ed ecco che a un tratto le viene rivelato il
volto tragico e dolente della Chiesa del suo tempo.
Proprio mentre ella fonda il suo primo nuovo
monastero carmelitano, in Francia si scatenano le guerre di religione; il
Cardinale di Lorena giunto al Concilio di Trento vi racconta tutto l’orrore che
sta accadendo nella sua patria, e le notizie giungono fino al piccolo monastero
da due fonti: dagli amici religiosi di Teresa (alcuni dei quali lavorano ai
Concilio come teologi), e da una lettera circolare che Filippo II invia a
tutti i monasteri, raccontando i fatti e chiedendo una crociata di preghiere.
Uno scenario mai immaginato si apre davanti alla
coscienza di Teresa: cristiani che combattono e uccidono altri cristiani, le
chiese incendiate e devastate, monasteri aggrediti e svuotati, l’Eucaristia
profanata, il papa e i vescovi divenuti oggetti di odio e di disprezzo. Perfino
noi facciamo oggi fatica a immaginare quanto sia stata brutale la lacerazione
che quasi distrusse l’Europa cristiana.
Teresa poi era troppo intelligente per non
capire subito che quei « grandi mali della Chiesa »—come li
chiamava—erano il triste risultato di una realtà antecedente che lei stessa
definì « le grandi necessità »: troppi cristiani erano stati infedeli alla loro
vocazione soprattutto tra coloro che avrebbero dovuto essere totalmente
consacrati a Cristo e alla Chiesa—e troppi avevano insudiciato il volto della
Vergine Sposa di Cristo. La decadenza della vita religiosa, ad esempio, non le
era del tutto ignota, nemmeno prima.
Non aveva ancora assorbita questa prima
esperienza che la faceva soffrire e la sconvolgeva anche fisicamente, che
un’altra «notizia» —forse ancora più dolorosa—venne a colpirla.
Si presentò per una visita al suo conventino, un
frate francescano che tornava « dalle Indie », cioè dalle nuove terre
scoperte da Colombo.
Teresa aveva seguito da lontano, con gioia e
fierezza, l’avventura conquistatrice in cui erano impegnati non solo
il suo popolo, ma i suoi stessi fratelli. Considerava quella avventura come una
gloriosa, cavalleresca missione. Quando le era giunta, alcuni anni prima, la
notizia che Rodrigo—il compagno delle sue infantili avventure e dei suoi mistici
desideri di allora—era morto combattendo sul Rio de la Plata, ne aveva parlato
alle altre monache con la convinzione d’avere finalmente un fratello martire
« poiché era morto per la difesa della fede ».
Anche il fratello Antonio (quello che in un
primo tempo aveva convinto a farsi religioso come lei) era morto combattendo.
Ma quel francescano che portava le
notizie era
il celebre P. Maldonado, uno dei più ardenti seguaci di Bartolomeo Las
Casas:
il grande vescovo domenicano era ormai morente, stremato dalle fatiche, e
P. Maldonado lo sostituiva, e portava in Spagna l’ultimo Memoriale da lui
scritto, per la Corte di Madrid, per il Consiglio delle Indie e per il Sommo
Pontefice.
I confratelli del P. Maldonado dicevano che a
lasciarlo fare avrebbe parlato per un giorno intero di ciò che gli stava a
cuore: e fu quello che accadde alla grata di quel conventino.
Davanti allo sguardo e alla coscienza di
Teresa
passavano scene accesissime di popoli nuovi che non solo non
incontravano
Cristo, ma che si perdevano invece, divenuti preda da cacciare da parte
di certi
conquistatori spagnoli disumani e feroci. Non tutti certo. Ma come
dovevano
suonare alle orecchie di Teresa frasi come questa terribile attribuita a
Las Casas: « Ho visto indiani morire rifiutando piangendo gli ultimi
sacramenti
perché non volevano entrare nel paradiso degli spagnoli! ».
Forse è una espressione a effetto, costruita
letterariamente, ma il contenuto della denuncia vi è esattamente descritto.
Rimasi così afflitta—racconterà Teresa—che mi
ritirai tutta in lacrime...
Quanto mi costano questi Indiani—scriverà un
giorno al fratello Lorenzo che si trovava ancora oltremare-.., quante sventure
sia qui da noi, che là da voi: ...molte persone mi parlano e molte volte non so
proprio cosa dire se non che siamo peggio delle bestie...
Ma non dobbiamo dimenticare che Teresa non era
più nella condizione in cui molte volte noi ci troviamo e restiamo (quella cioè
di ascoltare notizie terribili, di turbarci e poi... di farle diventare oggetto
del nostro curioso pettegolezzo): di tutto quello che udiva, lei faceva
argomento di preghiera, di dialogo con Cristo, di decisione.
Dobbiamo necessariamente essere molto schematici
nel raccontare l’evoluzione interiore di Teresa:
— Anzitutto maturò in lei quella coscienza così
propria dei santi, che si sentono sempre parte in causa, provocati a riconoscere
la loro propria responsabilità:
Forse sono proprio io quella che Ti ha
incollerito con i suoi peccati, al punto di far piombare sulla terra tanti mali.
Non è falsa umiltà, né vittimismo: è aver
raggiunto una tale coscienza della Chiesa come unico corpo di Cristo, una tale
coscienza dell’abisso che ognuno raggiunge quando commette il male (anche se
superficialmente non sembra tanto grave) che il senso della propria
corresponsabilità inonda l’anima:
Mi pareva—scrive nell’Autobiografia—di
essere così perversa, da credere che tutti i mali e le eresie del mondo fossero
effetto dei miei peccati (30,8).
Espressioni del tutto simili si trovano anche
negli scritti di S. Caterina da Siena e di altri mistici.
Questa prima reazione tuttavia non provoca
abbattimento e meschinità, ma generosità e impeto.
— La seconda conclusione che Teresa ne trasse fu
che non c’era sulla terra alcuna altra sofferenza paragonabile a quella che la
Chiesa pativa, tanto che—disse—« mi sembra una cosa indegna provar dolore per
qualsiasi altra cosa ». E possiamo anche solo intuire quanta libertà dia
all’uomo il saper soffrire solo per cose che ne valgono la pena, senza perdersi
in infinite meschinità.
— La terza conclusione fu che lei, Teresa,
avrebbe fatto—come disse—« quel poco che stava in me ».
« Quel poco » però ci lascia senza flato per la
sua consequenziale radicalità: si impegnò davanti a Dio ad agire con quanta
maggior perfezione possibile, cioè: si impegnò con un voto a scegliere in ogni
occasione ciò che le apparisse maggiormente perfetto.
Se ci si pensa bene e se non si ha un cuore
veramente grande, è una promessa terribile che può rinchiudere l’anima in una
morsa esasperata. E difatti i suoi confessori glielo annullarono e glielo
fecero rifare in una forma un po’ più sfumata.
Infine (per un insieme di circostanze e di
richieste autorevoli) capì di doversi dedicare non solo alla guida di quel primo
conventino che aveva fondato, ma a riempire la Spagna di comunità monastiche
simili a quella, fino a diventare la Riformatrice (qualcuno dice Fondatrice)
dell’intero Ordine Carmelitano.
Alla sua morte la Spagna aveva 16 nuovi
monasteri femminili tutti immaginati e vissuti come piccoli nuclei in cui il
mistero della Chiesa
—Sposa, Vergine e Madre—si incarna e si offre
nella sua espressione più viva e bruciante.
Lo stesso farà, assieme a S. Giovanni della
Croce, per il ramo maschile dell’Ordine.
L’ampiezza di questa sua opera è narrata in un
libro scritto da lei stessa (Fondazioni) che da solo
offrirebbe materiale
per un lungo racconto. Possiamo solo ricordare come la situazione
ecclesiale
del tempo, e certe traversie proprie dell’Ordine Carmelitano e delle
condizioni socio-ecclesiastiche vigenti allora in Spagna coinvolsero
Teresa in un lavoro
faticosissimo che non fu soltanto quello di lunghi ed estenuanti viaggi e
trattative per far nascere quelle sue nuove comunità, ma fu ancor più
l’indicibile fatica di doversi districare tra tutti coloro che—in quel
panorama
confuso e turbato, la sommergevano di ordini e di consigli spesso
contraddittori tra loro.
Giunse fino a cadere nelle mani
dell’Inquisizione, fino a sentirsi definire dal Nunzio pontificio come «
una donna disobbediente e vagabonda che va contro gli ordini del Concilio di
Trento », fino a sapere che, da Roma, il Generale dell’Ordine era
disgustato di lei e di tutte le notizie che la riguardavano.
E Teresa attraversò tutto con pazienza, energia,
intelligenza, con un sano orgoglio di donna (abbiamo dei bei testi che
piacerebbero molto alle femministe più intelligenti) e soprattutto con la sua
intensa passione per Cristo, comunicando dovunque, intorno a sè, un nuovo modo
di capire e di vivere il mistero della preghiera.
Prima di lei si credeva spesso che pregare—in
quella fase altissima e profonda che si chiama « contemplazione »—volesse
dire tentare di raggiungere la purezza tranquilla del mondo di Dio, astraendo
dalle preoccupazioni della terra.
Teresa insegnò alle sue monache che contemplare
vuoi dire tenere gli occhi fissi alla Santa Umanità di Cristo e dunque a tutto
il mistero di questa Umanità: alla gloria della sua Resurrezione, ma anche al
dolore della sua passione, e non solo alla passione accaduta un tempo, ma anche a quella che continua ad accadere nel
corpo di Gesù che è la Chiesa.
La Chiesa con i suoi drammi, le sue sofferenze,
i suoi problemi, le sue realtà più concrete, le persone singole che la
compongono è non solo lo scopo per cui bisogna pregare (Teresa insegna alle sue
monache che altrimenti esse non realizzano affatto la loro vocazione, per quanto
possano dedicarsi al silenzio e alla contemplazione dei misteri di Dio), ma
tutto ciò è anche, per così dire, la materia della preghiera, ciò di cui il
dialogo con Dio è sostanziato.
E mentre la vita di Teresa trascorre in
un’attività che all’occhio superficiale sembra frenetica e che invece la lascia
sempre nella profondissima pace della amicizia sponsale con Cristo (ella ha
ricevuto delle grazie mistiche così intense che definisce come
« matrimonio
spirituale », e sa d’avere il cuore realisticamente ferito da tale
amore), ella deve sviluppare anche—quasi controvoglia—una intensa attività magisteriale.
Su questo è proprio necessario soffermarci un
po’.
Al tempo di Teresa la Chiesa già viveva da
quindici secoli, ma se allora uno avesse cercato in una immaginaria biblioteca
cristiana, non avrebbe trovato quasi nulla di dottrinale scritto da una donna:
solo qualche raro testo e per lo più scritto in situazione estatica.
Teresa è in senso proprio la prima donna
scrittrice, nella Chiesa.
Aveva una sua cultura: conosceva abbastanza bene
la Bibbia, alcuni Padri della Chiesa, e molti autori spirituali sia medievali
che quelli più in voga al suo tempo.
E—paradossalmente—visse in un momento in cui
l’Inquisizione—impaurita, poiché vedeva errori e pericoli dappertutto--mise
nell’indice dei libri proibiti quasi tutti i libri spirituali in volgare
che Teresa possedeva, ordinando di distruggerli, cosa che lei fece
obbedientemente. (« Sarò io -le disse Cristo - il tuo libro vivente »).
Ebbene, questa donna, che avrebbe voluto essere
lasciata in pace a filare la sua rocca, dovette scrivere per obbedienza,
nell’ultima fase della sua vita, dai 50 ai 67 anni, quando-se si tiene
conto dell’età media del tempo-aveva un’età che oggi corrisponderebbe a quella
di una donna di 70-80 anni.
Scrive con un tratto di penna così incisivo che
i grafologi restano impressionati perfino del tratto così marcato e giovanile
che la penna traccia sul foglio.
Ha raccontato per iscritto la sua Vita,
soprattutto quella interiore come si racconta un viaggio al centro della propria
anima. Ha raccontato i lunghi viaggi compiuti per le strade di
tutta la Spagna e le avventure corse durante le sue varie Fondazioni. Ha
scritto libri di spiritualità (Cammino di Perfezione) per insegnare alle
sue suore e ai suoi amici come si prega, per reagire all’editto
dell’Inquisitore che ha fatto bruciare gli altri libri, creando qualcosa di
nuovo. Ha scritto migliaia di Lettere in cui dialoga coi personaggi più
diversi (dal re, ai teologi, ai confessori, ai suoi collaboratori, ai familiari,
ai suoi frati e alle sue suore), lettere che ci offrono un panorama stupendo
non solo della sua attività e dei suoi interessi, ma anche delle affinità che
ella è capace di far sorgere e di alimentare: non c' é movimento ecclesiale del
suo tempo che non l’abbia vista interlocutrice attenta e piena di simpatia.
Una bella espressione di quel tempo ci dice che
molti, perfino il Re Filippo II « ricevevano le sue lettere come dottrina
viva per il loro bene ». E infine, nell’ultimo periodo della sua vita, scrisse
il suo capolavoro: il Castello interiore.
Lo scrisse per obbedienza, non senza resistenze.
Disse:
Perché vogliono che io scriva? Lo facciano i
dotti, quelli che hanno studiato: io sono ignorante e non saprei esprimermi;
finirei per mettere mi vocabolo al posto di un altro... mi lascino filare con la
mia rocca, attendere al coro e agli uffici della vita religiosa con le altre
sorelle. Non sono tagliata per scrivere, non ho salute né testa per questo
lavoro...
E difatti la sua salute non era buona: i mal di
testa erano sempre più frequenti, le preoccupazioni sempre più assorbenti, non
ultima quella dell’Inquisizione che intanto stava esaminando puntigliosamente il
libro della Vita.
Scrive il Castello interiore in cinque
mesi: parte di getto, parte con continue interruzioni dovute a viaggi o
imprevisti.
Molti di voi forse sanno che anche in questo
nostro secolo è stato scritto un libro celebre intitolato Il Castello. -
un romanzo di Kafka in cui il protagonista è chiamato dal Signore del Castello,
è assunto con regolare contratto, abbandona tutto per recarvisi, ma poi si trova
nell’assurda situazione di non potervi entrare e di non potersi neppure
allontanare. Appartiene al Castello perché ha un contratto da rispettare, ma
non può entrarvi perché nessuno ha bisogno di lui e il Castello sembra non
avere alcuna porta. E' impenetrabile.
Con questa parabola angosciante Kafka voleva
descrivere l’assurdità a cui è approdato l’uomo moderno.
Ebbene, trecentocinquant’anni prima, Teresa d’Avila
aveva invece descritto un Castello, quello dell’anima, ricco
di molteplici dimore e migliaia di stanze tutte disposte concentricamente
attorno alla dimora centrale, quella più intima, nella quale abita Dio Trinità
e da cui emana uno splendore intensissimo che si riflette in tutto il Castello.
Certo più si è lontani dal centro, più il
fascino può essere solo intuito; più ci si addentra, più si scopre la bellezza
di Dio e della dimora stessa, come se ci si avvicinasse al sole.
La porta d’ingresso, per tutti, anche per chi è
ancora nel freddo e nel buio del peccato, in compagnia di animali e dì rettili
che infestano la periferia del Castello, è la preghiera: chi prega come
può, senza rinunciarvi—anche se è ancora invischiato nei peccati—tiene comunque
aperta la porta e tiene vivo il desiderio di quel cammino che dovrebbe
percorrere. Soprattutto tiene la porta aperta a
Dio che può sempre far sentire il suo
irresistibile richiamo.
Una volta superato l’ingresso, sarà quel sentore
di sicurezza, di calore, di luminosità, di bellezza sempre crescente che
invoglierà l’uomo a camminare fino a quando s’incontrerà—già in questa terra—col
Signore del castello. Teresa descrive accuratamente tutte le tappe del
percorso creando immagini piene di poesia e di verità per spiegarle, una dopo
l’altra.
Quando, ad esempio, si giunge a quella dimora
decisiva in cui l’anima deve decidersi finalmente a lasciar fare a Dio,
abbandonandosi alla sua azione per essere da Lui trasformata, la Santa ci
racconta la parabola del baco, il piccolo verme che piano piano matura finché
comincia a secernere la seta, e con la seta si costruisce lui stesso la sua casa
dorata dove può nascondersi e morire, da dove poi rinascerà come splendida
farfalla bianca.
Commenta Teresa:
Questa casa è Cristo.., infatti la nostra vita è
nascosta in Cristo... Oh, grandezza di Dio, in che sublime stato esce l’anima
dopo essere rimasta per qualche tempo immersa nell’immensità di Dio e così
strettamente unita a Lui!
Teresa scriveva quando lei era ormai giunta al
centro del Castello della sua anima, quello che lei chiama « l’ultima
dimora ».
Chiedendo a una persona amica, di far leggere a
un teologo, in segreto, le pagine che descrivono questo punto di arrivo, Teresa
confessò umilmente:
Gli dica che la persona da lei conosciuta (cioè:
lei stessa) è giunta a questa dimora e gode la pace ivi descritta. Così la sua
anima è molto tranquilla.
Questa confessione non deve però trarci in
inganno: « Dio-—ha scritto un giorno Teresa—non vezzeggia le anime »:
più le ama e più fa loro percorrere tutta la strada percorsa da Gesù Cristo,
fino alla Croce. Così, per un disegno misterioso di Dio, negli ultimi giorni
della vita, le accadde ciò che, fino a qualche tempo prima, le sarebbe sembrato
impossibile: esperimentò quella che il suo biografo chiama la
« tristezza dei sentimenti sanguinanti
» e anche
« l’appuntamento con la solitudine ».
Il suo ultimo viaggio, affrontato con pena e per
pura obbedienza perché ormai si sentiva « molto vecchia e stanca », fu
tutto un seguito di umiliazioni e di delusioni: in un monastero, per una
questione di eredità, si vide male accolta e quasi cacciata; in un altro, la
Priora che le era sempre stata affezionata le si mostrò così ostile (per un
richiamo ricevuto) che la Santa afflitta non riuscì a prendere sonno
e la mattina se ne partì febbricitante, senza aver il coraggio di chiedere nulla
per il viaggio. Durante il lungo cammino si sentì male e chiese qualcosa da
mangiare; la suora che l’accompagnava non riusciva a trovar nulla e le portò,
piangendo dal dispiacere, qualche fico secco rimasto nella bisaccia.
Non piangere, figlia mia—le disse Teresa—,
questo è quello che Dio ci chiede adesso.
« Mi consolava—raccontò la
compagna—dicendomi che non mi dovevo affliggere perché quei fichi erano
veramente molto buoni e che tanti poveri non avevano neppure quel
piccolo dono ».
Finalmente giunse ad Alba de Tormes e chiese di
potersi subito coricare:
Mio Dio—disse-—come mi sento stanca, sono più di
vent’anni che non mi corico così presto.
Numerose emorragie la sfinirono. Stava nel suo
letto come una povera vecchietta e tutti la udivano ripetere:
O Dio, non disprezzare il mio cuore contrito e
umiliato.
Si sentiva afflitta al ricordo dei suoi peccati
e chiedeva perdono d’aver servito Dio così male.
Alle sue suore diceva di restare fedeli alla
loro vocazione e alla Regola e di non guardare il cattivo esempio che lei aveva
dato. Le guardava tutte attorno al suo letto e diceva:
Sia benedetto Dio che mi ha condotto in mezzo a
voi, come se loro fossero il suo rifugio e la sua protezione.
Ripeteva spesso, come per spiegarlo al Signore:
In fondo sono figlia della Chiesa
e aggiungeva:
Ti ringrazio, Signore Dio mio e Sposo della mia
anima perché hai fatto di me una figlia della tua Santa Chiesa Cattolica.
Le chiesero se voleva essere seppellita ad Avila,
in quel monastero che tanto amava. Si mostrò stupita oltremodo:
Gesù, disse, è mia cosa da chiedere questa? Ho
forse io qualcosa di mio? Qui non mi faranno la carità di un po’ di terra?
Raccontò il suo biografo:
« Alle cinque della sera
chiese il SS. Sacramento e stava ormai così male che non riusciva più a muoversi
nel suo letto... Quando si accorse che
giungevano con l’Eucaristia e vide entrare per la porta della cella quel Signore
che tanto amava—benché fosse così prostrata e avesse addosso una pesantezza
mortale che le impediva anche solo di rigirarsi— si sollevò senza l’aiuto di
nessuno, tanto che pareva si volesse gettare dal letto e bisognò tenerla...
Diceva:
O Signore mio, e mio Sposo, è giunta l’ora che
ho tanto desiderato. E' tempo ormai che ci vediamo. E' tempo che io venga, è l’ora
giunta... ».
Verso le nove di sera—poco prima di morire—il
volto le si illuminò in modo impressionante, divenne radioso e la mano che
stringeva il Crocifisso si serrò con tanta forza che non riuscirono più a
toglierglielo. Morì muovendo le labbra e sorridendo come se parlasse a Qualcuno
che era finalmente giunto.
Le suore di tutti i monasteri raccontarono poi
i prodigi che accaddero dappertutto, mentre la loro Madre moriva.
Quelle di Alba di Tormes raccontarono il
prodigio più delicato: c’era un piccolo alberello rinsecchito davanti alla
finestra della cella in cui Teresa moriva: non aveva mai dato fiori né frutti.
Ed ecco che, dopo quella notte, all’alba l’alberello era tutto coperto di fiori
bianchi come la neve. Ed era il 5 ottobre.
Questo perché, se Teresa aveva amato Gesù come
uno Sposo, ancor più Gesù aveva amato Teresa.