domenica 27 luglio 2014

Papa Francesco ai sacerdoti di Caserta : " Si può essere creativi cristianamente solo se contemplativi..."Dialogo e ...arrabbiature..."

D..La domanda che Le pongo: come è possibile in questa società, con una Chiesa che si auspica di crescita e di sviluppo, in questa società in una evoluzione dinamica e conflittuale e molto spesso lontana dai valori del Vangelo di Cristo, noi siamo una Chiesa molto spesso in ritardo. La Sua rivoluzione linguistica, semantica, culturale, di testimonianza evangelica sta suscitando nelle coscienze certamente una crisi esistenziale per noi sacerdoti. Come Lei suggerisce a noi delle vie, fantasiose e creative, per superare o quanto meno per attutire questa crisi che noi avvertiamo? Grazie.
 
R. (Santo Padre)
Ecco. Come è possibile, con la Chiesa in crescita e sviluppo, andare avanti? Lei diceva alcune cose: equilibrio, apertura dialogica… Ma, come è possibile andare? Lei ha detto una parola che mi piace tanto: è una parola divina, se è umana è perché è un dono di Dio: creatività. E’ il comandamento che Dio ha dato ad Adamo: “Va e fa crescere la Terra. Sii creativo”. È anche il comandamento che Gesù ha dato ai suoi, mediante lo Spirito Santo, per esempio la creatività della prima Chiesa nei rapporti con l’ebraismo: Paolo è stato un creativo; Pietro, quel giorno quando è andato da Cornelio, aveva una paura di quelle, perché stava facendo una cosa nuova, una cosa creativa. Ma lui è andato là. Creatività è la parola. E come si può trovare questa creatività? Prima di tutto – e questa è la condizione se noi vogliamo essere creativi nello Spirito, cioè nello Spirito del Signore Gesù – non c’è altra strada che la preghiera. Un Vescovo che non prega, un prete che non prega ha chiuso la porta, ha chiuso la strada della creatività. E’ proprio nella preghiera, quando lo Spirito ti fa sentire una cosa, viene il diavolo e te ne fa sentire un’altra; ma nella preghiera è la condizione per andare avanti. Anche se la preghiera tante volte può sembrare noiosa. La preghiera è tanto importante. Non solo la preghiera dell’Ufficio divino, ma la liturgia della Messa, tranquilla, ben fatta con devozione, la preghiera personale con il Signore. Se noi non preghiamo, saremo forse buoni imprenditori pastorali e spirituali, ma la Chiesa senza preghiera diviene una ONG, non ha quella unctio Spiritu Sancti. La preghiera è il primo passo, perché è aprirsi al Signore per potersi aprire agli altri. E’ il Signore che dice: “Vai qua, vai di là, fai questo …”, ti suscita quella creatività che a tanti Santi è costata molto. Pensate al Beato Antonio Rosmini, colui che ha scritto Le cinque piaghe della Chiesa, è stato proprio un critico creativo, perché pregava. Ha scritto ciò che lo Spirito gli ha fatto sentire, per questo è andato nel carcere spirituale, cioè a casa sua: non poteva parlare, non poteva insegnare, non poteva scrivere, i suoi libri erano all’indice. Oggi è Beato! Tante volte la creatività ti porta alla croce. Ma quando viene dalla preghiera, porta frutto. Non la creatività un po’ alla sans façon e rivoluzionaria, perché oggi è di moda fare il rivoluzionario; no questa non è dello Spirito. Ma quando la creatività viene dallo Spirito e nasce nella preghiera. ti può portare problemi. La creatività che viene dalla preghiera ha una dimensione antropologica di trascendenza, perché mediante la preghiera tu ti apri alla trascendenza, a Dio. Ma c’è anche l’altra trascendenza: aprirsi agli altri, al prossimo. Non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere. È importante la trascendenza duplice: verso Dio e verso il prossimo. Uscire da sé non è un’avventura, è un cammino, è il cammino che Dio ha indicato agli uomini, al popolo fin dal primo momento quando disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra”. Uscire da sé. E quando io esco da me, incontro Dio e incontro gli altri. Come li incontro gli altri? Da lontano o da vicino? Occorre incontrarli da vicino, la vicinanza. Creatività, trascendenza e vicinanza. Vicinanza è una parola chiave: essere vicino. Non spaventarsi di niente. Essere vicino. L’uomo di Dio non si spaventa. Lo stesso Paolo, quando ha visto tanti idoli ad Atene, non si è spaventato, ha detto a quella gente: “Voi siete religiosi, tanti idoli … ma, io vi parlerò di un altro”. Non si è spaventato e si è avvicinato a loro, ha citato anche i loro poeti: “Come dicono i vostri poeti …”. Si tratta di vicinanza a una cultura, vicinanza alle persone, al loro modo di pensare, ai loro dolori, ai loro risentimenti. Tante volte questa della vicinanza è proprio una penitenza, perché dobbiamo sentire cose noiose, cose offensive. Due anni fa, un sacerdote che è andato missionario in Argentina - era della diocesi di Buenos Aires ed è andato in una diocesi al Sud, in una zona dove da anni non avevano prete, ed erano arrivati gli evangelici – mi raccontava che andò da una donna che era stata la maestra del popolo e poi la direttrice della scuola del paese. Questa signora lo fece sedere e incominciò a insultarlo, non con parolacce, ma insultarlo con forza: “Voi ci avete abbandonati, ci avete lasciati soli, e io che ho bisogno della Parola di Dio sono dovuta andare al culto protestante e mi sono fatta protestante”.  Questo sacerdote giovane, che è un mite, è uno che prega, quando la donna finì la cataratta, disse: “Signora, soltanto una parola: perdono. Perdonaci, perdonaci. Abbiamo abbandonato il gregge”. E il tono di quella donna è cambiato. Tuttavia rimase protestante e il prete non andò sull’argomento di quale fosse la vera religione: in quel momento non si poteva fare questo. Alla fine, la signora incominciò a sorridere e disse: “Padre vuole un caffè?” – “Sì, prendiamo il caffè”. E quando il sacerdote stava per uscire, disse: “Si fermi padre, venga”, e lo ha portato in camera da letto, ha aperto l’armadio e c’era l’immagine della Madonna: “Lei deve sapere che mai l’ho abbandonata. L’ho nascosta a causa del pastore, ma in casa c’è!”. E’ un aneddoto che insegna come la vicinanza, la mitezza hanno fatto sì che questa donna si riconciliasse con la Chiesa, perché si sentiva abbandonata dalla Chiesa. E io ho fatto una domanda che non si deve fare mai: “E poi, com’è finita? Com’è finita la cosa?”. Ma il prete mi ha corretto: “Ah, no, io non ho chiesto niente: lei continua ad andare al culto protestante, ma si vede che è una donna che prega: faccia il Signore Gesù”. E non è andato oltre, non ha invitato a tornare alla Chiesa cattolica. E’ quella vicinanza prudente, che sa fino a dove si deve arrivare. Ma, vicinanza significa pure dialogo; bisogna leggere nella Ecclesiam Suam, la dottrina sul dialogo, poi ripetuta dagli altri Papi. Il dialogo è tanto importante, ma per dialogare sono necessarie due cose: la propria identità come punto di partenza e l’empatia con gli altri. Se io non sono sicuro della mia identità e vado a dialogare, finisco per barattare la mia fede. Non si può dialogare se non partendo dalla propria identità, e l’empatia, cioè non condannare a priori. Ogni uomo, ogni donna ha qualcosa di proprio da donarci; ogni uomo, ogni donna, ha la propria storia, la propria situazione e dobbiamo ascoltarla. Poi la prudenza dello Spirito Santo ci dirà come rispondervi. Partire dalla propria identità per dialogare, ma il dialogo, non è fare l’apologetica, anche se alcune volte si deve fare, quando ci vengono poste delle domande che richiedono una spiegazione. Il dialogo è cosa umana, sono i cuori, le anime che dialogano, e questo è tanto importante! Non avere paura di dialogare con nessuno. Si diceva di un santo, un po’ scherzando – non ricordo, credo fosse San Filippo Neri, ma non sono sicuro – che fosse capace di dialogare anche con il diavolo. Perché? Perché aveva quella libertà di ascoltare tutte le persone, ma partendo dalla propria identità. Era tanto sicuro, ma essere sicuro della propria identità non significa fare proselitismo. Il proselitismo è una trappola, che anche Gesù un po’ condanna, en passant, quando parla ai farisei e sadducei: “Voi che fate il giro del mondo per trovare un proselito e poi vi ricordate di quello …” Ma, è una trappola. E Papa Benedetto ha un’espressione tanto bella, l’ha fatta ad Aparecida ma credo che l’abbia ripetuta in altra parte: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione”. E cosa è l’attrazione? È questa empatia umana che poi viene guidata dallo Spirito Santo. Pertanto come sarà il profilo del prete di questo secolo così secolarizzato? Un uomo di creatività, che segue il comandamento di Dio – “creare le cose” -; un uomo di trascendenza, sia con Dio nella preghiera, sia con gli altri, sempre; un uomo di vicinanza che si avvicina alla gente. Allontanare la gente non è sacerdotale e di questo atteggiamento la gente a volte è stufa, eppure viene da noi lo stesso. Ma chi accoglie la gente ed è vicino ad essa, dialoga con essa lo fa perché si sente sicuro della propria identità, che lo spinge ad avere il cuore aperto all’empatia. Questo è quello che mi viene di dire a lei, alla sua domanda..........

Contemplativo, ma non come uno che è nella Certosa, non intendo questa contemplatività. Il sacerdote deve avere una contemplatività, una capacità di contemplazione sia verso Dio sia verso gli uomini. E’ un uomo che guarda, che riempie i suoi occhi e il suo cuore di questa contemplazione: con il Vangelo davanti a Dio, e con i problemi umani davanti agli uomini. In questo senso deve essere un contemplativo. Non bisogna fare confusione: il monaco è un’altra cosa. ................................................................................

........... Una volta mi diceva un sacerdote, qui a Roma: “Ma, io vedo che tante volte noi siamo una Chiesa di arrabbiati, sempre arrabbiati uno contro l’altro; abbiamo sempre qualcosa per arrabbiarci”. Questo porta la tristezza e l’amarezza: non c’è la gioia. Quando troviamo in una Diocesi un sacerdote che vive così arrabbiato e con questa tensione, pensiamo: ma quest’uomo al mattino per colazione prende l’aceto. Poi, a pranzo, le verdure sott’aceto, e poi alla sera una bella spremuta di limone. Così la sua vita non va, perché è l’immagine di una Chiesa degli arrabbiati. Invece la gioia è il segno che va bene. Uno può arrabbiarsi: è anche sano arrabbiarsi una volta. Ma lo stato di arrabbiamento non è del Signore e porta alla tristezza e alla disunione. E alla fine, lei ha detto “la fedeltà a Dio e all’uomo”. E’ lo stesso che abbiamo detto prima. E’ la doppia fedeltà e la doppia trascendenza: essere fedeli a Dio è cercarlo, aprirsi a Lui nella preghiera, ricordando che Lui è il fedele, Lui non può rinnegare se stesso, è sempre fedele. E poi aprirsi all’uomo; è quell’empatia, quel rispetto, quel sentirlo, e dire la parola giusta con la pazienza.........
          

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