venerdì 24 febbraio 2012

I silenzi di Gesù di Mario Luzi -testo letto nella nostra Scuola di Cristianesimo

leggere il vangelo vuol dire tener conto anche di ciò che ci dice il poeta Luzi ..

I silenzi di Gesù

di Mario Luzi

Prolusione per l’inaugurazione dell'Anno Accademico dell’Istituto di Scienze Religiose ‘Italo Mancini’ dell’Univiersità di Urbino. 11 marzo 1995



Il Vangelo è un libro della parola di Gesù, ma se il Vangelo è il libro della Parola di Gesù, quale è il linguaggio di Gesù?
Diciamo subito: il linguaggio del Vangelo non è solo verbale, paradossalmente a me sembra che il Verbo si esprima di preferenza con altri modi, che il suo uso di parole sia molto parsimonioso. Non è, naturalmente, che quando la parola non parla, il Vangelo taccia. Il Vangelo opera sempre la comunicazione del verbo, è attivo sempre, l’azione del Vangelo è continua e con questo abbiamo già detto qualcosa forse di particolare, di essenziale nello stesso tempo, e cioè che questa azione - e credo il vocabolo sia stato usato appropriatamente (la Parola e tutto il linguaggio del Vangelo è azione, cioè è destinato a muovere, a determinare, a incidere sulla sostanza del vivente e sul corso della vita interiore, sulla storia dell’uomo) è sempre in corso. Se appunto non sempre è la parola in primo piano, il Vangelo parla lo stesso, il Vangelo ha il suo linguaggio, è attivo.

Ci sono le opere, ci sono i miracoli, ci sono le lunghe marce che noi possiamo intravedere attraverso i territori, ci sono le solitudini, c'è la ressa delle turbe fuori e dentro gli abitati, tutto questo fa parte del linguaggio e c’è allo stesso titolo delle parabole, c’è al pari degli ammaestramenti. La Parola quando interviene è per dire (sottolinerei questa parola), dire nel senso di enunciare, di pronunziare definitivamente. E a me pare anche questo di avere potuto registrare.
Io vi confesso che quando parlo dei Vangeli in genere sono portato a riferirmi a Luca non perché Luca sia lo scrittore, quindi goda le simpatie di un letterato; no, ma perché c'è una ragione molto semplice, che quando si preparava l’edizione biblica della Cei fummo invitati alcuni, come il professor Devoto, a rivedere il testo, quindi a riviverlo proprio parola per parola, a rifarlo nostro interiormente e anche intellettivamente con una puntualità massima, la massima che potevamo perseguire. E questo naturalmente mi ha come spostato con la mia abitudine mentale verso Luca.
Luca ha d'altra parte quel ritmo incalzante, quella calibratura del tempo interno della narrazione che certamente ha il suo effetto e può suggerire delle interpretazioni del comportamento del Messia, nel suo predicare, nel suo stare tra gli altri. E’ una lettura che non è solo una registrazione, una lettura che effettivamente interpreta e crea. Detto questo devo aggiungere: La Parola che interviene, quando interviene? Egli interviene sempre in un senso perentorio e in un senso definitivo; mi pare si presenti come una riconquista. La riconquista di che cosa? Come La riappropriazione di una virtù possibile dopo un gorgo, dopo un accumulo, dopo un'eccedenza del non detto, di quello che non è stato detto oppure è stato detto erroneamente. Allora questa parola interviene per affermare, per asseverare o anche per intimare un divieto, ma come si fa quando si è consumato qualcosa di molto improprio, sia perché si è taciuto su ciò che bisognava dire oppure si è detto qualcosa, ma si è detto erroneamente. Quindi il suo stile subito prende quel vigore, quella autorità che non è solo di correzione, ma è anche quella di affermazione.
CONCRETEZZA DELLA PAROLA. La prima osservazione che viene fatto di registrare nel nostro intimo e poi anche criticamente, magari, nella nostra facoltà di osservazione è l'estrema concretezza della Parola. Gesù non può parlare in astratto, infatti non parla in astratto. Deve parlare in prima persona, deve
proporre se stesso come unico e supremo argomento. Infatti non è uno degli interlocutori, non è uno che partecipa a un distacco a cui altri possono partecipare allo stesso titolo, non è uno che disputi su qualcosa, su un tema, su un argomento, su un principio o delucidi una verità, ma è egli stesso la Verità. La sua opera di convinzione è perentoria e rapida. Basterebbe vedere come arruola i suoi fedeli, i suoi discepoli: sono due, tre parole e basta. La sua vittoria è immediata e qualche volta assomiglia ad una rapina, perché effettivamente porta via le persone, porta via dietro di sé i titubanti, oppure gli incerti senza dare respiro. Quindi l'estrema concretezza di questo dire che ha un'origine e un riferimento preciso. E’ irrevocabile. Concreto questo linguaggio, concreta anche questa parola, nel senso che gli oggetti e anche i riferimenti a cui ricorre il suo magistero sono altrettanto concreti. Questo è stato osservato ad abundantiam, sempre lo si evoca come prova di concretezza. Sono argomenti e oggetti presi dal paesaggio naturale e umano della regione in cui si svolge l’azione, dalla quotidianità, e anche dalla proverbialità perché qualche volta ci si riferisce evidentemente a degli esempi e storie che erano nella cultura popolare del tempo, del paese e della contrada. Detto questo, dalla concretezza passerei a osservare invece quello che forse è ancora più importante ed è l’assolutezza. 

ASSOLUTEZZA della PAROLA. Nei Vangeli non c’è posto per il conversare interlocutorio. Non che non possiamo supporre, non possiamo immaginare che un parlottare ci sia intorno a Gesù, ma solo in disparte, solo discosti da lui i discepoli sembra che si confidino le loro cose, si intrattengano sulle loro preoccupazioni familiari, domestiche. Tutto questo si può percepire forse dai testi della Vulgata, ma i casi e i particolari non figurano, non sono scritti. Il discorso di Gesù cala a picco sui discepoli dal suo silenzio, ed è un discorso essenziale, mirato, abitato dalla profezia. La Parola è richiamata al suo compito primario, che è quello di dire, di proferire non di divagare o di intrattenere. Ha questa energia e questa verità. Il linguaggio di Gesù è assoluto come quello che contiene la verità e non deve cercarla. La disputa che allunga il discorso e lo rende interminabile tra gli uomini di qualunque levatura sino al supremo filosofo è soppressa. Qui non c'è, perché? Gesù è la verità, la sua parola contiene la verità e non deve cercarla, deve asseverarla e comunicarla; per questo qualche volta appare coperto e un po' sibillino a coloro che lo ascoltano e sono ancora troppo distanti dalla verità o non si sono ancora inseriti nel suo modo di comunicare.
Tra coloro che l’ascoltano e se stesso e anche tra i discepoli e se stesso, non solo quindi tra le turbe, le moltitudini, ma anche tra i discepoli e se stesso, Gesù mette spesso il silenzio. Questo silenzio è come una sintassi che lega nel racconto i tempi della cronaca e lega nel linguaggio le varie parti, le varie componenti. Anche il silenzio richiama la parola alla sua fonte, alla sua scaturigine perché la parola viene dal silenzio e torna al silenzio, dopo avere però espresso, detto, detto veramente, il suo messaggio. E questo silenzio si sente. Anche questo non è molto detto, ma si sente; e anche per questo io prediligo il testo di Luca che fa sentire questi silenzi, li scolpisce direi. Il silenzio esalta la parola; infatti quello che oggi mortifica la parola è la mancanza di silenzio. La parola viene da altre parole. La parola è moltiplicata, è usata in eccesso più per non dire che per dire, più per dissimulare un pensiero oppure per simulare un pensiero inesistente. Noi sappiamo che questa è  la malattia del nostro tempo: tutti gli strumenti che noi stessi ci siamo creati ci invitanio a rifiutare la dimensione così profonda del silenzio, che è il rapporto essenziale con la parola, come il deserto è un termine di rapporto essenziale con la società, la sociabilità; per cui abbiamo il ritiro nel deserto, l'esperienza del deserto, il raccoglimento nel silenzio: sono parti essenziali dell'esperienza religiosa, delle origini e del periodo del primo cristianesimo, del grande cristianesimo iniziale oltre che esempio tratto dalla vita di Cristo e da Cristo stesso.
Ci manca questo silenzio e allora noi possiamo anche percepire con una certa vertigine la presenza del silenzio tra le parole che Cristo dice, tra i momenti in cui è disposto a ricevere e a dare e i momenti in cui si concentra sul suo destino, sulla sua natura, sul suo compito. Questo silenzio è anche, secondo me, un'affermazione imponente. Ci dice che va preservato il diritto divino dell'ineffabile; c'è qualcosa che non si può dire, che non si può dire con parole e che però fa parte ancora di quel linguaggio più vasto di cui vi dicevo all'inizio perché il Vangelo appunto non è solo verbale. Questo è splendido, questa potenza del silenzio che vuole quasi garantirci che c'è un ineffabile, qualcosa che non può essere pattuito con l'economia delle parole umane, ma che ha il suo eloquio ugualmente come scansione, come tempo interno delle parole che invece si possono dire. Questo silenzio che a volte si alza tra Gesù e i suoi, siano essi i discepoli, siano essi gli ascoltatori, e che si alza qualche volta anche tra l'uno e l'altro dei discepoli. C'è qualche passo in cui certe cose rimangono non dette, isolate.

Il silenzio interminabile è il continuo della predicazione, del magistero; è educativo al massimo perché accumula profondità; è come la differenza che distingue Gesù dagli uomini.
Gesù si è fatto uomo, ma a un certo punto è più forte in lui la correlazione con ciò che è al di sopra; con il suo superiore universo. Non è una distanza che egli vuole riconquistare, ma una necessità interiore di far sentire la differenza. Anche con questo comunica il mistero. C'è qualcosa che non è alla portata della parola degli uomini, non riducibile alla loro parola. Questo equivale a dire che c'è un mistero; ed è un mistero che non nasconde, ma anzi si illumina come tale, si comunica come tale. Cosa secondo me
molto bella e grande (ma meriterebbe naturalmente tutta un'altra trattazione). Il mistero è un vocabolo che noi usiamo e di cui abusiamo e abbiamo troppo abusato; ­perché in fondo è anche comodo; quello che non è intelligibile lo chiamo mistero: per cui hanno avuto buon gioco i filosofi dell'ottimismo positivista o gli scienziati euforici del positivismo quando nel mistero vedevano l'ignoranza. Vedevano la prova della superstizione, la prova di tutto ciò che essi imputavano alla religione o alla metafisica, come negativo. Ma mistero è una forma, invece, di conoscenza. C'è una conoscenza per mistero, come c'è una conoscenza per idee e anche per formule, se volete.
Nei Vangeli, mi sembra, la presenza del mistero non solo aleggia, ma è proprio palpabile, sensibile, e nel linguaggio del Vangelo è inclusa anche la presenza del mistero come nozione non negativa. Non come un divieto a conoscere, ma anzi come un'offerta di conoscenza. La parola che emerge dunque dal silenzio, da quel silenzio, ha una forza straordinaria di intimazione. Come tale si presenta più volte e allora, quando si presenta come intimazione (ed è molto frequente) porta uno sconvolgimento nella logica abituale. La logica ordinaria, che si era per abitudine e per educazione incrostata nella mente degli ascoltatori, deve far posto invece a qualcosa che era imprevedibile: la forza di rottura che ha questa parola, la Parola, che viene a fare giustizia di luoghi comuni, di credenze convenzionali che erano più lettera morta che spirito. Gesù parla sempre senza un'intesa preventiva, non ha quel tipo di complicità che hanno spesso gli oratori i quali sanno di avere già fatto breccia oppure sanno di avere già nella cultura degli ascoltatori un assenso o un consenso. Parla solo; sa di essere solo, sa di essere nuovo, sa di essere uno. Cosi parla Gesù e gli altri sono tutti sullo stesso piano di ignoranza, se vogliamo. Non che ci sia disprezzo, ma c'è la consapevolezza che gli altri non sanno perché non hanno ancora avuto la vera rivelazione. Ignoranza di non sapere, tutti, inclusi i dotti e gli scribi come voi sapete.

ECONOMIA DELLA PAROLA. La parola e le parole. Gesù divide il pane con i discepoli, si disseta con loro alle rare fontane, si ferma con loro nelle stesse mense ospitali, cammina con loro nel polverone sollevato dalle turbe che lo accompagnano per le strade di Galilea; ma quando parla, parla dalla sua solitudine e dalla sua necessità. La parola risulta cosi posta in alto, su tutto. Chiaro l'avvertimento: che non abbiamo cioè il diritto di dire parole inutili, di avvilire questo dono: «Vi dico invero che di ogni parola oziosa gli uomini avranno detto renderanno conto nel giorno del giudizio. Infatti sarai assolto secondo le tue parole e secondo le tue parole sarai condannato». Qualora avessimo dubbi sulla priorità della parola nel complesso dell'umano, ecco, siamo serviti.
La parola che nasconde e non apre il pensiero o lo dissimula, quella degli scribi, dei farisei, dei maliziosi, degli infidi, Gesù non si cura neppure di correggerla. Li mette alle strette, li sbaraglia, disdegna di persuaderti. Del resto non è un dottore ma un Maestro. Tutti i mezzi e i modi sono buoni per insegnare davvero: il grande discorso della Montagna, le parabole, i detti concisi; i bruschi richiami, talora impietosi verso inveterate superstizioni, le care abitudini, i formalismi, gli ossequi vuoti e anche verso gli affetti gelosi della famiglia.

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